ROMA mercoledì, 14 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervista rilasciata dal Cardinale Walter Kasper, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, in vista della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani e apparsa sul settimo numero di “Paulus” (gennaio 2009), dedicato alla “caratteristica essenziale di San Paolo: essere apostolo”.

 

 

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di Paolo Pegoraro

 

Che la verità sia un servizio – e non un braccio di ferro o un mercanteggiare compromessi –, è da sempre una profonda convinzione del cardinal Walter Kasper. Egli ha trovato nella Lettera agli Efesini il proprio personale programma di lavoro: «Affinché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto... Vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo» (cfr. Ef 4,11-16). Con la presidenza del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, nel 2001, il cardinal Kasper è giunto a conclusione di un percorso ricchissimo: dall’insegnamento ventennale presso le università di Münster e Tübingen, accanto all’amico Joseph Ratzinger, alla nomina al Segretariato per l’Unità dei Cristiani nel 1979, fino ai dieci anni di guida pastorale della diocesi di Rottenburg-Stuttgart. Lo abbiamo incontrato in un raro momento di calma, appena di ritorno da Istanbul e già in partenza per Mosca, come delegato papale alla cerimonia di esequie del patriarca Alessio II.

Per l’Anno Paolino Benedetto XVI ha chiesto d’imprimere un «nuovo slancio» al dialogo ecumenico. C’è stato, dunque, un momento di stallo?

«Non uno stallo, quanto piuttosto un grande cambiamento della situazione ecumenica. La Chiesa è sempre pellegrinante, perciò vive inserita nelle continue mutazioni storiche. Abbiamo perciò bisogno di un nuovo slancio e di un nuovo entusiasmo, per guardare all’unico traguardo che è l’unità visibile della Chiesa, che non significa uniformità, ma unità nella fede, nei sacramenti e anche nel ministero apostolico. Il concetto cattolico non può essere altro che questo e a obbligarci è la volontà del Signore che ha pregato perché tutti siano una cosa sola. Questo è, per così dire, il nostro “programma”».

Nel suo intervento a Tarso, in occasione dell’apertura dell’Anno Paolino, lei ha sottolineato che «Paolo era un ardente testimone di Cristo, e allo stesso tempo un uomo di dialogo». Testimonianza e dialogo, dunque. Qual è il modo corretto di fare ecumenismo?

«Papa Giovanni Paolo II ne ha dato una chiara definizione affermando che “il dialogo ecumenico non è soltanto uno scambio di idee, ma uno scambio di doni”. Ogni comunità ha i suoi doni, dunque possiamo imparare gli uni dagli altri nella scambievolezza e avvicinarci così sempre più a Gesù Cristo. In questo contesto, è necessaria in primo luogo la testimonianza. Nessuna Chiesa può abbandonare la sua condizione e ciò in cui crede, ma la sua testimonianza fa sì che l’altro possa meglio comprendere e meglio accettare quanto egli afferma. “Dialogo” significa non opprimere l’altro con le proprie convinzioni, quanto piuttosto invitarlo all’accoglienza e all’accettazione. Così ha fatto e continua a fare la Chiesa, dopo quarant’anni dal Concilio Vaticano II».

Lei ha assunto come motto episcopale proprio le parole paoline «Veritatem facientes in caritate» (Ef 4,15). L’ecumenismo ha una vocazione profetica anche davanti alle grandi sfide sociali del nostro tempo, in cui il rapporto con lo straniero/diverso viene concepito in modo utopico o in modo cinico, ma raramente con sodo realismo?

«Fondamentali per l’ecumenismo sono la verità e la condivisione della verità. La verità innanzitutto non è “la nostra”, ma è una verità che c’è stata donata dal Signore nella sua rivelazione. E il contenuto di questa verità è che Dio è carità. E dobbiamo dirlo in modo tale che l’altro possa comprenderlo e accettarlo. Sia chiaro: questo modo di comunicare la verità non è utopia, ma l’unica vera alternativa alla violenza. Cinica semmai è la violenza, che è anch’essa un’utopia, perché non risolve nulla. D’altra parte, però, non credo nemmeno che si giungerà a un dato momento storico in cui tutti i cristiani saranno una sola medesima cosa. Abbiamo fatto alcuni progressi con gli ortodossi e con gli orientali, c’è in corso un avvicinamento anche con molti protestanti… si procede solo così, passo dopo passo. Ma abbiamo la promessa di nostro Signore: Egli ci ha detto che Lui è con noi. Il dialogo, dunque, non va inteso soltanto fra uomini, ma è anche un dialogo con Dio. E noi siamo convinti che l’ecumenismo sia un impulso dello Spirito Santo: è a lui che dobbiamo affidarci».

Benedetto XVI ha fruttuosamente incentivato il dialogo con la Chiesa ortodossa: si avvicina l’incontro tra Roma e Mosca?

«Va detto che l’intenzione del Santo Padre è di avvicinare ulteriormente tutte le Chiese ortodosse. Abbiamo gli stessi sacramenti, aderiamo alla venerazione dei santi e soprattutto della Madonna, condividiamo il ministero episcopale e i dogmi del primo millennio. Di recente, quando mi sono ritrovato a Costantinopoli per la celebrazione della festa di sant’Andrea, si percepiva che tra noi esiste una vera amicizia. E anche con la Chiesa ortodossa russa i rapporti sono molto migliorati e vogliamo che migliorino ancora. Tuttavia non si deve tentare un “abbraccio storico” fra Mosca e Roma che escluda le altre Chiese. Vogliamo un dialogo con tutte le Chiese ortodosse nel loro insieme, nonostante le tensioni fra Costantinopoli e Mosca».

Come procede, invece, il dialogo con le comunità riformate? Non si sono registrate adesioni alla celebrazione dell’Anno Paolino nelle loro maggiori chiese dedicate all’Apostolo.

«Le comunità protestanti hanno un altro modo di celebrare e partecipare a questo evento. Ad esempio, vi sono molti pellegrinaggi alla Basilica di San Paolo fuori le Mura, anche non ne viene dato un giusto rilievo. E sono stati coinvolti in un simposio accademico sulle Lettere paoline che ha avuto luogo nel monastero di San Paolo. Così, anche all’apertura dell’Anno era presente un delegato dell’arcivescovo di Canterbury. Ha fatto loro una grande impressione che la Chiesa cattolica prende sul serio le Lettere di san Paolo, fondamentali soprattutto per la dottrina sulla giustificazione in ambito protestante. Soltanto a partire dalle Lettere paoline possiamo arrivare a un più ampio consenso e penso che nel mondo protestante quest’Anno Paolino avrà risvolti positivi. È vero che oggi il dialogo con loro è più difficile di quello con gli ortodossi, e dobbiamo riconoscerlo con sincerità, ma non per questo dobbiamo chiuderci. Chi vuole un dialogo serio con la Chiesa cattolica, può averlo».

Attorno alla cristologia c’è un consenso generale, mentre sono ancora aperte le questioni ecclesiologiche: il ministero petrino per i fratelli ortodossi, il fondamento episcopale per i fratelli riformati.

«Sì, per questo l’ecclesiologia è al centro del nostro dialogo. Con gli ortodossi condividiamo all’incirca la stessa ecclesiologia sacramentale ed episcopale, e al momento ci concentriamo sul primato petrino. Abbiamo cominciato a discuterne già al Convegno di Ravenna e ci prepariamo a un nuovo passo molto importante: un documento da presentare alla prossima plenaria a Cipro sul ruolo del Vescovo di Roma nella comunione universale del primo millennio. Con i protestanti vi sono alcuni avvicinamenti, ma si tratta di tutt’altra ecclesiologia... la successione apostolica dei vescovi è solo la punta dell’iceberg. Bisogna prima affrontare i fondamenti dell’ecclesiologia. Ma al momento il dialogo non è molto facile. Davanti alle diffe renze, allora, dobbiamo ricordarci che il dialogo richiede molta pazienza e che la pazienza è la piccola sorella della speranza».

Nel suo libro Vie dell’unità lei ha scritto che il progresso ecumenico è affidato alla conversione non dell’altro a sé, ma di ognuno a Cristo: senza questo, chiunque è abbastanza intelligente da prolungare per secoli la catena delle obiezioni. Che cos’è l’ecumenismo spirituale?

«Che l’ecumenismo spirituale sia il vero cuore dell’ecumenismo lo ha sottolineato il Concilio Vaticano II ed è anche mia personale convinzione. Perché l’unità nella Chiesa non è qualcosa che noi possiamo fare o organizzare a tavolino. L’unità nella Chiesa è un dono, un regalo che ci viene dall’Alto. E perciò ecumenismo significa fare propria la preghiera di Gesù, affinché tutti siano una sola cosa. Ecumenismo significa chiedere questo dono nel nome di Gesù. Vuol dire pregare e celebrare insieme – se non l’eucaristia – certamente la Parola di Dio, anche nei tempi liturgici e nelle festività comuni. Significa che possiamo collaborare nella diakonía, cioè nel servizio agli altri in campo sociale ed educativo. Ci sono molte cose che possiamo fare insieme, ma soprattutto ora – dopo questo Sinodo sulla Parola di Dio – è molto importante leggere, meditare e pregare insieme la Bibbia. Sulla Parola di Dio ci siamo divisi e sulla Parola di Dio dobbiamo di nuovo riunirci. Il Sinodo sulla Parola di Dio mi è sembrato fondamentale per un ecumenismo realistico. È un ecumenismo in senso spirituale – ribadisco – perché tutte le iniziative che si possono e si devono fare daranno frutto soltanto se provengono da una più profonda realtà spirituale: l’unità con Cristo. Quanto più siamo riuniti con Cristo, tanto più saremo riuniti anche con gli altri».

L’eucaristia, sacramento dell’unità, è un altro centro della sua riflessione teologica: un punto di arrivo o un mezzo concreto per rendere manifesta l’unità nell’unico Signore?

«L’eucaristia non è soltanto una celebrazione individuale, ma la celebrazione comunitaria della Chiesa, secondo un principio che risale fino a san Paolo. Nella Chiesa antica si partecipava all’eucaristia nella comunità a cui si apparteneva: era un segno della loro intima unità. Anche per noi, oggi, la celebrazione dell’eucaristia approfondisce tale unità, e così essa è segno e anche strumento. Ma dev’essere un segno onesto della condivisione della stessa condizione di fede. Che cos’è l’eucaristia? dove si può celebrare l’eucaristia? Sono interrogativi da applicare anche per il sacerdozio. Per questo, al momento, noi e tutte le Chiese orientali del primo millennio siamo convinti che, in stato di separazione e di scisma, l’eucaristia comune non sia purtroppo possibile. Ma dobbiamo fare tutto il possibile affinché lo diventi. Prima di ogni eucaristia preghiamo per quest’unità e per la pace della Chiesa e questo è, a mio avviso, davvero essenziale».