CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 9 gennaio 2009 (ZENIT.org).- La liturgia è chiaramente uno degli ambiti che sta più a cuore a Papa Benedetto XVI il quale, oltre a celebrare esemplarmente la liturgia, ha emanato il Motu Proprio Summorum Pontificum, che ha reinserito a pieno titolo la liturgia tradizionale nell'uso della Chiesa.
Il tema liturgico suscita anche un vivo dibattito tra gli studiosi, come testimoniano le diverse prese di posizione su un recente volume di Nicola Bux.
ZENIT ha parlato con don Mauro Gagliardi, Ordinario di Teologia presso l'Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma e Consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.
L'ultimo volume di don Nicola Bux sulla riforma liturgica di Benedetto XVI sta conoscendo un buon successo presso i lettori, ma sta anche suscitando un certo dibattito tra gli specialisti. Prof. Gagliardi, potrebbe darci qualche linea di interpretazione di questo volume?
Gagliardi: In una mia breve presentazione dell'ultimo libro di Nicola Bux, La riforma di Benedetto XVI. La liturgia tra innovazione e tradizione, Piemme, Casale Monferrato 2008 (cf. Sacrum Ministerium 14 [2008/2], pp. 144-145), esordivo scrivendo: «Il Concilio Vaticano II ha dato l'avvio ad una riforma della liturgia che ha conosciuto diverse fasi e che è ancora in corso. Va interpretato in quest'ottica il bel titolo dell'ultimo libro di don Nicola Bux». Con queste parole notavo implicitamente la sintonia da me avvertita tra lo spirito espresso dal volume del noto studioso pugliese e quanto io stesso avevo sostenuto un anno prima nel mio libro dal titolo Introduzione al Mistero eucaristico. Dottrina – liturgia – devozione, San Clemente, Roma 2007, in cui avevo affermato che la riforma liturgica, avviata con il Concilio Vaticano II (ma in realtà già prima), non sia affatto conclusa, bensì ancora «in fieri». Perciò, in modi e misure diverse, tutti i papi postconciliari vi hanno apportato il proprio contributo: da Paolo VI a Benedetto XVI.
Naturalmente simile riforma, essendo un lavoro lungo e laborioso – non si dimentichi che essa è cominciata da soli quarant'anni! – comporta un'enorme fatica e soprattutto un'enorme pazienza, come pure la consapevolezza di dover essere sempre vigilanti sulla sua corretta applicazione, ma anche l'umiltà di saper rivedere degli aspetti – persino se universalmente autorizzati, o addirittura promossi dalla vigente normativa – se questi aspetti dovessero essere problematici, o anche solo migliorabili. D'altro canto, chi oggi ritiene che il rito di Paolo VI abbia migliorato quello di San Pio V non afferma anche, più o meno direttamente, che la normativa precedentemente stabilita e vigente doveva essere migliorata? E perché, allora, la normativa che riguarda il Novus Ordo dovrebbe ritenersi perfetta ed intoccabile? In una riforma liturgica ciò che conta non è affermare le proprie idee a tutti i costi, anche contro l'evidenza, bensì aiutare la Chiesa ad adorare sempre meglio la Santissima Trinità. Tutti, infatti, o quasi, convengono nel riconoscere che l'adorazione del Padre per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo è l'essenza e al tempo stesso il fine della sacra liturgia, o culto divino. Essendo questo punto comune pressoché a tutti gli studiosi seri, si vede che bisogna costruire a partire da qui.
Lei ritiene, dunque, che il recente libro del suo collega don Nicola Bux sia di aiuto a comprendere l'indole teologica della liturgia?
Gagliardi: Nicola Bux dedica a questo punto basilare, ossia alla comprensione teologica della sacra liturgia, i primi due capitoli del suo libro. Gli altri capitoli si rivolgono, invece, ad analizzare lo stato attuale della riforma liturgica ancora in atto: la situazione concreta, ma anche la storia recente che ha condotto ad essa. Egli riconosce che «è in atto una battaglia sulla liturgia» (p. 45; cf. p. 50). La liturgia è attualmente oggetto conteso tra innovatori e tradizionalisti – anche il sottotitolo del libro fa riferimento a ciò – ed ognuno cerca di tirare l'acqua al suo mulino, sottolineando gli aspetti teologici e giuridici che fanno al caso proprio e insabbiando o "reinterpretando" i dati sfavorevoli alla propria tesi preconcetta. Simile atteggiamento si trova sia nella cosiddetta "destra" che nella cosiddetta "sinistra". Invece, Don Bux avvisa: «Non ha senso essere a oltranza innovatori o tradizionalisti» (p. 46) e mi pare che tutto il suo libro vada inteso in quest'ottica. Innanzitutto va ricordato che si tratta di un libro volutamente sintetico, che getta sul tappeto i temi da discutere, più che fornire lunghi approfondimenti su ciascuno di essi. È un invito alla riflessione, al dialogo, allo studio, anche – se si vuole – al confronto serrato tra le diverse posizioni, ma curando che il confronto sia fondato su argomentazioni e non su pregiudizi di parte. È un libro che si propone di essere equilibrato e di invitare all'equilibrio. «Si tratta di un ammonimento agli uni e agli altri – scrive l'Autore, a proposito di un tema particolare, riferendosi agli innovatori ed ai tradizionalisti – perché ritrovino l'equilibrio» (p. 63). Questo è il tentativo e la proposta che don Bux vuol fare con il suo volume.
In questo modo entriamo nel vivo dibattito tra gli studiosi, che attualmente assumono posizioni diverse non solo sulla teologia liturgica ma anche sulle concrete disposizioni disciplinari che la Chiesa stabilisce in materia.
È chiaro che la posizione moderata è sempre la più difficile, sia da esporre che da difendere. Non mancheranno, infatti, attacchi sia da "destra" che da "sinistra". Simile reazione sembra esserci anche nei confronti dell'opera di cui stiamo parlando. Vorrei illustrare questo stato di fatto, chiamando in causa due imminenti recensioni al libro di don Bux. Da una parte, quella di Bernard Dumont, che apparirà a breve nel numero invernale della rivista francese Catholica; dall'altra, quella di Matias Augé, che circola in internet da qualche tempo e, si prevede, verrà prossimamente pubblicata su una rivista italiana. Dumont dà una valutazione tutto sommato favorevole del libro di Bux, ma gli rimprovera di non essere andato fino in fondo con la sua critica alla liturgia attuale (ossia, alla forma ordinaria). Secondo Dumont, infatti, Bux avrebbe fatto dei lievi cenni di critica alla riforma liturgica in sé, ma si sarebbe soffermato soprattutto sulla critica agli abusi, che ovviamente sono deformazioni della riforma e non parte di essa. Egli scrive (la traduzione dal francese è mia): «Nicola Bux [...] ritiene che la prima causa [dell'attuale situazione] è l'applicazione all'ambito liturgico della "svolta antropologica" formulata da Karl Rahner. [...] Questa famosa "svolta" (che – aggiunge Dumont – è piuttosto un capovolgimento, tra l'altro manifestato molto bene dal capovolgimento degli altari, non previsto esplicitamente in origine) ha tuttavia dei forti appoggi giuridici, sui quali converrebbe essere chiari. Perché ci sono degli atti giuridici che hanno permesso o istituito questo capovolgimento, e non solo le pressioni di attivisti o il mimetismo delle équipes di animazione: ma le decisioni di vescovi, le decisioni di dicasteri e consigli della Curia debitamente comandate, e i discorsi stessi di Paolo VI che esprimono il suo assenso».
Egli continua in seguito: «L'Autore menziona tuttavia le critiche del rito riformato (e non della sua sola pratica) fatte da mons. Klaus Gamber, Lorenzo Bianchi e Martin Mosebach, ma egli non vi insiste. Tatticamente, egli rigetta mano a mano, in una simmetria retorica perfetta, tradizionalisti e progressisti. Avendo fatto ciò, egli può ripartire con nuovo slancio in una critica molto ampia degli abusi liturgici». Tuttavia, avvisa Dumont, «gli abusi così stigmatizzati non sono altro che la pratica più o meno universalmente diffusa del nuovo Ordo dopo il 1969». In sintesi, la critica di
Dumont consiste nel riconoscere il seguente difetto nell'opera di don Bux: stigmatizzerebbe gli abusi, ma farebbe solo brevi cenni al fatto che è il Novus Ordo in sé il problema, nonché tutta la conseguente normativa, sia dei dicasteri vaticani che delle conferenze episcopali; normativa che avrebbe per lui incoraggiato, o almeno permesso, uno stile celebrativo come quello che oggi conosciamo. Allora, non si tratterebbe più di abusi, ma della norma. Pertanto, l'attuale ordinamento liturgico, siccome non tradurrebbe più il senso divino della liturgia, andrebbe rigettato in toto.
Se ci spostiamo ora alla seconda recensione, la critica fatta da Matias Augé è di tutt'altro ordine. Lungi dal criticare la riforma liturgica postconciliare, il noto liturgista attribuisce a don Bux la responsabilità di tale critica. Egli scrive che, a partire dal III capitolo, nel libro «il tono del discorso è fortemente polemico diventando una serrata critica dell'applicazione della riforma liturgica postconciliare nonché della riforma stessa» (corsivo mio) e che l'Autore fa una descrizione della «battaglia sulla riforma liturgica [...] in cui lo sconfitto è la cosiddetta "forma ordinaria" del rito romano, e cioè la riforma della liturgia attuata dopo il Vaticano II». Uno dei rilievi che Augé ripete più di una volta nella sua recensione consiste nell'individuare nel testo un «intreccio» e una «confusione» di «valutazioni negative sulla liturgia riformata [...] con le valutazioni pure esse negative sulla sua celebrazione».
Che impressioni ha di queste opposte critiche?
Gagliardi: Mi pare di poter dire che i due Recensori concordino su un solo punto: il volume in analisi non offrirebbe secondo loro una valutazione corretta del rapporto tra la riforma in sé e gli abusi che si verificano nella celebrazione svolta secondo il Novus Ordo. Tuttavia, mentre Dumont afferma ciò dicendo che gli abusi coincidono con la riforma stessa e quindi essa va invalidata, Augé separa nettamente le due cose, dicendo che la riforma in sé è più che valida e ha migliorato la celebrazione rispetto al rito cosiddetto "di San Pio V", mentre per quanto riguarda gli abusi, anch'egli stigmatizza «la stupida faciloneria con cui alcuni presbiteri presiedono le celebrazioni liturgiche» (corsivo mio); e conclude: «Vorrei però che tutto questo proliferare di abusi non sia un alibi per smontare pezzo a pezzo la riforma liturgica» (di nuovo, corsivo mio: mi pare che tra le due espressioni evidenziate ci sia contraddizione). Di fronte alla possibilità di rivedere la riforma operata sotto Paolo VI, Augé conclude chiedendosi: «Tale eventuale riforma della riforma dove dovrebbe prendere ispirazione, dal Messale del 1962 o dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium? Invece di spendere tante energie in questa operazione, non sarebbe meglio spenderle per approfondire sempre più intensamente la liturgia della Chiesa "celebrata secondo i libri attuali e vissuta prima di tutto come un fatto di ordine spirituale"?». Alla base di queste due domande di Augé sembrano esserci due presupposti: primo, che la «riforma della riforma» possa consistere o nel tornare al rito di San Pio V, o nel seguire il dettato conciliare. Ma questo presupposto non si basa sull'idea che tra l'insegnamento liturgico del Vaticano II e quello precedente vi è un'insanabile discontinuità? Non vi sono spazi per un «et-et»? Il secondo presupposto si nota nell'espressione «liturgia della Chiesa», applicata per indicare la normativa postconciliare. Esprimendosi come fa Augé, non si afferma indirettamente che il Messale promulgato nel 1962 dal Beato Giovanni XXIII non è «liturgia della Chiesa»? O, se l'espressione «liturgia della Chiesa» va caratterizzata in base al testo da lui citato (ripreso dalla Vicesimus quintus annus), non c'è il rischio di lasciar intendere che la liturgia preconciliare non era «un fatto di ordine spirituale»?
In conclusione, come ci si deve orientare per comprendere il senso dell'attuale dibattito e delle decisioni del Santo Padre in materia liturgica?
Gagliardi: Le domande ed osservazioni sopra esposte ci permettono di affacciarci su quello che, in fondo, è il punto di appoggio del volume di Don Bux e quindi anche delle critiche ad esso: il Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI. Don Bux ritiene che esso rappresenti un segno evidente di un progetto di rinnovamento liturgico e di incremento della sacra liturgia, che senza alcun ragionevole dubbio sta certamente a cuore al Papa. La decisione pontificia – da molti ridotta ad una prospettiva strettamente ecumenica, come "concessione" ai lefebvriani (che tuttavia, questo lo si dimentica, non avevano bisogno del Motu proprio, perché da sempre celebrano con il rito antico) – ha per l'Autore un significato molto più ampio e che va nella direzione di un «superamento della cesura operata nel processo di riforma della liturgia contrapponendo il nuovo rito all'antico» (p. 45). A me pare che don Bux veda giusto: il Santo Padre stesso ha dichiarato, nella Lettera apostolica che accompagna il Summorum pontificum, che l'obiettivo della sua decisione è quello di «giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa». Non si tratta solo di una riconciliazione con chi è "fuori" della Chiesa, come formalmente sono (per ora) i lefebvriani; si tratta di una riconciliazione «interna»: quindi tra i cattolici. Perciò il punto debole della riforma postconciliare va individuato, come fa Don Bux, non tanto nella riforma in sé (che pure presenta, come ogni cosa umana, aspetti migliorabili e altri persino da rivedere), quanto nel fatto di aver voluto presentare il Novus Ordo non solo come nuovo, ma come opposto all'Antiquior. È questo strappo alla continuità della tradizione che ha causato e causa incomprensioni, polemiche e sofferenze. La riforma postconciliare deve essere compresa come novità nella continuità: solo questo permetterà di condurla in porto. Sì, perché – lo ripeto – essa non è affatto conclusa. Non ho qui, purtroppo, la possibilità di analizzare punto per punto le altre critiche mosse al volume in questione – si può discutere su ognuna e valutare quanto colga nel segno, o quanto fraintenda, per aver operato una lettura selettiva e parziale di esso. Ma resta certo che un volume come questo è destinato, nell'attuale momento, ad essere segno di contraddizione proprio perché cerca di favorire – in modo particolare tra gli studiosi del settore, ma anche tra le contrapposte "fazioni" di sostenitori di una sola delle due forme del rito romano – l'umiltà, la comprensione, la tolleranza e l'apertura mentale (cf. p. 87), obiettivo che coincide con quello di Benedetto XVI.
Su un punto almeno, però, voglio prendere posizione chiara a fianco dell'Autore: anch'io sono convinto che la formazione liturgica del popolo di Dio – pur doverosa e raccomandata come minimo dal Concilio di Trento in poi – non sia da sola sufficiente per favorire il vero spirito liturgico e il corretto stile adorante del culto cristiano. Il Concilio di Trento insegnò che «la natura umana è tale che non può facilmente elevarsi alla meditazione delle cose divine senza aiuti esterni: per questa ragione la Chiesa come pia madre ha stabilito alcuni riti [...] per rendere più evidente la maestà di un sacrificio così grande e introdurre le menti dei fedeli, con questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle sublimi realtà» (DS 1746). Ciò vuol dire che le menti si elevano a Dio non solo attraverso la formazione, ma anche e soprattutto attraverso i segni visibili e sacri del culto divino, che proprio per questo vengono fissati dalla Chiesa. Perciò don Bux può rallegrarsi del fatto che «sta nascendo un nuovo movimento liturgico che guarda alle liturgie di Benedetto XVI; non bastano le istruzioni preparate da esperti, ci vogliono liturgie esemplari che facciano incontrare Dio» (p. 123).
Il pieno r ecupero dell'Usus Antiquior per la celebrazione della Messa non va forse in questa direzione, sottolineando, come ha scritto il Papa, che «le due forme del rito possono arricchirsi a vicenda»? È in questa direzione, tracciata da Benedetto XVI, che si incammina la proposta di Nicola Bux e credo che tutti coloro che hanno a cuore il bene della Chiesa – il che io do per presupposto, sia da parte dei tradizionalisti che degli innovatori, al di là delle concrete vedute parziali – dovrebbero accogliere l'invito a confrontarsi, camminando sul sentiero della riforma ancora «in fieri».