Famiglia e sistema economico

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ROMA, giovedì, 13 marzo 2008 (ZENIT.org).- Gli insegnamenti di Cristo nel suo percorso terreno hanno segnato la più grande rivoluzione sociale della storia: libertà, uguaglianza, giustizia, carità, difesa dei poveri e dei deboli, ricerca della verità e della bellezza, realizzazione della civiltà dell’amore, sono concetti fondanti dell’insegnamento evangelico.

Per secoli l’attenzione della Chiesa cattolica alle questioni sociali è stata indicata come morale cristiana. Con l’evolversi dei tempi e con l’Enciclica “Rerum Novarum”, il Magistero ha avviato, con una metodologia organica e sintetica, l’analisi e l’insegnamento della Dottrina Sociale.

Coerentemente con questo processo di ricerca e confronto tra le verità ultime e le moderne questioni sociali, ZENIT ha deciso di dar vita a una rubrica di Dottrina Sociale e Bene Comune.

L’obiettivo è quello di far conoscere in maniera vasta e approfondita la Dottrina Sociale della Chiesa, cercando anche di contribuire all’avanzamento della stessa sui diversi temi dell’antropologia, dell’economia, del lavoro, dell’ambiente, della finanza, della scienza e dello sviluppo.

Di seguito pubblichiamo il contributo del prof. Tommaso Cozzi, docente di Economia e Gestione delle Imprese presso l’Università di Bari, sulla società dei consumi e il ruolo economico e sociale della famiglia.

 

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Bisogno, desiderio, capriccio: le tre forze del consumismo

Ogni società ha delle forze che agiscono al suo interno e che determinano la caratterizzazione dei suoi membri. Il consumismo del passato era sospinto dal soddisfacimento dei bisogni. Gli economisti del diciannovesimo secolo, hanno considerato il bisogno come l’essenza della solidità, come il “principio di realtà” che prevale sul “principio di piacere”. Ma la storia del consumismo è la storia della disgregazione e dell’abbattimento della solidità che limita la fantasia e la dimensione del piacere. Pertanto il bisogno è stato sostituito dalla maggiore fluidità del desiderio. Il desiderio è un’entità molto più volatile, effimera, cangiante ed evasiva completamente avulsa dai bisogni. Il desiderio a differenza del bisogno, non necessita di causalità. Ha come oggetto costante se stesso, ed è per questo destinato a rimanere insaziabile. Per questo il desiderio ha ceduto il posto a una diversa economia psichica che lo sostituisce completamente come forza propulsiva del consumo: il capriccio. Il consumismo odierno non si muove più sulla stimolazione dei desideri ma sulla liberazione di capricciose fantasie.

I desideri non vanno soddisfatti o meglio, non vanno esauditi completamente, in modo tale che per i consumatori ci sia sempre qualcos’altro da desiderare e da migliorare. La società dei consumi riesce a rendere permanente l’insoddisfazione attraverso due mezzi: la svalutazione e la denigrazione di prodotti subito dopo averli presentati con la maggior enfasi possibile, nell’universo fragile dei desideri umani; soddisfare completamente ogni desiderio/bisogno in modo che al sistema non rimanga altro che generarne di nuovi e sempre più appetibili. La conditio sine qua non di una società dei consumi perfettamente funzionante sta nell’infrangere le promesse fatte e nel deludere le aspettative. I desideri continuamente frustrati fanno in modo che la domanda dei consumatori non si esaurisca mai. E’ l’eccesso della somma delle promesse a neutralizzare la frustrazione. L’economia del consumo si basa sull’inganno, sull’esagerazione e sullo spreco che fungono da garanzie per la longevità di questo sistema. 1

La “solitudine” del consumatore

Nella società dei consumi la comunità non esiste. In essa i membri costituiscono un’entità molto più simile ad uno sciame che ad un gruppo. Ogni elemento dello sciame ripete singolarmente i movimenti degli altri, dall’inizio alla fine. Lo scambio, la cooperazione, la complementarietà tipiche di una comunità si dissolvono miseramente in favore di una semplice prossimità fisica e di una generale direzione di movimento.

Nella non-comunità dei consumi non ci sono ribelli o elementi di disturbo, solo pecore nere. La società dei consumi produce la disgregazione dei gruppi a vantaggio della formazione degli sciami per una causa ben precisa: il consumo non è un’attività collettiva ma solitaria, è perfino l’archetipo della solitudine anche quando avviene in compagnia. Lo sciame non gode di legami saldi ma di relazioni occasionali, superficiali, senza influenze future né proiezioni nel passato, che durano il tempo dell’atto del consumo. I membri dello sciame condividono gli spazi fisici senza intrattenere alcun rapporto sociale.

Nei templi del consumo non si sviluppa interazione ma azione pura e semplice. La cooperazione non viene richiesta, non è necessaria, ed è decisamente superflua. Lo sciame dei consumatori è nella sua costituzione, molto lontano dall’idea di una totalità o di una congregazione; esso è piuttosto una massa multiforme. L’interesse personale prevale su tutto; arrivare prima di qualcun altro alla conquista dell’ultimo esemplare del prodotto in offerta, rappresenta un successo senza eguali; avere l’esclusiva su un prodotto è un fattore di orgoglio, che alimenta la propria autostima, che permette di mostrare la propria superiorità rispetto al resto dello sciame. Basti pensare alle folle immense nelle giornate di apertura di una particolare offerta, come avviene in Italia presso le varie sedi di una nota catena di elettrodomestici: quello che si scatena è un “tutti contro tutti”, e non importa se si ricade a volte nell’inciviltà, l’importante è arrivare primi, raggiungere l’obiettivo, giungere al traguardo della cassa con la sensazione di esser riusciti a prevalere su un altro con desideri analoghi.2

I consumi low cost della famiglia italiana

La diffusione rapida degli outlet in tutta Italia è indice di comportamenti di spesa orientati al low cost anche per l’abbigliamento: si è ormai consolidata l’idea che è meglio acquistare un capo di collezioni passate ad un prezzo accessibile, piuttosto che seguire la moda a tutti i costi non avendone comunque la possibilità. Inoltre gli outlet delle grandi firme consentono di coniugare la garanzia della griffe ai benefici del risparmio.

Un tempo, nello slang, la parola outlet significava spazzatura; tale termine è sopravvissuto all’evoluzione linguistico-culturale assumendo il significato di “svendita di lusso”. E’ cambiata la lingua o la vita dei consumatori? Il credito al consumo ha rivoluzionato strutturalmente i modelli di vita della famiglia italiana, diventando di dimensioni sempre maggiori. In soli sei anni il volume del credito al consumo è aumentato del 157,1%. I finanziamenti che pesano di più sulle famiglie italiane sono quelli la cui restituzione è prevista entro i cinque anni; si registra però un aumento di quelli che vanno oltre i cinque anni e una diminuzione dei finanziamenti di durata annuale.

Il credito al consumo è diventato anche un’arma a doppio taglio: 530 famiglie ammettono di far fatica a pagare le rate. Non sorprende, pertanto, che l’individualizzazione crei disagio e disagiati. Non sorprende, pertanto, che le nostre famiglie siano in disagio e disagiate. In disagio nei confronti delle dinamiche economiche, disagiate nel senso economico del termine e cioè povere.

Accanto alla linea di produzione che sforna consumatori felici ce n’è un’altra, meno pubblicizzata ma non per questo meno efficiente, che fabbrica persone squalificate ed escluse sia dalla festa dei consumi che dalla corsa all’individualizzazione. Anche la famiglia non è immune dagli effetti di tali cambiamenti. Infatti, essa sembra diventare ogni giorno di più, almeno in apparenza, una costruzione sociale artificiale e contrattuali
stica, debole, concentrata su se stessa ed incapace di apertura e di respiro largo, luogo dove i vari individualismi personali rischiano di prosperare a scapito del bene comune creando profonde lacerazioni, restrittiva nella generazione della prole e meno capace di educarla, limitata nelle opportunità relazionali tra generazioni.

Viviamo dentro una cultura ed una comunicazione sociale nella quale si tende a trasformare ogni desiderio in diritto. Una società nella quale vale il principio: “se tu non vuoi, perché devi impedire che io possa?”. Una società cioè nella quale la soggettività individuale, la ricerca del proprio bene-essere diventa il criterio supremo dell’organizzazione sociale, negando che esistano beni umani insiti nella natura della persona umana che tutti devono riconoscere; che esiste un bene umano comune. Se volessimo usare la terminologia elaborata nella riflessione precedente, diremmo che il principio utilitaristico ha così completamente pervaso i nostri rapporti sociali rendendoli “scambio di equivalenti” come nei rapporti economici e nel mercato.3

Appare utile, a questo punto, riprendere l’idea di capitale sociale in termini “collettivistici” come proposta dal sociologo Robert Putnam (1993). Putnam definisce il capitale sociale come “la fiducia, le norme che regolano la convivenza, le reti di associazionismo civico, elementi che migliorano l’efficienza dell’organizzazione sociale promuovendo iniziative prese di comune accordo”. La famiglia ha in sé le potenzialità e le risorse che non sono di nessun’altra agenzia. E’ una forza sistemica e dovrebbe usare il suo potere di forza propositiva di valori: valori della vita, della solidarietà, della gratuità, della condivisione, che sono valori di umanizzazione per ogni suo componente e per tutta la società.4

La famiglia detiene una “soggettività sociale” che non le deriva da altri, perché è inscritta nella sua natura ed è frutto di quelle relazioni che stanno all’origine di ogni società. E, proprio per questo, ha la capacità di ridefinire i processi di socializzazione dell’individuo incidendo su quelli che sono i fenomeni che lo possono portare al suo impoverimento o addirittura all’annientamento di sé. E si rileva che il divario tra ciò che esiste e ciò che ci dovrebbe essere è ancora molto ampio. Le politiche familiari sono ancora agli inizi. Le varie politiche, come fino ad oggi sono state concepite, sono rivolte più ai bisogni di un individuo che è considerato destinatario unico dei diversi interventi di welfare. Un individuo solo, prescindendo dal contesto in cui esso vive, dal suo habitat familiare, dalle sue relazioni e reti di riferimento5.

E’ diverso parlare di tempi di lavoro pensando solo alla produttività o pensando, si, alla produttività, ma allo stesso tempo tenendo conto anche dei tempi delle famiglie, dei tempi destinati ai bisogni della relazione tra genitori e figli. Un tale capitale sociale non è tanto una risorsa da trovarsi nelle relazioni sociali, quanto piuttosto una risorsa che nasce dalle relazioni sociali. La famiglia, pertanto, è lo specifico del dono, dell’amore, dell’affettività, tutte caratteristiche che la fanno essere “tipico del Capitale Sociale”: una relazione tra i membri diversi (generi e generazioni) della famiglia che valorizza la relazione stessa producendo concretamente cura, tutela del minore o di chi è in difficoltà, azione economica crescita, dono, accoglienza, educazione, solidarietà…..Ribaltata appare l’ottica di chi adotta un approccio “individualistico”.

Le definizioni di capitale sociale proposte da chi segue tale approccio hanno quali protagonisti i singoli individui e le competenze e le capacità relazionali che essi posseggono. Il rapporto che intercorre tra la famiglia e la vita economica è particolarmente significativo. Da una parte, infatti, l’economia è nata dal lavoro domestico: la casa è stata per lungo tempo, e ancora continua ad essere, unità di produzione e centro di vita. Il dinamismo della vita economica, d’altra parte, si sviluppa con l’iniziativa delle persone e si realizza, secondo cerchi concentrici, in reti sempre più vaste di produzione e di scambio di beni e di servizi, che coinvolgono in misura crescente le famiglie.

La famiglia, dunque, va considerata, a buon diritto, come una protagonista essenziale della vita economica, orientata non dalla logica del mercato, ma da quella della condivisione e della solidarietà tra generazioni. Un rapporto del tutto particolare lega la famiglia e il lavoro. Il lavoro è essenziale in quanto rappresenta la condizione che rende possibile la fondazione di una famiglia, i cui mezzi di sussistenza si acquistano mediante il lavoro. L’apporto che la famiglia può offrire alla realtà del lavoro è prezioso, e per molti versi, insostituibile.6

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1 Z. Bauman, “Vita liquida”, Ed. Laterza, 2006.

2 Z. Bauman, “Homo consumens” Erickson Edit. 2007.

3 Carlo Caffarra, Relazione del 16/2/07 – Cento.

4 F. Gallo – Meeting internazionale delle famiglie, Ariano Polesine, 2006.

5 F. Gallo, op. cit.

6 Compendio, op. cit. nn. 248-254.

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ZENIT Staff

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