Bene comune e dottrina sociale della Chiesa

TREVISO, sabato, 3 febbraio 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l’intervento pronunciato da monsignor Giampaolo Crepaldi, Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, al Seminario nazionale sul tema “Bene comune e dottrina sociale della Chiesa in Italia. Dal Vaticano II a Benedetto XVI”, svoltosi a Treviso il 20 gennaio scorso in preparazione al centenario delle Settimane Sociali dei cattolici italiani (Pistoia 1907-Pisa 2007).

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In questa mia riflessione sul rapporto tra il bene comune e la dottrina sociale della Chiesa terrò conto della natura e delle finalità di questo Seminario. Non affronterò, quindi, il tema del bene comune in rapporto alla dottrina sociale da un punto di vista teorico e dottrinale così come è stato elaborato dal Magistero sociale. Prima di tutto perché coloro che mi ascoltano sono persone «esperte» di queste tematiche e certamente conoscono la dottrina e anche i luoghi in cui essa è espressa, dalla Costituzione pastorale «Gaudium et spes» del Concilio Vaticano II all’enciclica «Deus caritas est» di Benedetto XVI. In secondo luogo perché in questo Seminario ci si vuole interrogare e si intende riflettere in vista di un adeguato impegno dei cattolici nella società, approfittando dell’importante appuntamento della prossima centenaria edizione delle Settimane Sociali. Penso che l’incontro di oggi non debba essere celebrativo del nostro passato, ma dedicato alla discussione e alla ricerca, affinché, leggendo criticamente il passato, possiamo meglio impostare la nostra azione oggi e domani. Ecco perché preferisco toccare tre punti critici circa il rapporto tra bene comune e dottrina sociale della Chiesa nell’Italia di ieri e di oggi e su questi fare delle riflessioni da offrire come base di discussione. Più precisamente mi chiederò quali siano le tre principali carenze che nel recente passato hanno ostacolato l’apporto dei cattolici al bene comune. Ne risulterà, a contrario, quali siano le priorità che oggi i cattolici devono affrontare per mettere a frutto le potenzialità offerte loro dalla dottrina sociale della Chiesa in ordine alla costruzione del bene comune.

I

La prima necessità è quella di superare le indecisioni del passato circa il rapporto tra la vita di fede e il mondo, impostando in modo adeguato la questione della laicità. Ritengo che oggi non ci siano più alibi – se mai ce ne fossero stati di veramente validi in passato – per continuare ad alimentare vecchie incertezze e ingiustificate perplessità. Tutti noi abbiamo vissuto non pochi passaggi della nostra storia recente con sofferenza. Non sempre, nonostante la guida attenta del Magistero, si è resistito alle fughe in avanti, alle parzialità, all’indebolimento della propria identità. A causa di oggettivi cambiamenti sociali, culturali e politici, ma anche a causa di alcune carenti letture teologiche e sapienziali di quanto stava avvenendo, il rapporto del cosiddetto «mondo cattolico» con la più vasta comunità italiana ha spesso prodotto lacerazioni interne alla stessa cattolicità e, di rimbalzo, situazioni di incomprensione con il mondo laico. Dobbiamo riconoscere che questo ci ha impedito di dare tutto il nostro contributo al bene comune dell’Italia. Per tutti l’identità è una vocazione. Ciò è vero specialmente per la Chiesa, la quale può dare pienamente il proprio contributo quando assolve in pieno alla propria missione. Una teologia della separazione tra fede e politica si è alternata con una teologia dell’impegno diretto, mentre avanzava nel frattempo, non sufficientemente avvertita, una cultura dell’agnosticismo e del relativismo che, diventata impositiva e quasi dittatoriale, colpiva nel suo stesso cuore il messaggio cristiano, impedendone in modo radicale la ricezione. Perso di vista il caposaldo che l’uomo è «capax veritatis», diventa impossibile ritenere che egli possa essere «capax Dei» [1]. La lunga, estenuante, ideologica, critica rivolta alla dottrina sociale della Chiesa, nello spirito di evitare un presunto integralismo cristiano, ha reso talora insignificante il valore pubblico della nostra fede, secondo due modalità, opposte nelle motivazioni, ma convergenti nell’esito: o ponendola al seguito di messianismi terreni, di «profetismo senza Dio» [2], oppure relegandola nella personale vita religiosa, accettando nella sostanza l’idea di una laicità come neutralità [3]. Per lungo tempo i cattolici hanno nutrito forti dubbi sulla possibilità e sulla capacità della propria fede di animare una cultura sociale e politica e, così facendo, non sono stati sempre capaci di un vero e proprio discernimento. Nella Lettera ai Vescovi Italiani del 6 gennaio 1994 [4], Giovanni Paolo II invitava proprio a realizzare questo discernimento (n. 5) in quanto, egli scriveva, non è cessato il dovere di «esprimere sul piano sociale e politico la tradizione e la cultura cristiana della società italiana» (n. 5) mediante una «presenza unita e coerente» (n. 6). Le chiavi di volta di un simile impegno erano individuate in tre elementi tra loro connessi: la presa d’atto del fatto che le tendenze da cui l’Italia è indebolita sono proprio quelle che «nascono sullo sfondo della negazione del cristianesimo» (n. 4), che non esiste «neutralità» sul piano dei valori e, infine, che occorre opporsi ad un «modello postilluministico di vita» (n. 4). Quelle indicazioni sono di notevole attualità, soprattutto dopo l’evoluzione successiva del magistero di Giovanni Paolo II e le indicazioni che ci sta dando Benedetto XVI. Potremmo riassumere il tutto nel seguente modo. Il pieno recupero di una teologia della verità permette di non impoverire nelle coscienze dei fedeli il senso della verità della fede, di impostare il rapporto tra la fede e la ragione sulla collaborazione analogica, di fondare la possibilità che il cristianesimo continui a creare cultura, di aprire anziché chiudere alla fede cattolica un ruolo pubblico e di discernere nella modernità le tendenze nichilistiche da quelle autenticamente umanistiche.

Credo che i Vescovi italiani intendessero proprio questo quando, negli Orientamenti pastorali per questo decennio invitavano a testimoniare una fede adulta e «pensata» [5]. Anche la Nota dottrinale della Congregazione per la Dottrina della Fede del 2002 affermava che «la fede in Gesù Cristo […] chiede ai cristiani lo sforzo di inoltrarsi con maggiore impegno nella costruzione di una cultura che, ispirata al Vangelo, riproponga il patrimonio di valori e contenuti della Tradizione cattolica» [6]. Anch’essa invitava a «evitare il rischio di una diaspora culturale dei cattolici» [7]. Non sarebbe difficile ritrovare lo stesso messaggio anche nel Discorso di Benedetto XVI al IV Convegno ecclesiale di Verona [8]. Il fondamento di un simile impegno non va però inteso solamente come fedeltà alla storia del nostro Paese, ma come fedeltà alla verità e alla tradizione ecclesiale, espressione della medesima verità lungo la storia. Ponendoci poi dal punto di vista della società e della politica italiane, non dobbiamo pensare che esse accolgano la dimensione pubblica del cristianesimo solo per continuità con la storia italiana, perché ciò può risultare troppo debole rispetto al veloce disincanto cui sono soggette le nuove generazioni. La fede cristiana rivendica il proprio ruolo pubblico in quanto è espressione di verità e quindi di razionalità e di piena umanità. La nostra è la fede «nel Dio dal volto umano» [9]. Per lo stesso motivo, essa è indispensabile per il bene comune e per una ragione pubblica che non voglia porsi come fondamentalista. A queste esigenze fondamentali non si può dare realizzazione se non costruendo cultura, anche sociale e politica. Qui si inserisce in pieno la dottrina sociale della Chiesa – su cui tornerò in seguito – che, come dice Benedetto XVI, è all’incrocio tra la fede e la ragione [10].

II

Il secondo elemento su cui vorrei attirare la vostra attenzione è uno sviluppo ulteriore di quanto finora detto. Quando è in gioco la verità del cristianesimo è in gioco anche la verità dell’uomo. La Chiesa italiana si è data da tempo il programma del «Progetto culturale». Oggi questo programma, come sostiene il Cardinale Camillo Ruini, è giunto a uno snodo fondamentale che lo riconduce alla sua vera natura e lo apre ad un impegno ancora più ampio e profondo. Mi riferisco al fatto che la «nuova
questione antropologica» [11], frutto delle inaudite possibilità tecniche di manipolazione dell’uomo, ormai emerge a tal punto da non essere più separabile dalla questione sociale e viceversa. Recuperare la piena verità sull’uomo, sul suo posto nel cosmo e nella storia, sulla sua natura metafisica e la sua stessa identità antropologica, è la via oggi assolutamente necessaria per impostare in modo adeguato l’intera questione sociale. Si tratta di un percorso obbligato che richiede un impegno culturale ampio e coordinato, la collaborazione stretta tra Centri di pensiero e Organismi di azione sociale. Il bene comune ha bisogno di un nuovo impegno di intelligenza e di carità.

Qui dobbiamo riconoscere una mancanza dei cattolici italiani nel passato più o meno recente. Non abbiamo capito fino in fondo e per tempo che i temi della vita e della bioetica non erano temi di settore, ma a fondamentale valenza sociale. Per fare solo due esempi tra i più evidenti, anche se non tra i più importanti: gli insegnamenti di dottrina sociale della Chiesa o di morale sociale non trattano del problema della vita; le raccolte delle encicliche sociali non contengono mai la «Evangelium vitae» [12] . Non riusciremo a dare un valido contributo al bene comune dell’Italia se non dilatando la cultura della vita, dalla bioetica oltre la bioetica, e facendola diventare vera e propria cultura sociale e politica. Il motivo è di fondamentale importanza: l’accoglienza della vita ci apre ad accogliere l’indisponibile [13] e quindi fonda una cultura della vocazione piuttosto che una cultura del potere. Se i conti non tornano sul tema della vita non possono tornare da nessun’altra parte e in nessun altro aspetto del bene comune.

III

Per questo dicevo che il «Progetto culturale» è oggi spinto a guardare in profondità alle proprie stesse radici e ad aprirsi ad un più vasto impegno. Dentro questo impegno assume un ruolo fondamentale la dottrina sociale della Chiesa. Permettetemi su questo terzo punto, di fare delle osservazioni critiche e costruttive. Le incertezze di cui parlavo all’inizio circa la natura della dottrina sociale – incertezze ormai fuori tempo, ma che ancora resistono caparbiamente qua e là – sono state decisamente dileguate dal Magistero pontificio di questi ultimi decenni. Mi piace ricordare qui che Giovanni Paolo II ha precisato [14] che la dottrina sociale della Chiesa nasce dalla fede cristiana, ossia dalle parole e dalla prassi di Gesù e dal Suo annuncio pasquale di liberazione dal peccato e dalla morte. Nasce da una promessa e da un pegno di vita nuova, che non può non coinvolgere anche le relazioni sociali tra gli uomini. È espressione di una speranza in una società rinnovata e di una carità che si fa concreta solidarietà dell’intelligenza e del cuore. La dottrina sociale non è marginale alla vita cristiana, né è estranea all’annuncio della Chiesa. Per questo essa è strutturalmente legata alla liturgia e alla catechesi, alla preghiera e alla spiritualità cristiane ed è il cuore della pastorale sociale. Essa è anche lo strumento mediante il quale le comunità cristiane si fanno soggetti di cultura sociale e politica; i laici cristiani trovano in essa il comune riferimento ad un impegno nelle realtà temporali che non può mai essere semplice adattamento al mondo. Mi piace anche ricordare che Benedetto XVI ha collocato la dottrina sociale della Chiesa al centro dell’enciclica «Deus caritas est» [15] come strumento con cui la carità purifica la giustizia e la fede purifica la ragione. Non sarà possibile contribuire al bene comune tramite una nuova cultura della verità senza un utilizzo sistematico della dottrina sociale e, soprattutto, senza un suo utilizzo come motore di una interdisciplinarità ordinata. Dobbiamo riconoscere, però, che siamo ancora lontani da un fecondo dialogo delle discipline tra di loro e con la dottrina sociale, come pure da un vero e proprio piano formativo che abbia al centro la dottrina sociale vista, a sua volta, dentro l’intera vita della Chiesa.

C’è stato un periodo nella nostra storia recente in cui sembrava che la dottrina sociale potesse riprendere un vero e proprio ruolo propulsivo per il pensare e l’agire sociale e politico dei cattolici italiani. Mi riferisco ai primi anni Novanta del secolo scorso. C’erano sicuramente state delle cause storiche: la pubblicazione della Centesimus annus (1991), la celebrazione del centenario della Rerum novarum (1891-1991), i fatti relativi al crollo del Muro di Berlino (1989) e dell’Unione Sovietica (1991). Si respirava un’aria nuova e il magistero di Giovanni Paolo II sulla centralità della dottrina sociale della Chiesa per la vita cristiana sembravano dare frutti anche nel nostro Paese. C’era un nuovo fervore che si esprimeva in molti modi e attraverso molti segni. Vorrei qui ricordare alcuni avvenimenti molto importanti di quegli anni. Il ripristino delle Settimane Sociali, deciso nel 1988, la XLI Settimana Sociale nel 1991 sul tema «I cattolici italiani e la nuova giovinezza dell’Europa» e la XLII nel 1993, sul tema «Identità nazionale, democrazia e bene comune». (La XLIII si tenne a Napoli nel 1999, sul tema della società civile, e la XLIV a Bologna nel 2004, sulla democrazia).

Il Documento «Evangelizzare il sociale» della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro del 1992. Si trattava di un «Direttorio di pastorale sociale» che, per la prima volta, definiva finalità, metodi, strumenti e soggetti della pastorale sociale in Italia, teso all’azione pastorale sociale dell’intera comunità cristiana, per motivare, spingere, coordinare, sostenere e, soprattutto, inserire tale azione dentro la vita ordinaria della Chiesa. Il Convegno nazionale su «Famiglia e lavoro nella società italiana», organizzato dalla Conferenza episcopale italiana tramite l’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro nel 1994. Si trattò di un valido esperimento di collaborazione tra Uffici della Cei – quello per i problemi sociali e il lavoro e quello per la famiglia – e soprattutto di costruzione di una cultura sociale interdisciplinare a partire dalla dottrina sociale della Chiesa. Simili esperienze hanno il pregio di indicare un metodo di ampio respiro e di guardare non al contingente, ma alla costruzione del domani. Il ripiegamento sui piccoli problemi, l’attenzione alla sola spiritualità sociale, il disimpegno da una vera e propria costruzione culturale e da un progetto organico non sono in grado di valorizzare pienamente quanto la dottrina sociale della Chiesa può dare al bene comune dell’Italia. Il Compendio della dottrina sociale della Chiesa, pubblicato nel 2004 dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, è stato accolto con entusiasmo, ma è veramente e sistematicamente utilizzato? [16]

Il bene comune ha bisogno di una ragione pubblica che non escluda la verità della fede cristiana. Ha bisogno di cattolici che non riducano la propria fede a buoni sentimenti, ma anche ne testimonino il carattere veritativo. Ha bisogno che carità e verità si incontrino per un servizio intelligente all’uomo, espressione di «qual grande sì che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua storia» [17]. La dottrina sociale della Chiesa si colloca proprio all’incrocio delle strade tracciate dalla carità e dalla verità. Solo chiede di essere assunta e testimoniata per quanto essa è.

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[1] G. CREPALDI e S. FONTANA, La dimensione interdisciplinare della Dottrina sociale della Chiesa, Cantagalli, Siena 2006, p. 17.
[2] CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, 24 novembre 2002, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002, n. 7, p. 23.
[3] Cf su questo argomento:G. CREPALDI, Brevi note sulla laicità secondo Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, «Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa», II (2006) 1, pp. 3-16. < br> [4] GIOVANNI PAOLO II, Lettera ai Vescovi Italiani «Le responsabilità dei cattolici di fronte alle sfide dell’attuale momento storico. Appello ad una grande preghiera del popolo italiano», 6 gennaio 2004, Supplememento a «L’Osservatore Romano» del 13 gennaio 2004.
[5] «Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia». Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il primo decennio del 2000, 29 giugno 2001, Elle Di Ci, Leumann (Torino) 2001, n. 50, pp. 61-64.
[6] CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Nota dottrinale, cit. n. 7, p. 23.
[7] Ibidem.
[8] BENEDETTO XVI, Discorso al IV Convegno ecclesiale di Verona, «L’Osservatore Romano», 20 ottobre 2006, pp. 6-7.
[9] Ivi, p. 6.
[10] BENEDETTO XVI, Enciclica «Deus caritas est», n. 28 a.
[11] CARD. C. RUINI, Questione antropologica e questione sociale oggi, Relazione alla Conferenza internazionale su «Università e Dottrina sociale della Chiesa. Compito comune per un umanesimo integrale e solidale», Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace – Congregazione per l’Educazione cattolica, Roma 17-18 novembre 2006.
[12] Le difficoltà ad inserire pienamente l’impegno per la vita dentro l’impegno sociale e viceversa sono state evidenziate, nel tentativo di correggere la tendenza, dal Simposio internazionale «La difesa della vita: una missione dell’insegnamento sociale cristiano», organizzato dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace e dall’Associazione Internazionale per l’Insegnamento Sociale Cristiano (AIESC) e tenutosi presso il suddetto dicastero dal 15 al 16 settembre 2006.
[13] «Il rispetto della vita pone inequivocabilmente la società davanti all’indisponibile e quindi funge da matrice fondante una cultura dei doveri […]. Se, infatti, la vita non è vista come un dono e come una incondizionata responsabilità da assumere, quale altra responsabilità può avere significato obbligante per la comunità?» (S. FONTANA, Per una politica dei doveri dopo il fallimento della stagione dei diritti, Cantagalli, Siena 2006, p. 108).
[14] Per le questioni relative alla natura della dottrina sociale della Chiesa rimando a: G. CREPALDI e S. FONTANA, La dimensione interdisciplinare della Dottrina sociale della Chiesa, cit.
[15] G. CREPALDI, La carità sociale della Chiesa nella Deus caritas est di Benedetto XVI, «Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa», II (2006) 5, pp. 3-14.
[16] Cf alcune considerazioni in: G. CREPALDI, Le associazioni, i movimenti dei cristiani laici e il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, «Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa» I (2005)1, pp. 4-15.
[17] Benedetto XVI, Discorso al IV Convegno ecclesiale cit, p. 6.

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ZENIT Staff

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