Basta cercare la pace con buona volontà per salvarsi? (Parte II)

Risponde la teologa Ilaria Morali

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CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 13 gennaio 2006 (ZENIT.org).- Se per salvarsi basta cercare la pace con buona volontà, allora a cosa serve il cristianesimo?

Ilaria Morali, docente incaricata presso la Facoltà di Teologia della Pontificia Università Gregoriana di Roma, esperta sul tema della grazia, ha parlato con ZENIT dell’intervento pronunciato da Benedetto XVI nell’Udienza generale del 30 novembre, nel quale il Pontefice ha affrontato la possibilità di salvezza per coloro che non sono cristiani (cfr. Benedetto XVI: credenti e non credenti, pellegrini verso la Città di Dio, ZENIT, 30 novembre 2005).

La prima parte di questa intervista è stata pubblicata questo giovedì.

Qual è la visione cattolica di fronte ai non credenti dal Concilio Vaticano II in poi?

Morali: La domanda che lei mi pone mi offre l’occasione per toccare un altro aspetto del discorso del Papa, quello della “scintilla” di cui sono portatori coloro che non hanno la fede biblica.

Ebbene, il Vaticano II pone tra costoro sia persone appartenenti ad altre religioni che persone propriamente non credenti. Due gruppi profondamente diversi, ma accomunati dal fatto che non hanno la fede di Cristo. I primi coltivano una qualche forma di credenza religiosa, i secondi affermano di non avere la fede.

Nel n. 16 di LG il Concilio, ricordando il principio della volontà salvifica universale di Dio (di cui parlavo prima), afferma altresì che coloro che “sinceramente cercano Dio e con l’aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza”.

Questa affermazione riflette indirettamente l’insegnamento di Pio IX, ma pone in evidenza un aspetto finora non considerato: quello della grazia. La ricerca del bene, l’impegno e la volontà di attuarlo sono nell’uomo effetti dell’azione ausiliante e preveniente della grazia.

Il Concilio inoltre soggiunge, quasi per ribadire questo principio: “né la divina provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che non sono ancora arrivati alla chiara cognizione e riconoscimento di Dio, ma si sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita retta”. Ogni sforzo, per riprendere il Concilio, avviene “non senza la grazia”. Ciò significa che Dio è vicino anche a chi non lo conosce. Questo medesimo insegnamento si ritrova in Gaudium et Spes, ove il Concilio al n. 22 ammette che la grazia lavora nel cuore di tutti gli uomini di buona volontà.

Le persone alle quali il Santo Padre allude sono, in un certo senso, le stesse di cui parla il Concilio. D’altra parte, qualcuno potrebbe obiettare che il Concilio, nel n. 7 del decreto Ad Gentes sull’attività missionaria, pone in evidenza il principio della necessità della fede per la salvezza, oltre a quello della necessità del battesimo e della Chiesa.

Si potrebbe inoltre sottolineare che in questo numero il Vaticano II afferma che “non possono salvarsi quegli uomini i quali, pur sapendo che la Chiesa cattolica è stata stabilita, tuttavia rifiutano o di entrare o di rimanere in essa”. (AG 7).

Certamente, secondo la dottrina cattolica, la fede è necessaria alla salvezza. Questo principio, sancito nella Lettera agli Ebrei (11,6) è stato recepito dalla tradizione cristiana fin dai suoi albori. E qui, in questo testo, è riproposto in modo netto.

E chi non ha una fede completa?

Morali: La stessa tradizione cristiana ammette che non a tutti è dato il dono della pienezza della fede e che vi possono essere forme anche molto imperfette di fede. Il Catechismo romano, che venne composto dopo il Concilio di Trento, nel capitolo concernente la fede ammette che esistano gradi diversi di fede: vi è chi ha una fede grande ed altri che hanno una fede fragile.

Trae questo insegnamento dal Vangelo riproponendo molte parole che Cristo ha pronunciato a proposito della fede dei suoi discepoli, delle persone che egli incontrava.

Non possiamo però fermarci a questa che è la prima parte della riflessione del Concilio in AG 7 sulla necessità della fede, ma dobbiamo leggere anche ciò che segue: “Benché quindi Dio, attraverso vie che lui solo conosce, possa portare gli uomini che senza loro colpa ignorano il Vangelo a quella fede ‘senza la quale è impossibile piacergli’, è tuttavia compito imprescindibile della Chiesa ed insieme suo sacrosanto diritto diffondere il Vangelo”.

Questo significa che Dio ha le sue vie per condurre alla fede gli uomini e certamente non siamo noi a poter penetrare nell’imperscrutabile azione divina nel cuore degli uomini. Nel suo complesso, l’insegnamento di AG 7 ci aiuta a comprendere due principi:

Il primo: non ci si salva senza fede. Certamente, come la storia ci insegna, sono esistiti ed esisteranno uomini che scientemente ripudiano Dio, macchiandosi di delitti efferati. Costoro dovranno rispondere a Dio di averlo rifiutato ed estromesso dalla propria vita, rendendo quella degli altri un inferno. E’ un fatto ineludibile che non vi è salvezza per costoro.

Secondo: vi sono però molte più persone che, pur dichiarandosi non credenti, conseguiranno la salvezza eterna. Si tratta molte volte di persone che danno a noi cristiani un esempio straordinario di generosità e rettitudine. Se accetto l’insegnamento conciliare, allora per me credente il bene che essi fanno è già effetto della grazia che lavora nascostamente in loro ed io devo pregare che questa grazia un giorno abbia la possibilità di condurli ad una fede esplicita. Inoltre, devo ammettere che in questa opera invisibile della grazia Dio li porta alla fede in un modo assolutamente misterioso.

Bisogna lasciar fare la grazia da sola in queste persone in cui agisce di nascosto?

Morali: Ciò non toglie che, come cristiano, io debba adoperarmi perché questa grazia che lavora nascostamente in tali persone di buona volontà possa giungere a tale pienezza, anche se non sempre riuscirò in tale intento. La mia testimonianza e la mia preghiera sono un sostegno all’opera divina, ma Dio ha i suoi tempi e i suoi disegni.

Per tornare alla “scintilla” di cui ha parlato il Papa nel suo discorso, vorrei ricordare un’affermazione di Tertulliano: “anima naturaliter christiana”. Lo diceva di gente che era priva dell’istruzione della fede, ma che mostrava un qualche barlume di fede. Questa espressione di Tertulliano è entrata nella riflessione sulla fede di coloro che sembrano non avere fede perché è certamente emblematica di un anelito, nel profondo di ogni uomo, a conoscere Dio.

Tale anelito è inscritto nel cuore della persona e, come direbbe de Lubac, è la prova che siamo stati creati ad immagine di Dio e che questa immagine è in noi come un segno indelebile. L’uomo anela a Cristo perché nel suo cuore porta l’immagine di Dio. L’immagine di Dio è Cristo.

Tertulliano dice però anche “fiunt non nascuntur christiani”, che significa: cristiani si diventa, non ci si nasce. Questo significa che tale anelito ha bisogno di essere riempito dalla conoscenza di Dio e questa conoscenza la può dare solo Cristo. Non può bastare l’anelito del cuore alla pienezza, ma si deve giungere fattivamente a questa pienezza. Ecco perciò l’importanza dell’opera evangelizzatrice della Chiesa, chiamata a condurre gli uomini a questa pienezza che si attua col battesimo e si perfeziona lungo tutta la vita del cristiano.

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ZENIT Staff

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