ROMA, martedì, 31 gennaio 2006 (ZENIT.org).- Il 24 gennaio scorso è stata presentata al Parlamento italiano, dal Presidente della Commissione Affari Sociali della Camera, Giuseppe Palumbo, la relazione conclusiva dell'indagine conoscitiva sull'applicazione della legge 194, condotta da questa stessa Commissione.

La relazione, che verrà messa ai voti entro giovedì prossimo, chiede il miglioramento della qualità dei consultori – soprattutto per l'aspetto della prevenzione –, di cui rileva spesso l’assenza all’interno delle strutture ospedaliere, e una collaborazione con i medici di famiglia.

Inoltre, propone un ruolo di ausilio per le associazioni di volontariato, oltre a constatare la progressiva diminuzione dell’età media delle ragazze che chiedono l'autorizzazione all’aborto e la crescita delle mamme non italiane.

La relazione suggerisce poi di raggiungere un’intesa a livello di conferenza-Stato-regioni per modificare il questionario trimestrale già utilizzato per la rilevazione statistica dei casi.

Per una valutazione della relazione e più ancora per una analisi sul fenomeno dell’aborto, ZENIT ha intervistato il dott. Renzo Puccetti, Specialista in Medicina Interna e membro del Comitato “Scienza e Vita” di Pisa.

Come valuta l'indagine conoscitiva sull'applicazione della legge 194 condotta dalla commissione affari sociali della Camera?

Puccetti: La commissione, pur nella ristrettezza dei tempi messi a disposizione, ha messo in luce alcuni fatti incontestabili. Innanzi tutto che l’applicazione degli articoli 2 e 5 della legge, quelli che nelle intenzioni del legislatore avrebbero dovuto costituire il cuore della prevenzione nei confronti dell’aborto, è stata “parziale”. Mi sembra un dato di una gravità enorme, perché non stiamo parlando di oggetti inanimati, bensì della possibilità di vita per oltre quattro milioni di bambini, da quando la legge è entrata in vigore.

In stretta contiguità vi è la constatazione da parte della commissione dell’inadeguatezza della rilevazione statistica realizzata fino ad oggi. È certo che tale insufficienza oggettivamente ostacoli l’individuazione di selettivi e adeguati strumenti di prevenzione. Il terzo elemento, la cui rilevanza è di tutta evidenza, è il riconoscimento esplicito del ruolo del volontariato “nell’ambito della rete dei servizi a tutela della maternità responsabile”, affinché la donna possa decidere senza pressioni o costrizioni esterne e in maniera realmente informata, cosa che troppe volte purtroppo non avviene.

Le conclusioni della commissione parlamentare sono assolutamente in sintonia con la posizione espressa a larga maggioranza dal Comitato Nazionale di Bioetica secondo cui l’indifferenza di fronte alla decisione della donna è un atteggiamento non corretto in una prospettiva bioetica. L’azione di prevenzione nei confronti dell’aborto non deve essere solo di facciata, ma effettiva e tangibile. Difficile pensare a rinunciare all’esperienza e alla sensibilità dei volontari dei Centri di Aiuto alla Vita, per una reale prevenzione nei confronti dell’aborto.

L’operato della commissione è un piccolo, ma importante primo passo verso la conoscenza della verità, che per troppi anni è stata coperta a causa di motivi ideologici o peggio per convenienza politica. Spero che ad esso ne seguano altri, sulla scorta ad esempio dell’operato del parlamento del Sud Dakota, dove una commissione tecnica appositamente istituita ha potuto evidenziare, in un lavoro durato oltre sei mesi, i molti e nefasti effetti dell’aborto emersi dalle acquisizioni scientifiche degli ultimi anni (http://www.dakotavoice.com/Docs/South%20Dakota%20Abortion%20Task%20Force%20Report.pdf).

Alcuni sostengono che il concepimento è una malattia e l’aborto una medicina. Lei che ne pensa?

Puccetti: La legge 194/78 che in Italia disciplina l’aborto legale ha come fondamento giuridico il tentativo di compenetrare il diritto alla vita del nascituro e quello alla salute della madre, minacciata dalla prosecuzione della gravidanza. Questa è la trave che regge tutto l’impianto, al di fuori del quale l’aborto rimane un reato. Minaccia alla salute della madre, soluzione del problema mediante la soppressione dell’embrione, recupero dell’integrità psico-fisica della donna costituiscono le tappe fondamentali della concatenazione di pensiero fondante il diritto all’aborto, la cui validità è stata data fino ad oggi per acquisita. Negli ultimi anni sono stati pubblicati in ambito medico-scientifico numerosi studi che mettono in questione tale assunto. Si tratta in sostanza di stabilire se per la tutela della salute della donna la strada dell’aborto abbia, prescindendo da ogni valutazione morale sul destino del concepito, un profilo favorevole in termini di rischio/beneficio.

Quali sono gli effetti dell’interruzione volontaria di gravidanza sulla donna?

Puccetti: Gli effetti dell’aborto sulla salute della donna possono essere sia di ordine fisico che psichico. La mortalità materna, il tasso di mortalità delle donne dal concepimento fino al 42° giorno dopo il termine della gravidanza, (1) è il parametro più importante per la valutazione dei primi. L’aborto è associato ad una mortalità materna circa dieci volte inferiore rispetto al parto (2). Prescindendo dall’osservazione che l’aborto produce sempre almeno una morte, quella del concepito, l’obiezione che molte delle morti per parto sarebbero evitabili grazie ad un maggior controllo medico intensivo (3) come quello riservato alla procedura abortiva non è senza fondamento, pertanto il confronto proposto in questi termini appare viziato.

Esiste inoltre il ragionevole dubbio che parte delle morti per complicanza abortiva possa sfuggire perché la donna ha mantenuto riservata l’interruzione della gravidanza (4). Se estendiamo però la valutazione nel tempo lo scenario risulta capovolto. Pur tralasciando la contesa che vede schierate su fronti opposti varie associazioni mediche a negazione o sostegno dell’esistenza di una relazione tra aborto e tumore della mammella (che comunque ha già portato negli USA a sentenze di risarcimento per alcune donne non avvisate del rischio), esiste uno studio di enormi proporzioni condotto per 14 anni su tutte le donne finlandesi in età fertile (5) in base al quale, ad un anno dal termine della gravidanza la mortalità tra le donne che hanno abortito è tre volte maggiore rispetto a quelle che hanno dato alla luce un figlio.

Lo studio non mostra certo un rapporto di causa-effetto fra aborto e mortalità (ipotesi da dimostrare attraverso un diverso disegno sperimentale), ma indica quello che in gergo si definisce “associazione significativa”. Il dato è in accordo con un’altra ricerca condotta in California su 173.000 donne (6) da cui risulta che in un periodo di 8 anni la mortalità tra le donne che abortiscono è del 63% maggiore, cifra suscettibile di incremento se si considera che oltre il 50% dei decessi per aborto possono non essere rilevati in base al solo certificato di morte (7). Una parte determinante dei decessi è dovuto ad un tasso di suicidio 7 volte maggiore (8), una cifra impressionante.

Quale relazione esiste tra aborto e salute psichica delle donne?

Puccetti: In materia la letteratura medica non è univoca e l’interpretazione dei dati risente spesso delle posizioni culturali ed etiche del commentatore (9,10,11,12,13,14,15,16,17). Da un tentativo di valutazione equilibrata della questione emerge che la pratica abortiva, se nel breve termine può associarsi ad una riduzione dei livelli d’ansia (per il venir meno dell’elemento ansiogeno costituito dalla gravidanza indesiderata, ma anche della stessa procedura abortiva) (14), nel lungo periodo, almeno in una percentuale consistente di donne, l ascia cicatrici emozionali che durano anni (18), associandosi ad una maggiore incidenza di ansia (19), depressione (20), suicidarietà (9) e ricoveri psichiatrici (21), potendo inoltre predisporre al disturbo post-traumatico da stress (14,22). Questo appare tanto più vero in quell’ampia percentuale di donne, il 44%, secondo una ricerca scandinava (23), che, pur avendo abortito, hanno considerato in qualche momento di non farlo (24).

Anche le donne che hanno abortito in età adolescenziale, o comunque giovanile mostrano livelli maggiori di ansia o depressione dopo anni dall’interruzione della gravidanza, pur considerando i fattori socioeconomici e psichiatrici di partenza (25). Gli studi mostrano altresì che l’aborto influisce negativamente sulla sfera sessuale di un numero apprezzabile di donne (26,27,28,29). Queste considerazioni dovrebbero indurre a non considerare coloro che richiedono l’aborto come un’entità monolitica ed indifferenziata.

Attraverso un’accurata anamnesi ed un corretto inquadramento clinico dovrebbe essere effettuata per ogni donna una precisa valutazione del rapporto rischio/beneficio connesso alla procedura abortiva, prevedendo la possibilità, come in qualsiasi procedura medica, di non effettuare l’atto richiesto. Sarebbe interessante inoltre conoscere se durante i colloqui nei consultori e nei moduli di consenso informato forniti alla donna queste informazioni siano effettivamente fornite. Condotte difformi mi sembrerebbero configurabili come “malpractice” medica.


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