Eugenetica ed eutanasia pediatrica

ROMA, domenica, 13 febbraio 2005 (ZENIT.org).- Di seguito pubblichiamo per la rubrica di Bioetica l’intervento della dottoressa Claudia Navarini, docente della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.

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Che cosa accomuna la “genetica buona” prefigurata dai referendum sulla procreazione medicalmente assistita e la “buona morte” praticata legalmente in Olanda? A prima vista, la distanza tra le due sembrerebbe notevole: la selezione preimplantatoria su base genetica intende eliminare embrioni cui viene perfino negato lo statuto personale, mentre l’eutanasia olandese è offerta su richiesta a pazienti consapevoli, in stato terminale, colpiti da sofferenze intollerabili, e dopo attento consulto medico.

Si tratterebbe insomma di problematiche molto diverse, accomunate solo dal “buon senso” con cui si impediscono forme di assistenza considerate – estensivamente – di accanimento. Perché far nascere bambini malati o deformi? Perché condannare un morente a prolungare le sue sofferenze? Difendere la vita in queste circostanze, si dice, è “crudele”.

La questione si fa particolarmente interessante quando, per ragioni anagrafiche, i due ambiti si avvicinano, arrivando quasi a toccarsi. Certi neonati prematuri, ad esempio, sono praticamente dei feti fuori dell’utero, gravati da serie patologie e da danni talora permanenti, e spesso sono anche dei morenti, le cui sofferenze sono oramai da tutti riconosciute (cfr. C.V. Bellieni, L’alba dell’«io». Dolore, desideri, sogno, memoria del feto, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2004). Frequentemente la loro prematurità è conseguenza di “selezioni mancate”, cioè di anomalie genetiche già diagnosticate durante la gestazione, e – se passasse il referendum sulla diagnosi genetica preimplantatoria – individuabili anche prima.

D’altra parte, tanti morenti che chiedono – e in alcuni paesi ottengono – di morire per porre fine alle loro sofferenze non sono così liberi come sembra. La maggior parte di loro, infatti, accuditi da personale e famigliari amorevoli, assistiti da cure palliative adeguate, revocano spontaneamente le loro richieste eutanasiche. Altri, invece, non chiedono nemmeno di morire, eppure vengono sollecitamente “aiutati” ad anticipare la morte. Significativamente, ciò avviene soprattutto dove l’eutanasia è stata legalizzata per “regolamentare” pratiche già invalse nell’uso ed uscite dalla “clandestinità”.

Proprio in Olanda, infatti, la percentuale di eutanasie non consensuali è straordinariamente alta, sebbene non precisamente quantificabile in quanto non contemplata, anzi esclusa, dalla legge vigente. Ai malati in fase terminale vengono infatti sospese come prassi comune l’alimentazione e l’idratazione artificiali, considerate “inutili”, e vengono aumentate le dosi di sedativi allo scopo di affrettare la morte, ritenuta in molti casi la miglior “soluzione”.

Le cure palliative sono scarsamente praticate, dal momento che l’eliminazione del paziente rappresenta un metodo più rapido ed economico di gestione della malattia terminale, e che la condizione del morente viene per lo più ritenuta “indegna di essere vissuta”.

Particolare scalpore ha suscitato, il 30 agosto 2004, la notizia del protocollo sperimentale avviato da una clinica di Groningen che, d’accordo con la magistratura, aveva ricevuto l’autorizzazione ad applicare la pratica dell’eutanasia anche ai bambini sotto i dodici anni segnati da gravi patologie e malformazioni, compresi i neonati, che immediatamente sono divenuti i destinatari privilegiati della “sperimentazione”. L’iniziativa non è rimasta un caso isolato: a fine novembre l’ospedale universitario di Groningen ha messo a punto le linee-guida ad uso dei propri operatori per eseguire l’eutanasia pediatrica, e a dicembre l’Associazione dei Medici Olandesi ha chiesto al Ministro della Salute di offrire lo stesso strumento a tutti i medici dei Paesi Bassi.

Come un’onda che si propaga, anche il Belgio sta considerando attentamente l’estensione dell’eutanasia ai bambini e in generale ai non consenzienti, mentre altri paesi europei si stanno loro affiancando per ridurre a loro volta “il numero dei disabili”. Ci si chiede persino se non sia il caso di consentire l’eutanasia volontaria a chi, pur non affetto da insopportabili dolori fisici, ritiene che la sua vita non abbia più valore, cioè sia afflitto dal “male di vivere” più che da una malattia in senso canonico.

Già nel 1997, un sito inglese pro-life riportava il caso di una donna olandese cinquantenne, malata di cancro della mammella con metastasi ossee, epatiche e polmonari, che non voleva essere ricoverata per timore di essere “pietosamente” uccisa. Il medico che la seguiva l’aveva rassicurata a riguardo. Eppure, è bastata una sua assenza di qualche ora dall’ospedale perché un collega, ignaro dei timori della donna, aumentasse le dosi di morfina fino a causarne celermente la morte, che con un normale dosaggio – pur essendo perfettamente efficace nel togliere il dolore – non sarebbe sopraggiunta prima di una settimana. Una settimana che la donna avrebbe voluto vivere per intero.

In altre parole, a meno di tre anni dall’entrata in vigore della prima legge al mondo sull’eutanasia – quella olandese del 2002 – la “dolce morte” ha abbandonato il volto con il quale si era presentata, quello “democratico”, e ha rivelato il vero volto, tragicamente simile a quello con cui si era manifestata in tutta la sua violenza fra il 1939 e il 1941 in Germania: quello dell’eutanasia “di Stato”, in cui la legge decide che alcune persone, in quanto malate, disabili, deformi o incompetenti non sono degne di vivere.

In controtendenza è stata la tempestiva Mozione del Comitato Nazionale per la Bioetica italiano, con la quale, il 28 gennaio 2005, il Comitato ha voluto prendere radicalmente le distanze da simili comportamenti, precisando come “all’infuori dei casi di rinuncia all’accanimento terapeutico, ogni intervento di carattere intenzionalmente eutanasico nei confronti di minori, non sia lecito né bioeticamente né giuridicamente” (Comitato Nazionale per la Bioetica, Mozione sull’assistenza a neonati e a bambini afflitti da patologie o da handicap ad altissima gravità e sull’eutanasia pediatrica, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 28 gennaio 2005, n. 5).

In particolare, si riafferma la condanna totale dell’eutanasia “a carico di bambini nati con handicap, anche particolarmente severi, dato che la compromissione della cosiddetta qualità della vita non ne giustifica in alcun caso, né eticamente né giuridicamente, la soppressione” ( ibidem).

Varie sarebbero infatti le conseguenze aberranti della pratica: esse costituirebbero “una biasimevole pratica selettiva”, indurrebbero una minore percezione del “dovere di solidarietà sociale verso i portatori di handicap e lo loro famiglie”, e infine “potrebbero demotivare la ricerca nei confronti della prevenzione e della terapia dell’handicap medesimo” (( ibidem).

Sulla stessa linea si muoveva un intervento dell’Accademia Americana di Pediatria (AAP) nel 2000. In relazione all’esigenza di sviluppare le cure palliative nei bambini (che richiedono spesso metodologie specifiche), l’Accademia precisava che “l’AAP è preoccupata per i dati relativi all’eutanasia non consensuale di bambini e neonati e al suicidio assistito per gli adolescenti. L’AAP non condivide la pratica del suicidio assistito e dell’eutanasia per i bambini e per gli adolescenti” (America Academy of Pediatrics, Palliative Care for Children, “Pediatrics”, 106, 2 August 2000, pp. 351-357).

La presenza di patologie e di malformazioni, anche molto gravi, dunque, non elide la fondamentale dignità e il valore dell’essere umano dal concepimento alla morte naturale. La selezione umana su qualunque base (genetica, sanitaria, morfologica, razziale, politica, religiosa) è uno dei prodotti più aberranti della volontà di potenza e di dominio dell’uomo sull’uomo, ossia dell
’uomo sganciato dall’imprescindibile riferimento alla realtà.

Gettare un embrione “anomalo” (eutanasia preimplantatoria), ridurre selettivamente una gravidanza (eutanasia prenatale), effettuare l’eutanasia neonatale, infantile, e qualunque pratica eutanasica e selettiva nei confronti degli esseri umani: sono crimini le cui conseguenze non mancheranno di manifestarsi pesantemente.

Perché la società civile possa essere davvero a misura d’uomo, i sofferenti, infatti, “vanno difesi, come soggetti deboli, contro tutte le indebite e violente prevaricazioni che possono essere poste in atto nei loro confronti e che ne minaccino il loro diritto alla vita” (Comitato Nazionale per la Bioetica, Mozione…cit., n. 6).

[I lettori sono invitati a porre domande sui differenti temi di bioetica scrivendo all’indirizzo: bioetica@zenit.org. La dottoressa Navarini risponderà personalmente in forma pubblica e privata ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]

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ZENIT Staff

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