Sul Concilio né nostalgie anacronistiche né fughe in avanti (Seconda parte)

Un commento all’omelia di Benedetto XVI durante la solenne celebrazione di apertura dell’Anno della Fede

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di Massimo Introvigne

CITTA’ DEL VATICANO, sabato, 13 ottobre (ZENIT.org).- Quella giornata è rievocata in un articolo che lo stesso Benedetto XVI ha chiesto a L’Osservatore Romano di pubblicare in occasione del giorno cinquantenario, e che fungerà da prefazione dello stesso Pontefice a una raccolta degli interventi al Concilio dell’allora giovane teologo Joseph Ratzinger. Nell’articolo il Pontefice ricorda ancora una volta che «i concili precedenti erano stati quasi sempre convocati per una questione concreta alla quale dovevano rispondere. Questa volta non c’era un problema particolare da risolvere. Ma proprio per questo aleggiava nell’aria un senso di attesa generale: il cristianesimo, che aveva costruito e plasmato il mondo occidentale, sembrava perdere sempre più la sua forza efficace. Appariva essere diventato stanco e sembrava che il futuro venisse determinato da altri poteri spirituali». La parola spesso mal compresa «aggiornamento» significava in realtà proprio questo: il beato Giovanni XXIII aveva una chiara «percezione di questa perdita del presente da parte del cristianesimo», e con il Concilio chiamava la Chiesa a «stare nel presente per potere dare forma al futuro.» Per questo Papa Roncalli «aveva convocato il concilio senza indicargli problemi concreti o programmi. Fu questa la grandezza e al tempo stesso la difficoltà del compito che si presentava all’assemblea ecclesiale».

Alcuni episcopati – quelli dell’Europa del Nord – venivano al Concilio con idee di riforma più precise, e i vescovi francesi si preoccupavano soprattutto del cosiddetto «Schema XIII», da cui poi nacque la Costituzione Gaudium et spes. «Qui veniva toccato il punto della vera aspettativa del concilio. La Chiesa, che ancora in epoca barocca aveva, in senso lato, plasmato il mondo, a partire dal XIX secolo era entrata in modo sempre più evidente in un rapporto negativo con l’età moderna, solo allora pienamente iniziata. Le cose dovevano rimanere così? La Chiesa non poteva compiere un passo positivo nei tempi nuovi?». Per rispondere compiutamente «sarebbe stato necessario definire meglio ciò che era essenziale e costitutivo dell’età moderna». A giudizio del Papa, «questo non è riuscito nello “Schema XIII”», cioè nella Gaudium et spes. «Sebbene la Costituzione pastorale esprima molte cose importanti per la comprensione del “mondo” e dia rilevanti contributi sulla questione dell’etica cristiana, su questo punto non è riuscita a offrire un chiarimento sostanziale».

E tuttavia, «inaspettatamente, l’incontro con i grandi temi dell’età moderna non avvenne nella grande Costituzione pastorale [Gaudium et spes], bensì in due documenti minori, la cui importanza è emersa solo poco a poco con la ricezione del concilio»: la Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae  e la Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate. Non sfuggirà al lettore attento di questo articolo del Papa che si tratta proprio dei documenti il cui rifiuto sta al centro delle attuali difficoltà per il ritorno della Fraternità Sacerdotale San Pio X, fondata dall’arcivescovo francese Marcel Lefebvre (1905-1991), nella piena comunione con la Chiesa Cattolica. Qui il Pontefice ci dice che si tratta di documenti solo apparentemente minori, ma in realtà essenziali. Accettare o rifiutare il Concilio significa accettare o rifiutare questi due documenti.

Della Dignitatis humanae il Papa ricorda che fu «richiesta e preparata con grande sollecitudine soprattutto dall’episcopato americano». Proprio qui, nel linguaggio giuridico più statunitense che europeo, sta la radice di molte difficoltà d’interpretazione. Ma queste difficoltà – Benedetto XVI lo ha già affermato in altre occasioni, da ultimo nel recente viaggio in Libano – non potrebbero giustificare un rifiuto della nozione conciliare di libertà religiosa e un ritorno alla vecchia dottrina della tolleranza religiosa. «La dottrina della tolleranza, così come era stata elaborata nei dettagli da Pio XII, non appariva più sufficiente dinanzi all’evolversi del pensiero filosofico e del modo di concepirsi dello Stato moderno». Il Concilio voleva affermare «la libertà di scegliere e di praticare la religione, come anche [la] libertà di cambiarla, in quanto diritti fondamentali alla libertà dell’uomo». I Padri conciliari compresero che questa libertà ultimamente «non poteva essere estranea alla fede cristiana, che era entrata nel mondo con la pretesa che lo Stato non potesse decidere della verità e non potesse esigere nessun tipo di culto. La fede cristiana rivendicava la libertà alla convinzione religiosa e alla sua pratica nel culto, senza con questo violare il diritto dello Stato nel suo proprio ordinamento: i cristiani pregavano per l’imperatore, ma non lo adoravano». Si può perfino, con buone ragioni storiche, sostenere che «il il cristianesimo, con la sua nascita, ha portato nel mondo il principio della libertà di religione».

Ma il Papa non si nasconde le difficoltà e i rischi. Infatti, «l’interpretazione di questo diritto alla libertà nel contesto del pensiero moderno era ancora difficile, poiché poteva sembrare che la versione moderna della libertà di religione presupponesse l’inaccessibilità della verità per l’uomo e che, pertanto, spostasse la religione dal suo fondamento nella sfera del soggettivo». Affermare la libertà di religione poteva sembrare una concessione al relativismo. Non era così, secondo Benedetto XVI, ma per chiarirlo «fu certamente provvidenziale che, tredici anni dopo la conclusione del concilio, Papa Giovanni Paolo II sia arrivato da un Paese in cui la libertà di religione veniva contestata dal marxismo, vale a dire a partire da una particolare forma di filosofia statale moderna. Il Papa proveniva quasi da una situazione che assomigliava a quella della Chiesa antica, sicché divenne nuovamente visibile l’intimo ordinamento della fede al tema della libertà, soprattutto la libertà di religione e di culto».

Il secondo documento «che si sarebbe poi rivelato importante per l’incontro della Chiesa con l’età moderna» nacque «quasi per caso» e crebbe «in vari strati». La Dichiarazione Nostra aetate all’inizio voleva essere solo un testo «sulle relazioni tra la Chiesa e l’ebraismo, testo diventato intrinsecamente necessario dopo gli orrori della shoah». Questo poneva delicati problemi politici nel contesto medio-orientale. «I Padri conciliari dei Paesi arabi non si opposero a un tale testo, ma spiegarono che se si voleva parlare dell’ebraismo, allora si doveva spendere anche qualche parola sull’islam». E «quanto avessero ragione a riguardo, in occidente lo abbiamo capito solo poco a poco». Per completezza, si aggiunsero riferimenti all’induismo e al buddhismo. Così, «venne inaugurato un tema la cui importanza all’epoca non era ancora prevedibile». La Nostra aetate è per il Papa un documento provvidenziale. Tuttavia negli ultimi anni è «via via emersa anche una debolezza di questo testo di per sé straordinario: esso parla della religione solo in modo positivo e ignora le forme malate e disturbate di religione, che dal punto di vista storico e teologico hanno un’ampia portata; per questo sin dall’inizio la fede cristiana è stata molto critica, sia verso l’interno sia verso l’esterno, nei confronti della religione». Ogni riferimento all’11 settembre 2001 e al fondamentalismo, di cui Benedetto XVI ha parlato così spesso, non è casuale.

«Se all’inizio del concilio – continua il Pontefice – avevano prevalso gli episcopati centroeuropei con i loro teologi, durante le fasi conciliari il raggio del lavoro e della responsabilità comuni si è allargato sempre più», così che non si può dire che alla fine una certa sensibilità nazionale abbia prevalso su un’altra. Quello che conta è ribadir
e l’essenziale: «I Padri conciliari non potevano e non volevano creare una Chiesa nuova, diversa. Non avevano né il mandato né l’incarico di farlo». Dunque «non potevano e non volevano creare una fede diversa o una Chiesa nuova, bensì comprenderle ambedue in modo più profondo e quindi davvero “rinnovarle”. Perciò un’ermeneutica della rottura è assurda, contraria allo spirito e alla volontà dei Padri conciliari». L’Anno della fede servirà a rifiutare l’ermeneutica della rottura in tutte le sue versioni, e a riaffermare l’ermeneutica della riforma nella continuità che è quella del Magistero.

[La prima parte è stata pubblicata venerdì 12 ottobre]

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ZENIT Staff

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