La parola chiave è anzitutto “riforma”, poi “armonia”. Con il Motu Proprio De Concordia inter Codices, Papa Francesco muta alcune norme del Codice di Diritto Canonico che riguardano i rapporti tra appartenenti alla Chiesa latina e alle Chiese orientali, per creare “un giusto equilibrio tra la tutela del Diritto proprio della minoranza orientale e il rispetto della storica tradizione canonica della maggioranza latina”. Al centro c’è in particolare la questione dei sacramenti come battesimi e matrimoni.
Allo stesso tempo, insieme al Motu Proprio, è stata pubblicata oggi anche la ‘Risposta autentica’, un parere del Pontificio Consiglio per i Testi legislativi sulla questione delle “irregolarità per ricevere l’ordine sacro”.
La nuova disciplina (pensata nella sua intelaiatura già sotto il pontificato di Benedetto XVI) nasce dalla constatazione di una realtà contingente quale l’aumentata mobilità della popolazione che – scrive il Papa nel documento datato 31 maggio 2016 – ha “determinato la presenza di un notevole numero di fedeli orientali in territori latini”. Quelli dell’Est Europa a partire dalla Caduta del Muro di Berlino, e i rifugiati e profughi in fuga dal Medio Oriente negli ultimi anni.
Tutto ciò ha generato molteplici questioni pastorali e giuridiche “da risolvere con norme appropriate” e reso evidente la necessità di creare una nuova “armonia” tra i due Codici che possiedono punti di comunanza ma anche peculiarità proprie che li rendono autonomi.
Ad essere modificato è di fatto il solo Codice latino, ha spiegato mons. Juan Ignacio Arrieta, segretario del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi. Esso ha incorporato per questi punti relativi ai sacramenti (che rappresentavano finora delle “lacune”) normative del rito orientale che ha “maggiore esperienza nel diritto”. Volontà del Papa è soprattutto di “facilitare il lavoro dei parroci e la loro chiarezza, soprattutto nelle Chiese latine che devono accogliere da alcuni decenni, migliaia di fedeli cattolici di rito orientale” e “mettere in concordanza la disciplina latina, perché possa servire meglio, soprattutto in campo sacramentale, i fedeli cattolici orientali”.
Nel dettaglio, per quanto riguarda i battesimi, si riafferma il criterio dell’appartenenza del bambino alla Chiesa sui iuris del genitore cattolico e si introduce l’obbligo di indicare la Chiesa di appartenenza nel registro parrocchiale dei battesimi. In altre parole, ha chiarito Arrieta, se ad esempio ad un parroco di rito cattolico una coppia di cristiani formata da un protestante e da una cattolica di rito maronita chiede di battezzare il proprio figlio, potrà battezzarlo, ma il bimbo sarà comunque ascritto alla Chiesa cattolica maronita. Il neofita avrà una certificazione del battesimo, anche se non sarà iscritto nei registri parrocchiali. Allo stesso modo, se una coppia di cristiani ortodossi che non avendo ministri della propria confessione chiede il battesimo per il proprio figlio, potrà ricevere il Sacramento da un prete cattolico.
Sul piano dei matrimoni, invece, il Motu Proprio del Pontefice precisa che nel momento in cui sono coinvolte nelle nozze due parti orientali o una parte latina e una orientale cattolica o non cattolica, è “solo il sacerdote” a poter assistere validamente alla unione. Quindi, se una coppia di cristiani ortodossi chiede il matrimonio a un prete cattolico, potrà ottenerlo se l’Ordinario – quindi il vescovo – ne darà facoltà al prete. Sarà poi quest’ultimo a dare notifica al patriarca o al gerarca della Chiesa orientale di appartenenza.
Per ciò che concerne, poi, l’eventuale passaggio ad altra Chiesa sui iuris il documento stabilisce che, salvo dispensa specifica, venga fatto in questi casi un atto formale di passaggio davanti all’autorità competente e che il suddetto cambiamento venga annotato anche nel libro dei registri di Battesimo.
Infine, con la ‘Risposta autentica’ viene stabilito che anche i non cattolici sono da ritenere soggetti passibili di quelle “irregolarità” che costituiscono divieto, per chi avesse tenuto in passato comportamenti riprovevoli, di ricevere l’ordinazione diaconale, sacerdotale o episcopale, senza la necessaria dispensa da parte dell’autorità. In particolare la questione riguarda chi abbia commesso crimini contro la vita come omicidio o aborto o avesse mutilato gravemente se stesso o un’altra persona o, ancora, avesse tentato il suicidio.
Si tratta, in sostanza, di “un divieto per preservare la dignità del sacramento dell’ordine”, ha detto mons. Arrieta. Esso incita il vescovo a riflettere, prima di ordinare un candidato, sulla idoneità e concretamente su alcuni aspetti ed episodi della sua vita. “Cerchiamo di evitare di ordinare persone che abbiano commesso atti scorretti, anche se sono stati perdonati” ha precisato il presule. Una questione tecnica, dunque, legata attualmente ad un numero ristretto di casi, seppur “in sensibile aumento” in paesi come Inghilterra, Australia e Usa dove – ha riferito – si è innescato una problematica con la costituzione degli ordinariati per gli anglicani e con i loro sacerdoti che chiedono di diventare preti cattolici.