Rev.do P. Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap. - seconda Predica di Quaresima - Foto © Servizio Fotografico - Vatican Media

P. Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap.: Quinta Predica di Quaresima

Tema delle meditazioni quaresimali “In te ipsum redi” – Rientra in te stesso (Sant’Agostino)

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Alle ore 9 di questa mattina, nella Cappella Redemptoris Mater, alla presenza del Santo Padre Francesco, il Predicatore della Casa Pontificia, Rev.do P. Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., ha tenuto la quinta e ultima Predica di Quaresima. Tema delle meditazioni quaresimali è il seguente: “In te ipsum redi” Rientra in te stesso (Sant’Agostino).
***
“DIO HA SCELTO QUELLO CHE È STOLTO PER IL MONDO
PER CONFONDERE I SAPIENTI”
Quinta Predica, Quaresima 2019

Giovanni e Paolo: due sguardi diversi sul mistero

Nel Nuovo Testamento e nella storia della teologia ci sono cose che non si capiscono se non si tiene conto di un dato fondamentale, e cioè dell’esistenza di due approcci diversi, anche se complementari, al mistero di Cristo: quello di Paolo e quello di Giovanni.
Giovanni vede il mistero di Cristo a partire dall’incarnazione. Gesú, Verbo fatto carne, è per lui il supremo rivelatore del Dio vivente, colui fuori del quale nessuno “va al Padre”. La salvezza consiste nel riconoscere che Gesù “è venuto nella carne” (2 Gv 7) e nel credere che egli “è il Figlio di  Dio” (1 Gv 5,5); “Chi ha il Figlio, ha la vita; chi non ha il Figlio, non ha la vita” (1 Gv 5,12). Al centro di tutto, come si vede, sta “la persona” di Gesù uomo-Dio.
La peculiarità di questa visione giovannea salta agli occhi se la confrontiamo con quella di Paolo. Per Paolo, al centro dell’attenzione non c’è tanto la persona di Cristo, intesa come realtà ontologica, c’è piuttosto l’operato di Cristo, e cioè il suo mistero pasquale di morte e risurrezione. La salvezza non sta tanto nel credere che Gesú è il Figlio di  Dio venuto nella carne, quanto nel credere in Gesú “morto per i nostri peccati ed è risorto per la nostra giustificazione” (cf. Rom 4, 25). L’evento centrale non è l’incarnazione, ma il mistero pasquale.
Sarebbe un errore fatale vedere in ciò una dicotomia nell’origine stessa del cristianesimo. Chiunque legge senza pregiudizi il Nuovo Testamento capisce che  in Giovanni l’incarnazione è in vista del mistero pasquale, quando Gesù finalmente effonderà il suo Spirito sull’umanità (Gv 7, 39),  e capisce che per Paolo il mistero pasquale suppone e si fonda sull’incarnazione. Colui che si è fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce, è uno che ”era nella forma di  Dio”, uguale a   Dio (cf. Fil 2, 5 ss). Le formule trinitarie in cui Gesú Cristo è menzionato insieme al Padre e allo Spirito Santo, sono una conferma che per Paolo l’operato di Cristo prende senso dalla sua persona.
La diversa accentuazione dei due poli del mistero riflette il cammino storico che la fede in Cristo ha fatto dopo la Pasqua. Giovanni riflette la fase più avanzata della fede in Cristo, quella che si ha alla fine, non all’inizio, della redazione degli scritti neotestamentari. Egli è al termine di un processo di risalita alle sorgenti del mistero di Cristo. Lo si nota osservando da dove iniziano i quattro vangeli. Marco inizia il suo vangelo dal battesimo di Gesú nel Giordano; Matteo e Luca, venuti dopo, fanno un passo indietro e fanno iniziare la storia di Gesú dalla sua nascita da Maria; Giovanni, che scrive per ultimo, fa un salto decisivo all’indietro e colloca l’inizio della vicenda di Cristo non più nel tempo ma nell’eternità: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso  Dio e il verbo era  Dio” (Gv 1, 1).
Il motivo di questo spostamento di interesse è ben noto. La fede nel frattempo è entrata in contatto con la cultura greca e questa è più interessata alla dimensione ontologica che a quella storica. Quello che conta per essa non è tanto lo svolgimento dei fatti, quanto il loro fondamento (la archè). A questo fattore ambientale si aggiungevano le prime avvisaglie dell’eresia docetista che metteva in questione la realtà dell’incarnazione. Il dogma cristologico delle due nature e dell’unità della persona di Cristo sarà quasi interamente fondato sulla prospettiva giovannea del Logos fatto carne.
È importante tener conto di ciò per capire la differenza e la complementarietà tra teologia orientale e la teologia occidentale. Le due prospettive,  la paolina e la giovannea, pur fondendosi insieme (come avviene nel Credo Niceno-Costantinopolitano), conservano la loro diversa accentuazione, come due fiumi che, confluendo uno nell’altro, conservano per lungo tratto il diverso colore delle loro acque. La teologia e la spiritualità ortodossa si fonda prevalentemente su Giovanni; quella occidentale (la protestante più ancora di quella cattolica) si fonda prevalentemente su Paolo. All’interno della stessa tradizione greca, la scuola alessandrina è più giovannea, quella antiochena più paolina. L’una fa consistere la salvezza nella divinizzazione, l’altra nell’imitazione di Cristo.
La croce, sapienza di  Dio e potenza di  Dio
Ora vorrei mostrare cosa tutto questo comporta per la nostra ricerca del volto del  Dio vivente. Al termine delle meditazioni di Avvento ho parlato del Cristo di Giovanni che, nel momento stesso in cui si fa carne, introduce nel mondo la vita eterna. Al termine di queste meditazioni di Quaresima, vorrei parlare del Cristo di Paolo che sulla croce cambia il destino dell’umanità. Ascoltiamo subito il testo dove appare più chiara la prospettiva paolina sulla quale vogliamo riflettere:
“Poiché infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1 Cor 1, 21-25).
L’Apostolo parla di una novità nell’agire di Dio, quasi un cambio di passo e di metodo. Il mondo non ha saputo riconoscere Dio nello splendore e nella sapienza del creato; allora egli decide di rivelarsi in modo opposto, attraverso l’impotenza e la stoltezza della croce. Non si può leggere questa affermazione di Paolo senza ricordare il detto di Gesú: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11, 25).
Come interpretare questo rovesciamento di valori? Lutero parlava di un rivelarsi di Dio “sub contraria specie”, cioè attraverso il contrario di quello che ci si aspetterebbe da lui.[1] Egli è potenza e si rivela nell’impotenza, è sapienza è si rivela nella stoltezza, è gloria e si rivela nell’ignominia, è ricchezza e si rivela nella povertà.
La teologia dialettica della prima metà del secolo scorso ha portato questa visione alle sue estreme conseguenze. Tra il primo e il secondo modo di manifestarsi di  Dio non c’è, secondo Karl Barth, continuità, ma rottura. Non si tratta di una successione soltanto temporale, come tra Antico e Nuovo Testamento, ma di una opposizione ontologica. In altre parole, la grazia non costruisce sulla natura, ma contro di essa; tocca il mondo “come la tangente il cerchio”, cioè lo sfiora, ma senza penetrarvi dentro come invece fa il lievito con la massa. È l’unica differenza che, a detta dello stesso Barth, lo tratteneva dal dirsi cattolico; tutte le altre gli parevano, al confronto, di poco conto. Alla analogia entis, egli opponeva l’analogia fidei, cioè alla collaborazione tra natura e grazia, l’opposizione tra la parola di  Dio e tutto ciò che appartiene al mondo.
Benedetto XVI, nella sua enciclica “Deus caritas est”, mostra le conseguenze che questa diversa visione ha a proposito dell’amore. Karl Barth aveva scritto: “Dove entra in scena l’amore cristiano, ha inizio immediatamente il conflitto con l’altro amore [l’amore umano] e questo conflitto non ha più fine”[2]. Benedetto XVI scrive al contrario:
“Eros e agape, – amore ascendente e amore discendente – non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro […]. La fede biblica  non costruisce un mondo parallelo o un mondo contrapposto rispetto a quell’originario fenomeno umano che è l’amore, ma accetta tutto l’uomo intervenendo nella sua ricerca di amore per purificarla, dischiudendogli al contempo nuove dimensioni”[3].
L’opposizione radicale tra natura e grazia, tra creazione e redenzione, venne attenuandosi negli scritti posteriori dello stesso Barth e ora non trova quasi più sostenitori. Possiamo perciò accostarci con più serenità alla pagina dell’Apostolo per capire in che consiste veramente la novità della croce di Cristo.
Sulla croce  Dio si è manifestato, sì, “sotto il suo contrario”, ma sotto il contrario di quello che gli uomini hanno sempre pensato di  Dio, non di quello che  Dio è veramente. Dio è amore e sulla croce si è  avuta la suprema manifestazione dell’amore di  Dio per gli uomini. In un certo senso, solo ora, sulla croce, Dio si rivela “nella propria specie”, in ciò che gli è proprio. Il testo di Prima Corinzi sul significato della croce di Cristo va letto alla luce di un altro testo di Paolo nella Lettera ai Romani:
“Quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rom 5, 6-8).
Il teologo medievale bizantino Nicola Cabasilas (1322-1392) ci fornisce la chiave migliore per capire in che consiste la novità della croce di Cristo. Scrive:
“Due caratteristiche rivelano l’amante e lo fanno trionfare: la prima consiste nel fare del bene all’amato in tutto ciò che è possibile, la seconda nello scegliere di soffrire per lui e di patire cose terribili, se necessario. Quest’ultima prova di amore di gran lunga superiore alla prima, non poteva però convenire a  Dio che è impassibile ad ogni male […]. Quindi per darci l’esperienza del suo grande amore e mostrare che ci ama di un amore senza limiti,  Dio inventa il suo annientamento, lo realizza e fa in modo di divenire capace di soffrire e di patire cose terribili. Così, con tutto quello che sopporta,  Dio convince gli uomini del suo straordinario amore per loro e li attira nuovamente a sé”[4].
Nella creazione  Dio ci ha riempito di doni, nella redenzione ha sofferto per noi. Il rapporto tra le due cose è quello di un amore di beneficenza che si fa amore di sofferenza.
Ma che cosa è avvenuto di tanto importante nella croce di Cristo da farne il momento culminante della rivelazione del Dio vivente della Bibbia? La creatura umana cerca istintivamente  Dio nella linea della potenza. Il titolo che segue il nome di  Dio è quasi sempre “onnipotente”. Ed ecco che, aprendo il Vangelo, siamo invitati a contemplare l’impotenza assoluta di  Dio sulla croce. Il Vangelo rivela che la vera onnipotenza è la totale impotenza del Calvario. Ci vuole poca potenza per mettersi in mostra, ce ne vuole molta invece per mettersi da parte, per cancellarsi. Il Dio cristiano è questa illimitata potenza di nascondimento di sé!
La spiegazione ultima sta dunque nel nesso inscindibile che esiste tra amore e umiltà. “Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte” (Fil 2, 8). Si umiliò facendosi dipendente dall’oggetto del suo amore. L’amore è umile perché, per sua natura, crea dipendenza. Lo vediamo, nel piccolo, da ciò che succede quando due persone umane si innamorano. Il giovane che, secondo il rituale tradizionale, si inginocchia davanti a una ragazza per chiedere la sua mano fa l’atto più radicale di umiltà della sua vita, si fa mendicante. È come se dicesse: “Io non basto a me stesso, ho bisogno di te per vivere”. La differenza essenziale è che la dipendenza di  Dio dalle sue creature nasce unicamente dall’amore che ha per esse,  quella delle creature fra di loro nasce dal bisogno che hanno una dell’altra.
“La rivelazione di  Dio come amore, ha scritto Henri de Lubac, obbliga il mondo a rivedere tutte le sue idee su  Dio” [5]. La teologia e l’esegesi sono ancora lontane, credo, dall’aver tratto da ciò tutte le conseguenze. Una di tali conseguenze è questa. Se Gesù soffre in maniera atroce sulla croce non lo fa principalmente per pagare al posto degli uomini il loro insolvibile debito. (Con la parabola dei due servitori, in Luca 7, 41 ss., egli ha spiegato in anticipo che il debito di diecimila talenti viene condonato dal re gratuitamente!). No, Gesú muore crocifisso perché l’amore di Dio potesse raggiungere l’uomo nel punto più remoto nel quale si era cacciato ribellandosi a  lui, e cioè nella morte. Anche la morte è ormai abitata dall’amore di  Dio. Nel suo libro su Gesù di Nazaret,  Benedetto XVI, ha scritto:
“L’ingiustizia, il male come realtà non può semplicemente essere ignorato, lasciato stare. Deve essere smaltito, vinto. Questa è la vera misericordia. E che ora, poiché gli uomini non ne sono in grado, lo faccia Dio stesso – questa è la bontà incondizionata di Dio” [6].
Il motivo tradizionale dell’espiazione dei peccati mantiene, come si vede,  tutta la sua validità, ma non è il motivo ultimo. Il motivo ultimo è “la bontà incondizionata di  Dio”, il suo amore.
Possiamo individuare tre tappe nel cammino della fede pasquale della Chiesa.
– All’inizio ci sono soltanto due nudi fatti: “È morto, è risorto”. “Voi l’avete crocifisso,  Dio l’ha risuscitato”, grida alle folle Pietro il giorno di Pentecoste (cf. Atti 2, 23-24).
– In una seconda fase, ci si pone la domanda: “Perché è morto e perché è risorto?”, e la risposta è il kerygma: “È morto per i nostri peccati; è risorto per la nostra giustificazione” (cf. Rom 4, 25).
– Restava ancora una domanda: “E perché è morto per i nostri peccati? Che cosa l’ha spinto a farlo?” La risposta (unanime, su questo punto, di Paolo e di Giovanni) è: “Perché ci ha amato”. “Mi ha amato e ha dato se stesso per me”, scrive Paolo (Gal 2,20);  “Avendo amato i suoi che erano nel mondo li amò sino alla fine”, scrive Giovanni (Gv 13,1).
 
La nostra risposta
Quale sarà la nostra risposta di fronte al mistero che abbiamo contemplato e che la liturgia ci farà rivivere nella settimana santa? La prima e fondamentale risposta è quella della fede. Non una fede qualsiasi, ma la fede mediante la quale ci appropriamo di ciò che Cristo ha acquistato per noi. La fede che “rapisce” il regno di   Dio (Mt 11,12). L’Apostolo conclude il testo da cui siamo partiti con queste parole:
“Cristo Gesú […] per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto, chi si vanta, si vanti nel Signore” (1 Cor 1, 30-31).
Quello che Cristo è diventato “per noi” – giustizia, santità e redenzione – ci appartiene; è più nostro che se lo avessimo fatto noi! Io non mi stanco di ripetere, a questo riguardo, ciò che ha scritto san Bernardo:
“Io, in verità, prendo con fiducia per me (usurpo!) ciò che mi manca dalle viscere del Signore, perché esse traboccano di misericordia. […] Il mio merito, pertanto, è la misericordia del Signore. Non sarò sicuramente privo di merito fino a quando il Signore non sarà privo di misericordia. Se le misericordie del Signore sono molte, anch’io sono molto grande per quanto riguarda i meriti […] Canterò forse anche la mia giustizia? “Signore, mi ricorderò solo della tua giustizia” (cf. Sal 71, 16). Essa, in verità, è anche mia; perché tu ti sei fatto per me giustizia che viene da  Dio (cf. 1 Cor 1, 30)” [7].
Non lasciamo passare la Pasqua senza aver fatto, o rinnovato, il colpo di audacia della vita cristiana suggeritoci da san Bernardo. San Paolo esorta spesso i cristiani a “spogliarsi dell’uomo vecchio” e “rivestirsi di Cristo” [8]. L’immagine  dello svestirsi e rivestirsi non indica una operazione soltanto ascetica, consistente nell’abbandonare certi “abiti” e sostituirli con altri, cioè nell’abbandonare i vizi e acquistare le virtù. È anzitutto un’operazione da fare mediante la fede. Uno si mette davanti al crocifisso e, con un atto di fede, consegna a lui tutti i propri peccati, la propria miseria passata e presente, come chi si spoglia e getta nel fuoco i propri stracci sporchi. Poi si riveste della giustizia che Cristo ha acquistato per noi; dice, come il pubblicano nel tempio: “O  Dio abbia pietà di me peccatore!, e se ne torna a casa come lui “giustificato” (cf. Lc 18, 13-14). Questo sarebbe davvero un “fare la Pasqua”, realizzare il santo “passaggio”!
Naturalmente non tutto finisce qui. Dalla appropriazione dobbiamo passare alla imitazione. Cristo –faceva notare il filosofo Kierkegaard ai suoi amici luterani – non è soltanto “il dono di  Dio da accettare mediante la fede”; è anche “il modello da imitare nella vita” [9]. Vorrei sottolineare un punto concreto su cui cercare di imitare l’agire di Dio: quello  che il Cabasilas ha messo in luce con la distinzione tra l’amore di beneficenza e l’amore di sofferenza.
Nella creazione  Dio ha dimostrato il suo amore per noi riempiendoci di doni: la natura con la sua magnificenza fuori di noi, l’intelligenza, la memoria, la libertà e tutti gli altri doni dentro di noi. Ma non gli è bastato. In Cristo ha voluto soffrire con noi e per noi. Succede così anche nei rapporti delle creature tra di loro. Quando sboccia un amore, si sente subito il bisogno di manifestarlo facendo regali alla persona amata. È quello che fanno tra di loro i fidanzati. Sappiamo però come vanno le cose: una volta sposati, emergono i limiti, le difficoltà, le differenze di carattere. Non basta più fare regali; per andare avanti e mantenere vivo il proprio matrimonio, occorre imparare a “portare i pesi l’uno dell’altro” (cf. Gal 6,2), a soffrire l’uno per l’altro e l’uno con l’altro. È così che l’eros, senza venir meno a se stesso, diventa anche agape, amore di donazione e non solo di ricerca. Benedetto XVI, nell’enciclica citata, si esprime così:
Anche se l’eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente — fascinazione per la grande promessa di felicità — nell’avvicinarsi poi all’altro si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell’altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e desidererà « esserci per » l’altro. Così il momento dell’agape si inserisce in esso; altrimenti l’eros decade e perde anche la sua stessa natura. D’altra parte, l’uomo non può neanche vivere esclusivamente nell’amore oblativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono.
L’imitazione dell’agire di Dio non riguarda soltanto il matrimonio e gli sposati; in un senso diverso, riguarda tutti noi, i consacrati prima di ogni altro.  Il progresso, nel caso nostro, consiste nel passare dal fare tante cose per  Cristo e per la Chiesa,  al soffrire per Cristo e per la Chiesa. Succede nella vita religiosa quello che succede nel matrimonio e non c’è da stupirsi di ciò, dal momento che è anch’essa un matrimonio, uno sposalizio con Cristo.
Una volta Madre Teresa di Calcutta parlava a un gruppo di donne e le esortava a sorridere al proprio marito. Una di loro le obbiettò: “Madre, lei parla così perché non è sposata e non conosce mio marito”. Lei le rispose: “Ti sbagli. Sono sposata anch’io e ti assicuro che a volte non è facile neppure per me sorridere al mio Sposo”. Dopo la sua morte si è scoperto a cosa alludeva la santa con quelle parole. In seguito alla chiamata a mettersi a servizio dei più poveri dei poveri, lei aveva intrapreso a lavorare con entusiasmo per il suo Sposo divino, mettendo in piedi opere che stupirono il mondo intero.
Ben presto però la gioia e l’entusiasmo vennero meno, lei piombò in una notte oscura che l’accompagnò per tutto il resto della vita. Arrivò a dubitare se avesse ancora la fede, tanto che quando, dopo la sua morte, furono pubblicati i suoi diari intimi qualcuno, del tutto ignaro delle cose dello spirito, parlò addirittura di un “ateismo di Madre Teresa”. La santità straordinaria di Madre Teresa sta nel fatto che visse tutto ciò nel più assoluto silenzio con tutti, nascondendo la sua desolazione interiore sotto un sorriso costante del volto. In lei si vede cosa significa passare dal fare le cose per  Dio, al soffrire per  Dio e per la Chiesa.
È un traguardo assai difficile, ma per fortuna Gesú sulla croce non ci ha dato solo l’esempio di questo genere nuovo di amore; ci ha meritato anche la grazia di farlo nostro, di appropriarcene mediante la fede e i sacramenti. Erompa perciò dal nostro cuore, durante la Settimana Santa, il grido della Chiesa: “Adoramus te, Christe, et benedicimus tibi, quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum”. Ti adoriamo e ti benediciamo, o Cristo, perché con la tua santa croce hai redento il mondo.
Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle: Buona e santa Pasqua!
 
[1] Cf. Martin Lutero, De servo arbitrio, in WA, 18, 633; cf. anche WA, 56, pp. 392. 446-447.
[2] Karl Barth, Dommatica ecclesiale, IV, 2, 832-852. L’incompatibilità tra amore umano e amore divino è la tesi di Anders Nygren, Eros e agape. La nozione cristiana dell’amore e le sue trasformazioni, Bologna, Il Mulino, 1971(Edizione originale svedese, Stoccolma 1930).
[3] Benedetto XVI, Deus caritas est, nr. 7-8.
[4] Nicola Cabasilas, Vita in Cristo, VI, 2 (PG 150, 645)
[5] H. de Lubac, Histoire et esprit, Paris 1950, ch.5.
[6] Cf. J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, II Parte, Libreria Editrice Vaticana 2011, pp. 151.
[7] S. Bernardo di Chiaravalle, Sermoni sul Cantico, 61, 4-5 (PL 183, 1072).
[8] Cf. Col 3,9; Rom 13,14; Gal 3,27; Ef 4,24.
[9] Cf. Søren Kierkegaard, Diario, X1, A, 154 (Anno 1849).

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Raniero Cantalamessa

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