Rev.do P. Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap. - seconda Predica di Quaresima - Foto © Servizio Fotografico - Vatican Media

P. Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap.: La seconda Predica di Quaresima

Tema: “In te ipsum redi” – Rientra in te stesso (Sant’Agostino)

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Alle ore 9 di questa mattina, nella Cappella Redemptoris Mater, alla presenza del Santo Padre, il Predicatore della Casa Pontificia, Rev.do P. Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., ha tenuto la seconda Predica di Quaresima. Tema delle meditazioni quaresimali è il seguente: “In te ipsum redi” Rientra in te stesso (Sant’Agostino). Le successive prediche di Quaresima avranno luogo venerdì 29 marzo e 5, 12 aprile.
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Raniero Cantalamessa ofmcap: “RIENTRA IN TE STESSO!”
Seconda Predica, Quaresima 2019
 
Sant’Agostino ha lanciato un appello che a distanza di tanti secoli conserva intatta la sua attualità: “In teipsum redi. In interiore homine habitat veritas”: “Rientra in te stesso. Nell’uomo interiore abita la verità”[1]. In un discorso al popolo, con insistenza ancora maggiore, esorta:
“Rientrate nel vostro cuore! Dove volete andare lontano da voi? Andando lontano vi perderete. Perché vi mettete su strade deserte? Rientrate dal vostro vagabondaggio che vi ha portato fuori strada; ritornate al Signore. Egli è pronto. Prima rientra nel tuo cuore, tu che sei diventato estraneo a te stesso, a forza di vagabondare fuori: non conosci te stesso, e cerchi colui che ti ha creato! Torna, torna al cuore, distaccati dal corpo… Rientra nel cuore: lì esamina quel che forse percepisci di Dio, perché lì si trova l’immagine di Dio; nell’interiorità dell’uomo abita Cristo, nella tua interiorità tu vieni rinnovato secondo l’immagine di Dio”[2].
Proseguendo il commento iniziato in Avvento sul versetto del Salmo “L’anima mia ha sete del Dio vivente”, riflettiamo sul “luogo” in cui ognuno di noi entra in contatto con il Dio vivente. In senso universale e sacramentale questo “luogo” è la Chiesa, ma in senso personale ed esistenziale esso è il nostro cuore, quello che la Scrittura chiama “l’uomo interiore”,  “l’uomo nascosto nel cuore” [3]. A questa scelta ci spinge anche il tempo liturgico in cui ci troviamo.  Gesú in questi quaranta giorni è nel deserto, ed è lì che lo dobbiamo raggiungere. Non tutti possono andare in un deserto esteriore; tutti però possiamo rifugiarci nel deserto interiore che è il nostro cuore. “Nell’interiorità dell’uomo abita Cristo”, ci ha detto Agostino.
Se vogliamo un’immagine plastica o, un simbolo, che ci aiuti ad attuare questa conversione verso l’interno, ce la offre il Vangelo con l’episodio di Zaccheo. Zaccheo è l’uomo che vuol conoscere Gesù e, per farlo, esce di casa, va tra la folla, sale su un albero… Lo cerca fuori. Ma ecco che Gesù passando lo vede e gli dice: “Zaccheo, scendi subito perché oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19, 5). Gesù riconduce Zaccheo a casa sua e lì, nel segreto, senza testimoni, avviene il miracolo: egli conosce veramente chi è Gesù e trova la salvezza.
Noi somigliamo spesso a Zaccheo. Cerchiamo Gesù e lo cerchiamo fuori, per le strade, tra la folla. Ed è Gesù stesso che ci invita a rientrare in casa nostra nel nostro stesso cuore, dove lui desidera incontrarsi con noi.
Interiorità, un valore in crisi
L’interiorità è un valore in crisi. La “vita interiore” che un tempo era quasi sinonimo di vita spirituale, ora tende invece a essere guardata con sospetto. Ci sono dizionari di spiritualità che omettono del tutto le voci “interiorità” e “raccoglimento” e altri che le portano, ma non senza esprimere qualche riserva. Per esempio, si fa notare che, dopo tutto, non c’è nessun termine biblico che corrisponda esattamente a queste parole; che potrebbe esserci stato, in questo punto, un influsso determinante della filosofia platonica; che esso potrebbe favorire il soggettivismo e così via.
Un sintomo rivelatore di questo calo del gusto e della stima dell’interiorità è la sorte toccata all’Imitazione di Cristo che è una specie di manuale di introduzione alla vita interiore. Da libro più amato tra i cristiani, dopo la Bibbia, esso è passato, in pochi decenni, a essere un libro dimenticato.
Alcune cause di questa crisi sono antiche e inerenti alla nostra stessa natura. La nostra “composizione”, cioè l’essere noi costituiti di carne e spirito, fa sì che siamo come un piano inclinato, inclinato però verso l’esterno, il visibile e il molteplice. Come l’universo, dopo l’esplosione iniziale (il famoso Big bang), anche noi siamo in fase di espansione e di allontanamento dal centro. “Non si sazia l’occhio di guardare, né mai l’orecchio è sazio di udire”, dice la Scrittura (Qo 1, 8). Siamo perennemente “in uscita”, attraverso quelle cinque porte o finestre che sono i nostri sensi.
Altre cause sono invece più specifiche e attuali. Una è l’emergenza del “sociale” che è certamente un valore positivo dei nostri tempi, ma che, se non è riequilibrato, può accentuare la proiezione all’esterno e la spersonalizzazione dell’uomo. Nella cultura secolarizzata e laica dei nostri tempi il ruolo che svolgeva l’interiorità cristiana è stato assunto dalla psicologia e dalla psicoanalisi, le quali si fermano però all’inconscio dell’uomo e comunque alla sua soggettività, prescindendo dal suo intimo legame con Dio.
In campo ecclesiale, l’affermarsi, con il Concilio, dell’idea di una “Chiesa per il mondo” ha fatto sì che all’ideale antico della fuga dal mondo, si sia sostituito talvolta l’ideale della fuga verso il mondo. L’abbandono dell’interiorità e la proiezione all’esterno è un aspetto – e tra i più pericolosi – del fenomeno del secolarismo. C’è stato perfino un tentativo di giustificare teologicamente questo nuovo orientamento che ha preso il nome di teologia della morte di Dio, o della città secolare. Dio – si dice – ci ha dato lui stesso l’esempio. Incarnandosi, egli si è svuotato, è uscito da se stesso, dall’interiorità trinitaria, si è “mondanizzato”, cioè disperso nel profano. È diventato un Dio “fuori di sé”.
L’interiorità nella Bibbia
Come sempre, alla crisi di un valore tradizionale, nel cristianesimo si deve rispondere attuando una ricapitolazione, cioè riprendendo le cose al loro principio per portarle a un nuovo compimento. In altre parole, si tratta di ripartire dalla parola di Dio e, alla sua luce, di ritrovare, nella stessa Tradizione, l’elemento vitale e perenne, liberandolo dagli elementi caduchi di cui si è rivestito lungo i secoli. È quello che il concilio Vaticano II ha seguito come metodo in tutti i suoi lavori. Come in natura, a primavera, si pota l’albero dai rami della precedente stagione per rendere possibile al tronco una nuova fioritura, così bisogna fare anche nella vita della Chiesa.
Già i profeti d’Israele avevano lottato per spostare l’interesse del popolo dalle pratiche esteriori di culto e dal ritualismo, all’interiorità del rapporto con Dio. “Questo popolo – leggiamo in Isaia – si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e il culto che mi rendono è un imparaticcio di usi umani” (Is 29, 13). Il motivo è che “l’uomo guarda le apparenze, ma Dio scruta il cuore” (1 Sam 16, 7). “Laceratevi il cuore, non le vesti, si legge in un altro profeta” (Gl 2, 13).
È il tipo di riforma religiosa che Gesù ha ripreso e portato a compimento. Uno che esamini l’operato di Gesù e le sue parole, fuori da preoccupazioni dogmatiche, da un punto di vista di storia delle religioni, nota anzitutto una cosa: che egli ha voluto rinnovare la religiosità giudaica, finita spesso nelle secche del ritualismo e del legalismo, rimettendo al centro di essa un rapporto intimo e vissuto con Dio. Egli non si stanca di richiamare a quell’ambito “segreto”, il “cuore”, dove si opera il vero contatto con Dio e con la sua vivente volontà e da cui dipende il valore di ogni azione (cf Mt 15, 10 ss). Il richiamo all’interiorità trova la sua motivazione biblica più profonda e oggettiva nella dottrina della inabitazione di Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, nell’anima del battezzato[4].
Con il passare del tempo, nella visione biblica dell’interiorità cristiana qualcosa si era offuscato, contribuendo alla crisi di cui ho parlato sopra. In certe correnti spirituali, come in alcuni dei mistici renani, si era offuscato il carattere oggettivo di questa interiorità. Essi insistono sul ritorno al “fondo dell’anima” mediante quella che essi chiamano “introversione”. Ma non sempre appare chiaro se questo “fondo dell’anima” appartiene alla realtà di Dio o a quella dell’io, o, peggio, se esso è tutte e due le cose insieme, panteisticamente fuse.
Negli ultimi secoli l’aspetto del metodo aveva finito per prevalere sul contenuto dell’interiorità cristiana, riducendola talvolta a una specie di tecnica di concentrazione e di meditazione, più che all’incontro con il Cristo vivente nel cuore, anche se non sono mancate in nessuna epoca, splendide realizzazioni dell’interiorità cristiana. La beata Elisabetta della Trinità è nella linea della più pura interiorità oggettiva, quando scrive: “Io ho trovato il paradiso sulla terra, perché il paradiso è Dio e Dio è nel mio cuore”[5].
Ritorno all’interiorità
Ma torniamo al presente. Perché è urgente tornare a parlare di interiorità e riscoprire il gusto di essa? Viviamo in una civiltà tutta proiettata all’esterno. Avviene nell’ambito spirituale quello che si osserva nell’ambito fisico. L’uomo invia le sue sonde fino alla periferia del sistema solare, fotografa quello che c’è in pianeti lontani; ignora invece quello che si agita poche migliaia di metri sotto la crosta terrestre e non riesce perciò a prevedere terremoti ed eruzioni vulcaniche. Anche noi sappiamo, ormai in tempo reale, quello che avviene all’altro capo del mondo, ma ignoriamo quello che si agita nel fondo del nostro cuore. Viviamo come in una centrifuga in azione a tutta velocità.
Evadere, cioè uscire fuori, è una specie di parola d’ordine. Esiste perfino una letteratura di evasione, spettacoli di evasione. L’evasione è, per così dire, istituzionalizzata. Il silenzio fa paura. Non si riesce a vivere, lavorare, studiare senza qualche voce o musica intorno. C’è una specie di horror vacui, di paura del vuoto, che spinge a stordirsi.
Ho avuto occasione di mettere piede una volta in una discoteca, invitato a parlare ai giovani ivi raccolti. Mi è bastato per farmi un’idea di che cosa vi regna: l’orgia del chiasso, il rumore assordante come droga. Sono state fatte inchieste tra i giovani all’uscita della discoteca e alla domanda: “Perché vi riunite in questo luogo?”, alcuni hanno risposto: “Per non pensare!”. Ma è facile immaginare a quali manipolazioni sono esposti dei giovani che hanno rinunciato ormai a pensare.
“Pesi il lavoro su questi uomini e vi si trovino impegnati, così che non diano retta alle parole di Mosè”, fu l’ordine del Faraone d’Egitto (cf Es 5, 9). L’ordine tacito, ma non meno perentorio, dei faraoni moderni è: “Pesi il chiasso su questi giovani, ne siano storditi, cosicché non pensino, non facciano delle scelte libere, ma seguano la moda che fa comodo a noi, comprino quello che diciamo noi, pensino come vogliamo noi!”. Per un settore molto influente della nostra società, quello dello spettacolo e della pubblicità, gli individui contano solo in quanto sono “spettatori”, numeri che fanno salire la “audience” dei programmi.
Occorre opporsi con un risoluto “no!” a questo svuotamento. I giovani sono anche i più generosi e pronti a ribellarsi alle schiavitù e infatti vi sono schiere di giovani che reagiscono a questo assalto e, anziché fuggire, ricercano luoghi e tempi di silenzio e di contemplazione per ritrovare ogni tanto se stessi e, in se stessi, Dio. Sono in tanti, anche se nessuno ne parla. Alcuni hanno fondato case di preghiera e di adorazione eucaristica continuata e attraverso la Rete danno la possibilità a tanti di unirsi a loro.
L’interiorità è la via a una vita autentica. Si parla tanto oggi di autenticità e se ne fa il criterio di riuscita o meno della vita. Il filosofo forse più noto del secolo scorso, Martin Heidegger, ha posto questo concetto al centro del suo sistema. Per il cristiano l’autenticità vera non si raggiunge se non vivendo “coram Deo”, al cospetto di  Dio.
“Un mandriano –scrive Kierkegaard – il quale, se questo fosse possibile, è un io di fronte alle vacche, è un io molto basso; un sovrano che è un io di fronte ai suoi servi, lo stesso. Nessuno dei due è un io; in ambedue i casi manca la misura… Ma che realtà infinita non acquista l’io, acquistando coscienza di esistere davanti a Dio, diventando un io umano, la cui misura è Dio! […] Si parla tanto di vite sprecate. Ma sprecata è soltanto la vita di quell’uomo che mai si rese conto, perché non ebbe mai, nel senso più profondo, l’impressione che esiste un Dio e che egli, proprio egli, il suo io, sta davanti a questo Dio”. [6]
Il Vangelo ci narra la storia di uno di questi “mandriani”. Era fuggito dalla casa paterna e aveva dissipato i suoi beni e la sua giovinezza, vivendo dissolutamente. Ma un giorno “rientrò in se stesso”. Passò in rassegna la sua vita, preparò le parole da dire e si mise in cammino verso la casa paterna (cf Lc 15, 17). La sua conversione si attuò in questo momento, prima di muoversi, mentre era solo in mezzo a una mandria di porci. Si attuò nel momento in cui “rientrò in se stesso”. In seguito non fece che eseguire quello che aveva deliberato. La conversione esterna fu preceduta da quella interiore e ricevette da questa il suo valore. Quanta fecondità in quel “rientrare in se stesso!”.
Non sono solo i giovani a essere travolti dall’ondata di esteriorità. Lo sono anche le persone più impegnate e attive nella Chiesa. Anche i religiosi! Dissipazione è il nome della malattia mortale che ci insidia tutti. Si finisce per essere come un vestito rovesciato, con l’anima esposta ai quattro venti. In un discorso tenuto ai superiori di un ordine religioso contemplativo, san Paolo VI disse:
“Oggi siamo in un mondo che sembra alle prese con una febbre che si infiltra perfino nel santuario e nella solitudine. Rumore e frastuono hanno invaso pressoché ogni cosa. Le persone non riescono più a raccogliersi. In preda a mille distrazioni, esse dissipano abitualmente le loro energie dietro le diverse forme della cultura moderna. Giornali, riviste, libri invadono l’intimità delle nostre case e dei nostri cuori. È più difficile di un tempo trovare l’opportunità per quel raccoglimento nel quale l’anima riesce a essere pienamente occupata in Dio”.
Santa Teresa d’Avila ha scritto un’opera intitolata Il castello interiore che è certamente uno dei frutti più maturi della dottrina cristiana dell’interiorità. Ma esiste, ahimè, anche un “castello esteriore” e oggi constatiamo che è possibile essere chiusi anche in questo castello. Chiusi fuori casa, incapaci di rientrarvi. Prigionieri dell’esteriorità! Sant’Agostino descrive così la sua vita prima della conversione:
“Tu eri dentro di me ed io stavo fuori e ti cercavo quaggiù, gettandomi deforme, sopra queste forme di bellezza che sono creature tue. Tu eri con me, ma io non ero con te. Mi tenevano lontano da te quelle creature che non esisterebbero neppure se non fosse per te che le fai esistere”[7].
Quanti di noi dovrebbero ripetere questa amara confessione: “Tu eri dentro di me, ma io ero fuori!” Vi sono alcuni che sognano la solitudine, ma la sognano soltanto. La amano, purché resti nel sogno e non si traduca mai nella realtà. Nella realtà, rifuggono da essa, ne hanno paura. La scomparsa del silenzio è un sintomo grave. Sono stati rimossi quasi dappertutto quei tipici cartelli che a ogni corridoio delle case religiose intimavano in latino: Silentium! Io credo che su molti ambienti religiosi incombe il dilemma: O silenzio o morte! O si ritrova un clima e dei tempi di silenzio e d’interiorità oppure è lo svuotamento spirituale progressivo e totale. Gesù chiama l’inferno “le tenebre esteriori” (cf Mt 8, 12) e questa designazione è altamente significativa.
Non bisogna lasciarsi ingannare dall’obiezione solita: ma Dio lo si trova fuori, nei fratelli, nei poveri, nella lotta per la giustizia; lo si trova nell’Eucaristia che è fuori di noi, nella parola di Dio… Tutto vero. Ma dove è che “incontri” veramente il fratello e il povero, se non nel tuo cuore? Se lo incontri solo fuori, non è un io, una persona che incontri, ma una cosa; lo urti più che incontrarlo. Dov’è che incontri il Gesù dell’Eucaristia se non nella fede, cioè dentro di te? Un vero incontro tra persone non può avvenire che tra due coscienze, due libertà, cioè tra due interiorità.
È errato del resto pensare che l’insistenza sull’interiorità possa nuocere all’impegno fattivo per il regno e per la giustizia; pensare, in altre parole, che affermare il primato dell’intenzione possa nuocere all’azione. Interiorità non si oppone all’azione, ma a un certo modo di fare l’azione. Lungi dal diminuire l’importanza dell’agire per Dio, l’interiorità la fonda e la preserva.
L’eremita e il suo eremitaggio
Se vogliamo imitare ciò che Dio ha fatto incarnandosi, imitiamolo davvero fino in fondo. È vero che egli si è svuotato, è uscito da sé, dall’interiorità trinitaria, per venire nel mondo. Sappiamo però come ciò è avvenuto: “Ciò che era rimase, ciò che non era assunse”, dice un antico adagio a proposito dell’incarnazione. Senza abbandonare il seno del Padre, il Verbo venne in mezzo a noi. Anche noi andiamo pure verso il mondo, ma senza uscire mai del tutto da noi stessi. “L’uomo interiore – dice l’Imitazione di Cristo – si raccoglie spontaneamente perché non si disperde mai del tutto nelle cose esterne. A lui non è di pregiudizio l’attività esterna e le occupazioni a suo tempo necessarie, ma sa adattarsi alle circostanze”[8].
Ma cerchiamo anche di vedere come fare, concretamente, per ritrovare e conservare l’abitudine all’interiorità. Mosè era un uomo attivissimo. Ma si legge che si era fatta costruire una tenda portatile e a ogni tappa dell’esodo fissava la tenda fuori dell’accampamento e regolarmente entrava in essa per consultare il Signore. Lì, il Signore parlava con Mosè “faccia a faccia, come un uomo parla con un altro” (Es 33, 11).
Questo non sempre si può fare. Non sempre ci si può ritirare in una cappella o in un luogo solitario per ritrovare il contatto con Dio. San Francesco d’Assisi suggerisce un altro accorgimento più a portata di mano. Mandando i suoi frati per le strade del mondo, diceva: Noi abbiamo un eremitaggio sempre con noi dovunque andiamo e ogni volta che lo vogliamo possiamo, come eremiti, rientrare in questo eremo. “Fratello corpo è l’eremo e l’anima l’eremita che vi abita dentro per pregare Dio e meditare” [9].
È la stessa raccomandazione che santa Caterina da Siena esprimeva con l’immagine della “cella interiore” che ognuno porta con sé e in cui è sempre possibile ritirarsi con il pensiero, per riannodare un contatto vivo con la Verità che abita in noi. È a questa cella invisibile, non delimitata da pareti,  scrive sant’Ambrogio, che Gesù ci invita con le parole: ”Quando preghi entra nella tua camera e, chiusa la porta,  prega il Padre tuo nel segreto” (Mt 6, 6).[10]
Abbiamo ascoltato all’inizio l’accorato appello di sant’Agostino a rientrare nel cuore, terminiamo ascoltando un altro appello altrettanto accorato nella stessa direzione, quello che sant’Anselmo d’Aosta rivolge al lettore all’inizio del suo Proslogion:
 
Orsù, omuncolo, abbandona per un momento le tue occupazioni, nasconditi un poco ai tuoi tumultuosi pensieri. Abbandona ora le pesanti preoccupazioni, rimanda i tuoi laboriosi impegni. Per un po’ dedicati a  Dio e riposati in Lui. Entra nella camera del tuo spirito, escludi da essa  tutto, all’infuori di Dio e di ciò che ti possa giovare a cercarlo, e, chiusa la porta (Mt 6, 6), cercalo. Di’ ora, o mio cuore, nella tua totalità, di’ ora a  Dio: ‘Io cerco il tuo volto; il tuo volto, o Signore, io cerco’ (Sal 27, 8).
 
Con questi desideri e propositi iniziamo la nostra giornata di lavoro, a servizio della Chiesa.
[1] S. Agostino, De vera rel. 39, 72 (PL 34, 154).
[2] S. Agostino, In Ioh. Ev., 18, 10 (CCL 36, p. 186).
[3] Cf Rm 7, 22; 2 Cor 4, 16; 1 Pt 3, 4)
[4] Cf. Gv 14, 17.23; Rm 5, 5; Gal 4, 6.
[5] S. Elisabetta della Trinità, Lettera 122.
[6] S. Kierkagaard, La malattia mortale, II, in Opere, a cura di C. Fabro, Firenze 1972, p. 662-663.
[7] S. Agostino, Confessioni, X, 27.
 
[8] Imitazione di Cristo, II, 1.
[9] Legenda Perugina, 80 (Fonti Francescane, nr. 1636).
[10] S. Ambrogio, Su Caino e Abele, I, 9, 38 (CSEL 32,1, p. 372).

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Raniero Cantalamessa

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