La violenza nei videogiochi

Le opinioni si dividono sulle possibili soluzioni

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di padre John Flynn, L.C.

ROMA, domenica, 21 novembre 2010 (ZENIT.org).- La Corte Suprema degli Stati Uniti ha recentemente trattato il tema dell’opportunità o meno di consentire ai minori l’acquisto o il noleggio di videogiochi di natura violenta.

Secondo le notizie della stampa, i giudici non hanno reagito in modo univoco, né secondo i consueti schieramenti che assumono sulle questioni sottoposte al loro esame.

Il caso riguarda una legge della California del 2005 che vieta la vendita ai minori di videogiochi eccessivamente violenti. La legge è stata firmata, come taluni hanno ironicamente osservato, da un ex attore noto per i suoi film violenti, il governatore Arnold Schwarzenegger. Dopo essere stata bocciata dai tribunali inferiori, la normativa è ora arrivata all’attenzione della Corte Suprema.

Le questioni emerse dal dibattimento variano dal perché si dovrebbero stigmatizzare i videogiochi e non considerare anche la violenza nei fumetti o nella musica rap alla possibilità di considerarli come una forma di espressione artistica, secondo quanto riferito dal Wall Street Journal il 3 novembre.

“Il nostro Paese non ha una tradizione che insegna ai bambini a guardare persone che picchiano le ragazze sulla testa con una pala finché non chiedono pietà, che si mostrano malvagie al punto da decapitarle o che sparano la gente alle gambe per farla cadere”, ha detto il presidente della Corte John Roberts, secondo quanto riferito dall’Associated Press il 2 novembre.

Per contro, il giudice Antonin Scalia si è detto preoccupato per il rispetto del Primo Emendamento, secondo cui “il Congresso non emana leggi che limitino la libertà di espressione”. E ha aggiunto: “La libertà di espressione non è mai stata intesa nel senso di escludere la raffigurazione della violenza. Lei ci sta chiedendo di creare una proibizione totalmente nuova che il popolo americano non ha mai considerato quando ha ratificato il Primo Emendamento”.

Secondo la notizia dell’Associated Press, i tribunali di altri sei Stati hanno bocciato divieti simili.

Libertà di espressione

“I videogiochi, anche quelli violenti, consentono la libera espressione da parte dei giocatori, così come gli strumenti musicali consentono la libera espressione dei musicisti”, ha scritto Daniel Greenberg, grafico e autore di videogiochi, in un articolo d’opinione apparso sul Washington Post del 31 ottobre.

“Nessuno nel Governo ha titolo di decidere quali giochi non consentono la libera espressione, anche se l’espressione è quella di un quindicenne”, ha sostenuto. Greenberg ha anche osservato che le autorità della California non hanno prodotto prove convincenti del fatto che i videogiochi provochino danni psicologici ai minori.

Sulla stessa linea delle argomentazioni emerse nella Corte, si è espresso anche un collaboratore della rivista PC World, JR Raphael, che in un articolo non datato apparso sul loro sito Internet ha condannato la legge.

Andando anche oltre le questioni di principio, egli ha evidenziato alcuni problemi pratici derivanti dalla normativa. Secondo il testo della legge, il videogioco violento è quello “in cui la varietà delle opzioni disponibili per il giocatore comprende l’uccisione, la menomazione, lo smembramento o l’aggressione sessuale nei confronti dell’immagine di un essere umano”, in un modo “evidentemente offensivo”, che faccia leva sulle tendenze “devianti o morbose” e manchi di “sostanziale valore letterario, artistico, politico o scientifico”.

“Allora, chi sarà a dire quali videogiochi sono ‘evidentemente offensivi’ e quali non lo sono?”, ha chiesto. Ha poi citato una domanda formulata dal giudice Antonin Scalia: “Quand’è che un videogioco violento diventa ‘deviante’, rispetto ai videogiochi violenti ‘normali’?”.

Gregory K. Laughlin, direttore della biblioteca giuridica della Cumberland School of Law, presso la Samford University, in Alabama, si è espresso a favore della legge in un articolo del 2 novembre pubblicato online sul sito Internet della rivista First Things.

Ha ammesso che gli esperti sono divisi sulla questione se vi sia un nesso tra i videogiochi e il comportamento violento, e ha anche riconosciuto che la questione riguarda proprio la libertà di espressione. In passato, tuttavia, la Corte suprema ha sostenuto l’opportunità di prevedere restrizioni per i minori nel campo della libertà di espressione, ha ricordato.

Più di 40 anni fa, infatti, la Corte suprema aveva sostenuto una legge dello Stato di New York che imponeva restrizioni all’accesso dei minori alle riviste pornografiche. In questa decisione la Corte spiegava che lo Stato aveva titolo di fare questo non sulla base di certezze scientifiche sugli eventuali danni provocati, ma perché “i genitori hanno un interesse allo sviluppo etico e morale dei loro figli e hanno il diritto di essere sostenuti dallo Stato nel portare i figli a diventare eticamente e moralmente adulti”, ha ricordato.

Laughlin ha richiamato anche altre decisioni e ha concluso citando un parere di più di 60 anni fa, formulato dal giudice Robert Jackson, secondo cui “il pericolo è che, se la Corte non tempera la sua logica dottrinaria con un po’ di saggezza pratica, trasformerà il Bill of Rights costituzionale in un patto suicida”.

Consultazione

Un dibattito analogo si è svolto qualche mese fa in Australia, quando al Dipartimento della Giustizia è stato chiesto se potesse essere messo in commercio un videogioco della categoria R18+ (divieto per i minori di 18 anni).

Ancora non è stata emanata una decisione, ma a maggio il Governo ha pubblicato un rapporto sul materiale ricevuto dai cittadini e dalle organizzazioni. Vi sono stati 34 pareri avanzati dal mondo associazionistico, ecclesiastico e industriale. Di questi, 18 erano a favore della classificazione come R18+, mentre 16 erano contrari.

L’industria è favorevole alla categoria per adulti, perché ciò le consentirebbe di vendere i giochi che attualmente non sono ammessi in Australia. Nei pareri presentati, si è sostenuto che non esiste una dimostrazione scientifica definitiva che i media violenti provochino o inneschino comportamenti violenti. Si è anche affermato che non vi è prova del fatto che la violenza nei videogiochi sia più dannosa di quella nei film o in altri media.

Vari gruppi, espressione del mondo cristiano e delle famiglie, si sono detti contrari alla categoria dei videogiochi per adulti. Nel parere dell’Australian Christian Lobby si ricorda che esiste già una diffusa preoccupazione nella comunità sulla violenza presenta nei media.

Mantenere il divieto sui videogiochi non adatti ai minori è, a loro avviso, un approccio “fondato sulla considerazione, dettata dal buon senso e dalla ricerca, che la natura interattiva dei giochi computerizzati porta i contenuti ad avere maggiore incidenza sui giocatori, rispetto ad analoghe rappresentazioni di violenza o di sesso veicolate dai film”.

L’Australian Council on Children and the Media ha osservato che i materiali classificati R18+, presenti in strumenti portatili come i DVD e i videogiochi, comportano un rischio molto maggiore che i minori possano non essere protetti dalla loro esposizione; cosa che non accade con le proiezioni cinematografiche, in cui è più facile proteggere i bambini.

Mentre alcuni genitori possono ben essere informati dei rischi ed essere vigili sulla prevenzione nelle proprie case, inoltre, non tutti effettivamente lo sono, hanno affermato.

Non è un mondo ideale

La Chiesa cattolica ha invece assunto una posizione diversa sulla questione. Il parere presentato dalla Conferenza Episcopale Australiana ha affermato anzitutto che sarebbe preferibile che i materiali classificabili come R18+ non fossero proprio disponibili in Australia.

Tuttavia, dato che questi sono già presenti, ancorché illegalmente, sarebbe allora preferibile int
rodurre la classificazione R18+ per questi videogiochi, così da poter restringerne l’accesso da parte dei minori.

I Vescovi cattolici hanno detto chiaramente di non approvare questi videogiochi. “In un mondo ideale, i contenuti dei film e giochi computerizzati classificati R18+ o superiori non esisterebbero in una civile democrazia”, hanno sostenuto.

Tuttavia, non vivendo in un mondo ideale, dobbiamo operare al meglio per gestire la situazione. Il divieto non è una misura utile, secondo il parere della Conferenza, poiché gran parte di questo materiale è disponibile su Internet o attraverso copie.

Come aveva osservato il giudice Jackson diversi decenni fa, i genitori hanno un legittimo interesse allo sviluppo etico e morale dei loro figli. Un compito che genitori e legislatori fanno fatica ad adempiere, in un contesto di rapidi sviluppi tecnologici dei media.

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ZENIT Staff

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