The Swedish Theory of Love

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La progressista Svezia si scopre sola e triste

Considerato modello di civiltà in Europa, il Paese mostra oggi l’altra faccia della medaglia, come racconta il docu-film “La teoria svedese dell’amore” di Erik Gandini

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C’era una volta il mito della Scandinavia. Correvano gli anni ’70 e gli sguardi di tutta Europa erano rivolti all’insù, verso quel lungo nastro di terra che sorge in alto, sulla cartina geografica del Vecchio Continente.
Stato sociale, diritti, modernità, indipendenza degli individui. La Svezia, in particolare, era una sorta di laboratorio progressista. Nel 1972, la sezione femminile del Partito Socialdemocratico allora guidato dal primo ministro Olof Palme, scrisse persino un manifesto, intitolato La famiglia del futuro.
A quarantanni di distanza, l’incantesimo sembra però svanire. La realtà dei fatti presenta ad occhi ormai disillusi l’altra faccia della medaglia svedese. La tanto agognata indipendenza si è trasformata dapprima in individualismo e poi in solitudine. E il colore grigio del cielo scandinavo rischia di riflettere sempre di più gli animi della popolazione.
La Svezia di oggi è raccontata nel docu-film La teoria svedese dell’amore di Erik Gandini, regista italo-svedese già autore di Videocracy, una critica verso il ruolo dei media in Italia. Andato in onda quest’estate sulla Rai, il suo ultimo lavoro ha sollevato qui da noi giusto un flebile dibattito, soprattutto a seguito di un articolo uscito su Vita.
Più che di famiglia del futuro, forse in quell’avveniristico manifesto si sarebbe dovuto parlare di scomparsa della famiglia. La Svezia raccontata da Gandini, infatti, ha la metà della popolazione che vive da sola e una persona su quattro che muore senza nessuno accanto. Colpisce poi che sempre più donne optino per la fecondazione fai-da-te: si collegano su internet al sito di un’agenzia, scelgono il profilo genetico del bambino desiderato, acquistano e in pochi giorni ricevono a casa il kit con il liquido seminale da iniettarsi da sole. Questa immagine desolante è il simbolo della Svezia che emerge nel docu-film di Gandini, che ZENIT ha intervistato.
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Come è nata l’idea di girare un docu-film su questo tema?
Essendo cresciuto in una famiglia composta da madre svedese e padre italiano e avendo poi vissuto tra Italia e Svezia tutta la mia vita, ho potuto constatare come ogni società tenda a considerare assoluti i propri valori. Ma ciò che è considerato normale in una società, può essere percepito come anormale in un’altra. Ho sempre cercato di amalgamare il meglio della cultura italiana e svedese. Il mio spirito curioso ed esistenzialista mi porta però a mettere in discussione le ideologie che mi circondano, così come le idee tradizionali, reazionarie, non al passo con i tempi. In questo caso ho voluto fare un film per confrontarmi con le mie paure sul futuro. Il mio incubo di morire solo e dimenticato. Vivendo in un Paese che ha fondato il proprio welfare proprio sull’autonomia dell’individuo, ho sentito il bisogno di chiedere: e se stessimo andando nella direzione sbagliata? Se l’ossessione per l’autosufficienza e  l’autonomia personale si rivelassero una strada a fondo chiuso?
La Svezia che Lei descrive potrebbe essere riassunta da una definizione citata in un passaggio del docu-film: “Tutte le relazioni umane autentiche devono basarsi su una fondamentale indipendenza tra le persone”. Tuttavia l’uomo è un essere sociale, quali conseguenze comporta questo isolamento diffuso?
Premetto che amo infinitamente la Svezia. Ho scelto di vivere qui, da ormai trent’anni, e di far crescere i miei tre figli in questo Paese. Provo grande ammirazione per l’enorme senso civico, etico e di responsabilità che il Paese ha per i suoi cittadini, per il grande rispetto per la natura e per il senso di solidarietà nei confronti dei popoli vittime di guerre e povertà (la Svezia ha accolto il numero pro-capite più alto di profughi in Europa nel 2015 ed è l’unico Paese al mondo a devolvere l’1% del PIL in aiuti internazionali). Come padre di due figlie femmine credo anche che la Svezia dia loro le loro possibilità di realizzarsi e di avere opportunità come donne realmente pari a quelle di un uomo. Infine è anche il Paese che mi ha dato la possibilità di esercitare la mia professione di documentarista indipendente  in condizioni di libertà che la realtà mediatica italiana non mi ha offerto.
Detto questo, mi ha sempre affascinato e inquietato la natura visionaria sulla quale è basato il sistema di valori svedese. Motivato da una grande spirito di  modernità negli anni ’70, lo Stato ha voluto essere garante nel creare delle condizioni ugualitarie per tutti, garante in particolare che ogni individuo sia libero economicamente dalla famiglia e allo stesso tempo creando, involontariamente, le condizioni per una sorta di individualismo e di isolamento esistenziale che voglio mettere in luce con il mio film. Ritengo che l’egoismo e l’individualismo, la falsa promessa di piacere nel non dipendere dagli altri, sia tendenza dominante di tutto il mondo occidentale, Italia compresa.
Quando nasce la “teoria svedese dell’amore” che ha mutuato nel titolo del docu-film?
È radicata in questa cultura. È stata coniata da due storici svedesi, Lars Trägård e Henrik Berggren, per definire ciò che più caratterizza la cultura scandinava quando si tratta di relazioni umane. Sostanzialmente questa teoria sostiene che il vero amore, quello autentico, può esistere solo tra due persone che sono indipendenti l’una dall’altra. Che non sono insieme per fini materiali o per dipendenza economica, come succede invece spesso in società meno eque, dove la ricchezza è distribuita in modo ingiusto e dove le donne sono per definizione economicamente più deboli e in svantaggio nei confronti dell’uomo. L’idea in teoria, da un punto di vista economico, non fa una piega ma può trasformarsi, nella sua estensione esistenziale, in un’ossessione all’autosufficienza. In una diffusa e radicata convinzione che le relazioni umane debbano in primo luogo basarsi sull’essere liberi gli uni dagli altri. Il rischio è evidente in Svezia come in molti Paesi occidentali: la dilagante solitudine, che ha portato l’intellettuale inglese George Monbiot a definire quella attuale “L’era della solitudine”.
Si dice che alcuni Paesi nordici – tra questi la Svezia – abbiano un alto tasso di suicidi, specie tra i giovani. Ritiene che il fenomeno derivi anche dal tipo di società individualista che Lei racconta?
Mi risulta che la storia dei suicidi sia un vecchio stereotipo. Sicuramente la Svezia è il terzo Paese in Europa in quanto a consumo di antidepressivi (Islanda prima). Credo che l’individualismo scandinavo si basi su una falsa promessa di felicità. Paradossalmente il sistema nordico è un sistema a due facce. Da una parte un forte senso di collettività, una volontà politica di garantire una vita decente a tutti i cittadini, un’autonomia economica. Dall’altra questa volontà collettiva crea forti presupposti di individualismo, in Svezia è più facile cavarsela da soli e quindi anche rimanere soli. Una società che si può riassumere in una frase che ha del paradossale: “Aiutiamoci, insieme, a liberarci l’uno dall’altro”. Ciò si scontra con la natura sociale dell’essere umano e col fatto che la felicità, se non condivisa con altri, non è vera felicità. Tutti gli studi su questo tema dimostrano – contrariamente alla convinzione generale – che non sono i soldi, né il successo o la carriera a renderci felici, quanto ciò che stiamo sempre più trascurando, ossia le relazioni umane. Il film finisce con una profonda riflessione del sociologo Zigmunt Bauman che promuove con enfasi proprio l’idea di interdipendenza come opposta a quella di indipendenza.
Il manifesto da cui trae ispirazione questo modello di società si intitolava La famiglia del futuro. Forse più che di famiglia del futuro avrebbero dovuto parlare di scomparsa della famiglia…
L’obiettivo di questo manifesto non era di distruggere la famiglia ma al contrario creare presupposti per una maggiore qualità dei rapporti familiari. Liberare le donne dai limiti di una vita da casalinga o di tutrice non retribuita di bambini e anziani. Liberare gli anziani, attraverso la riforma delle pensioni, dal dover convivere in situazioni di sovraffollamento domestico e di dipendenza dalla propria prole. Dare le possibilità ai giovani, attraverso un sistema democratico di sussidi per lo studio, di emanciparsi, studiare, lavorare e crearsi una propria vita senza finire a fare i mammoni trentacinquenni a casa. Chi aderì a questa idea non aveva cattive intenzioni e non poteva prevedere l’avvento di ciò che arrivò un decennio dopo: il neoliberismo degli anni ’80 e ’90 e la cultura individualista del 2000 fomentata da tv e mass media, soprattutto tra i giovani, i quali oggi sono bombardati dal culto della celebrità, ossessionati da personaggi che sono ossessionati da se stessi, educati all’idea che la realizzazione personale sia l’aspirazione massima. Una patologia narcisista sta dilagando tra intere generazioni. Si può dire che il culto dell’autonomia personale si è sposato molto bene con queste tendenze creando una sorta di cocktail pericoloso. Non è detto che la Svezia non sarà la prima a rendersene conto e deciderà di creare un nuovo manifesto per il futuro.
In Svezia come hanno reagito? Abituati ad esser considerati un modello, specie per il welfare state, sono disposti a ricevere anche delle critiche?
La Svezia, grazie al cielo, ha una forte tradizione di autocritica. Il film è finanziato dalla tv pubblica svedese, SVT, e dall’Istituto Cinematografico Svedese. È uscito nelle sale a gennaio e andrà in onda quest’autunno in tv. All’uscita al cinema ha sollevato un dibattito acceso sulla stampa che è andato avanti a colpi di interventi, articoli e inserti su radio e tv per diversi mesi e che ha diviso la critica tra chi non vuole riconoscere la Svezia così come è rappresentata dal mio sguardo e chi invece riconosce l’importanza di notare con preoccupazione i rischi, peraltro dimostrati dai dati, di una dilagante solitudine. Ci sono stati tanti riscontri positivi, anche nell’ambiente politico. Il comune di Trollhättan, vicino Göteborg, è riuscito a unire l’intera giunta per un progetto municipale che vuole affrontare il problema della solitudine soprattutto fra gli anziani, per il quale è stato stanziato un fondo speciale e mi ha invitato, insieme al film, ad inaugurare l’iniziativa. La società perfetta non esiste. La mia unica definizione di società perfetta è la società che non crede mai di esserlo, quella che si mette costantemente in discussione, che ha il coraggio di mettersi sempre alla prova, anche nelle idee più fondamentali sulla quale si basa.
In passato suscitò polemiche, in Italia, il suo lavoro Videocracy, sul ruolo dei media e sulla figura di Silvio Berlusconi. Le ha creato più problemi quel docu-film di The Swedish Teory of Love
I due film hanno trovato riscontri simili nei due Paesi, nella misura in cui in tanti non hanno voluto riconoscersi in quelle descrizioni. Spero sempre che i miei film facciano discutere o perlomeno pensare, così come le tematiche che affronto fanno riflettere me stesso. Giornalismo e cinema documentario sono ormai due generi lontani l’uno dall’altro. Se al giornalismo viene richiesto un approccio razionale, clinico e analitico alla realtà, dal documentario creativo ci si aspetta lo sguardo personale, emotivo, soggettivo, ricco di temperamento dell’autore. Essendo il documentario l’espressione cinematografica più a basso costo e quindi accessibile, è una grande garanzia di libertà di espressione e quindi di democrazia. Sicuramente lo sguardo del film-maker fa bene. Uno sguardo curioso, critico, provocatorio e nel mio caso sempre comunque affettuoso, di chi vede sia da dentro che da fuori.
Non so se Lei è credente. Le chiedo infine: c’è posto per la fede religiosa in una società come questa?
Anche esponenti di rilievo della Chiesa svedese si sono posti questa domanda vedendo il film. Secondo i dati, la Svezia è uno dei Paesi più secolarizzati al mondo, dove la religione ha poca influenza sulla vita delle persone. Le religioni si fanno garanti dei valori tradizionali rispetto alla famiglia, ma non credo che la soluzione unica sia la fede. Non essendo credente ed essendo cresciuto in una famiglia laica a tutti gli effetti, ho provato personalmente come il valore della famiglia e dell’interdipendenza possano esistere in modo profondo e radicato anche senza una fede religiosa. L’Italia è il Paese simbolo della famiglia, nonostante questo nascono solo 1,37 bambini per donna mentre in Svezia 1,9. Il mio film vuole essere un segnale d’allarme sul futuro, ma non per questo uno sguardo nostalgico al passato.

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Federico Cenci

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