La "pace costituente"

Prolusione del prof. Pasquale Ferrara all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Istituto Universitario Sophia

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ROMA, lunedì, 22 ottobre 2012 (ZENIT.org).- Riprendiamo il testo della prolusione tenuta giovedì 18 ottobre a Loppiano dal professor Pasquale Ferrara, docente dell’Istituto Universitario Sophia (IUS) di Teoria politica della comunità internazionale e segretario generale dell’Istituto Universitario Europeo di Fiesole, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico dello IUS.

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Per un’interpretazione integrativa delle relazioni internazionali

Introduzione

E’ per me un grande onore ed un privilegio potermi indirizzare al corpo docente, agli studenti e a tutta la comunità dell’Istituto Universitario “Sophia” in un momento così solenne e significativo come l’inaugurazione dell’anno accademico 2012/2013. Una circostanza che mi emoziona profondamente, in quanto mi sento io stesso parte integrante di questa originale comunità di studio e di prassi, di pensiero e di vita.  Vorrei perciò iniziare con un riferimento alla stessa etimologia dell’inaugurazione, e cioè rivolgendovi  proprio, dal profondo del cuore, gli auguri per un anno accademico ricco di frutti di ricerca e di studio e di risultati brillanti.

1. L’Unione Europea e il premio Nobel per la pace 2012

Quando ho proposto il tema di questo discorso inaugurale, non avrei potuto immaginare che esso si sarebbe svolto poco dopo un evento inatteso e di straordinario significato politico: il conferimento del premio Nobel per la Pace 2012 all’Unione Europea! Una scelta imprevista e per molti versi sorprendente, ma –  a ben guardare – fondata su solide basi storiografiche  e politologiche.

Dico questo perché non sono mancate critiche alla scelta del Comitato del Nobel. Taluni osservatori – che possiamo definire “atlantisti” in senso lato[i] – hanno accusato i commissari di Oslo di essere caduti in una logica fallace, del tipo “post hoc, propter hoc”: l’integrazione europea – secondo tali voci di dissenso – non sarebbe la causa prima della stabilizzazione del continente dopo la seconda guerra mondiale, ma solo una conseguenza incidentale della garanzia militare americana di ultima istanza su cui ha potuto contare l’Europa occidentale durante la Guerra Fredda. Da questo punto di vista, si è sostenuto che il Nobel avrebbe dovuto essere assegnato ex aequo anche agli Stati Uniti e persino alla NATO, per essersi fatti carico delle sicurezza europea durante la divisione del Continente in due blocchi. 

Con tutto il rispetto per le opinioni contrarie, a me sembra, invece, che l’articolata motivazione del premio[ii]  sia pienamente condivisibile.  L’Unione Europea – afferma il Comitato del Premio Nobel – ha contributo per oltre sei decenni al progresso della pace e della riconciliazione, oltre che della democrazia e dei diritti umani in Europa. I commissari del Nobel forniscono un’importante e oggi sottovalutata chiave di lettura: la riconciliazione franco-tedesca, conseguita in modo stabile e strutturale proprio dall’Unione Europea, tanto da rendere impensabile la prospettiva di un conflitto tra queste nazioni che – tra l’800 e la metà del ‘900 – avevano combattuto tra loro tre guerre distruttive nell’arco di soli 70 anni. Questi due “nemici storici” divennero partners politici ed economici proprio grazie al processo di integrazione europea.

Questa ricostruzione del ruolo dell’Unione Europea come un’istituzione capace, in sostanza, di rendere la guerra, almeno in Europa, oltre che concettualmente impensabile, un’opzione impraticabile, una pratica desueta e uno strumento inutile, costituisce per il Comitato del Nobel una legittimazione politica fondamentale della vicenda integrativa del continente. E’ pur vero che la guerra è oggi inimmaginabile, ad esempio, anche tra Stati Uniti, Canada e Messico, tra Australia e Nuova Zelanda, ma ciò è il risultato di opzioni contingenti, benché solide, e di circostanze storiche, politiche, economiche e culturali in senso ampio; l’importante differenza è che, nel caso dell’Europa, la pace duratura è piuttosto il risultato della condivisione di importanti aspetti della sovranità attraverso istituzioni formali dotate sì di poteri limitati, ma direttamente esercitabili nella sfera interna degli Stati membri. Non siamo ancora pienamente entrati in una dimensione “post-westphaliana”, di irrilevanza della sovranità, ma certo siamo ben lontani – per fortuna –  dalla vecchia idea del concerto o equilibrio delle potenze.

Tuttavia, nel corso degli ultimi anni proprio questa ermeneutica irenologica era stata ritenuta – da parte di molti studiosi, analisti e osservatori – come incapace di suscitare non dico entusiasmo, ma quanto meno una forma di sentimento identitario nelle nuove generazioni europee, per le quali la narrazione del superamento della guerra come “istituzione europea” costituirebbe nulla più che una rievocazione di lontane vicende belliche, senza alcun rapporto con il presente.  Essa, in sostanza, non contribuirebbe più (o non abbastanza) a creare quel demos europeo ritenuto il necessario presupposto di una autentica polis europea. 

<p>In effetti la motivazione del Nobel è ampia, e per nulla irrilevante rispetto alla condizione dell’Europa contemporanea[iii] e prossima ventura. Il Comitato del premio Nobel menziona l’accessione della Croazia a partire dal 1° luglio 2013, l’apertura di negoziati di adesione con il Montenegro e la concessione dello status di Paese candidato alla Serbia quali altrettanti contributi dell’Unione Europa alla riconciliazione nei Balcani. La stessa prospettiva di una futura adesione all’Unione da parte della Turchia – per quanto complessa e non certamente immediata – ha giocato un ruolo non secondario nel consolidamento delle istituzioni e dei processi democratici in quel Paese.

Ma i commissari del Premio norvegese rendono anche più esplicito il significato politico della loro scelta, non esitando a collegare tale decisione alle presenti difficoltà economiche e al forte disagio sociale che colpiscono molti Paesi membri dell’Unione. E’ proprio in tale situazione di crisi, in cui sembrano essere rimessi in discussione gli stessi fondamenti integrativi del progetto europeo, ed in cui si manifestano, anzi, segni di disgregazione, che è importante mettere in luce ciò che l’Unione Europea ha rappresentato e tuttora rappresenta in quanto istituzione dai caratteri parzialmente sovranazionali che è stata in grado di trasformare l’Europa da un continente di guerra in un continente di pace.

Il Nobel per la pace all’Unione Europea stride, inoltre, con le rappresentazioni – irresponsabili oltre che infondate – dei contrasti sulle modalità per fronteggiare la crisi del debito nell’Eurozona come una sorta di “surrogato” di una nuova guerra europea, se non nei termini di una vera e propria fase prodromica di un nuovo conflitto di portata potenzialmente mondiale.

Tutto ciò sarebbe più che sufficiente a giustificare la decisione presa ad Oslo. C’è però una conclusione, nella motivazione, che mi sembra tutt’altro che rituale e di circostanza: il Comitato afferma, infatti, senza esitazioni ed in modo esplicito, che l’Unione Europa rappresenta, oggi, un primo esempio di quella “fraternità tra le nazioni” preconizzata da Alfred Nobel. Fa riflettere questo riferimento ad una categoria – quella della fraternità – a cui ad esempio la teoria delle relazioni internazionali non è affatto abituata e che solo di recente è stata riproposta tra i temi di riflessione teorica, benché formulata nei termini più generali di “amicizia politica”. Ma su questo punto intendo ritornare più avanti.

2. La guerra e l’”ordine” internazionale

In generale, si può affermare che la teoria delle relazioni internazionali è una forma di narrazion
e dei rapporti tra stati, istituzioni, organizzazioni internazionali, attori non governativi, della loro interazione, delle cause, delle modalità e degli effetti di tale interazione. In questa narrazione, le relazioni internazionali sono spesso presentate come una storia di guerre e conflitti; la condizione di pace avrebbe una natura essenzialmente residuale, oppure le condizioni per una pace stabile andrebbero stabilite, in ipotesi, attraverso una particolare tipologia di guerra e a seguito di essa. 

Nell’opera dedicata alla guerra del Peloponneso, che vide affrontarsi Sparta e Atene con i rispettivi alleati tra il 431 a.C. ed il 404 a.C., Tucidide attribuiva ai Corinzi, sostenitori di Sparta, il seguente discorso nell’assemblea della coalizione spartana: “Votate in favore della guerra senza timore dei possibili danni nell’immediato, ma mirando piuttosto alla più durevole pace che ne seguirà: giacché dalla guerra la pace spesso esce rafforzata, mentre evitare di combattere per non interrompere un periodo di pace non è altrettanto privo di pericoli”.[iv] La guerra del Peloponneso sarebbe oggi forse definita come una war of necessity, non una war of choice. Si tratta di un dibattitto che verte – per usare una terminologia non esente, essa stessa, da intenti polemici – sulla ripulsa del cosiddetto appeasement, e cioè sulla necessità di evitare ogni condiscendenza con i nemici di oggi, specie quelli con mire espansionistiche e i dittatori, per scongiurare conseguenze peggiori in futuro. Il riferimento obbligato è all’Accordo di Monaco del 29 settembre 1938 che, in pratica, permise ad Hitler di annettere territori della Cecoslovacchia e che, secondo molte interpretazioni, condusse alla Seconda Guerra Mondiale.

Tuttavia la lettura di Tucidide, considerato il fondatore di un approccio disincantato alle relazioni internazionali, riserva anche delle sorprese. Ad esempio, Tucidide non manca di notare come l’eccitazione per l’avventura bellica fosse anche il risultato di un’incolpevole incoscienza: “Da ambo le parti non si facevano che piani grandiosi, e si era pieni di entusiasmo nell’andare incontro alla guerra. Se ne comprende il motivo: all’inizio ognuno è più fervido nell’impegno, e poi allora c’erano molti giovani nel Peloponneso, che non conoscevano la guerra, e quindi la affrontavano nient’affatto a malincuore”.[v] 

Con una certa ricorrenza, in relazione alla guerra, gli approcci descrittivi assumono spesso anche una dimensione prescrittiva.

In gran parte ciò si deve al lungo dominio degli approcci cosiddetti “realista” e “neo-realista” nelle relazioni internazionali che – chiamando in causa, ancora una volta, l’inconsapevole Tucidide – fanno capo, rispettivamente, a Hans Mongenthau[vi] e Kenneth Waltz[vii]; ma tale prospettiva ha molto credito anche in altre scuole, come ad esempio quella neo-marxista.  

Da questa ermeneutica fenomenologica del conflitto internazionale si tende a dedurre, infatti, una sorta di ontologia dai caratteri polemologici delle relazioni internazionali.

La guerra viene assunta come una costante, in particolare, in alcune teorie del mutamento internazionale. La teoria della “guerra egemonica”, ad esempio, ha esercitato una duratura influenza nello studio delle relazioni internazionali. In qualche misura, è divenuta anch’essa una ….teoria egemonica per la spiegazione o l’interpretazione del cambiamento strutturale nella politica mondiale. Si tratta, beninteso, di una teoria cui non fa difetto il rigore scientifico e la profondità analitica. Basandosi sull’approccio classico alla guerra, Robert Gilpin[viii] sostiene che la guerra egemonica ha luogo quando viene erosa la supremazia di una o più potenze dominanti a causa dei cambiamenti economici e tecnologici che determinano uno spostamento di equilibri a favore di alcuni stati a danno della potenza o delle potenze egemoni.[ix]

Semplificando, si può dire che la teoria della guerra egemonica suggerisce che la pace abbia una natura “interstiziale”, anche nel caso la “sospensione delle ostilità” duri per un periodo più o meno prolungato. E’ vero, da un lato, che “la storia internazionale non è esclusivamente una storia di male, dolore, violenza, ma anche di pace, di progresso, di impegno sociale.  La nostra è una storia di contrasti, certamente, di guerre, ma anche di fuoriuscita dalle guerre (…)”.[x] Tuttavia tale storia avrebbe luogo nelle “pause” o tregue tra una “guerra costituente” (come la definisce Bonanate[xi]) e quella successiva, e la disciplina delle relazioni internazionali avrebbe come scopo quello di indagare “che cosa succeda tra una guerra e l’altra, quale sia la solidità del nuovo ordine imposto, quali sfide subisca e affronti o alle quali soccomba”[xii]. Secondo questa prospettiva, non tutte le guerre hanno l’effetto di riconfigurare il sistema internazionale; quelle che provocano tale esito, sono definite guerre costituenti, perché costituirebbero, appunto, un nuovo ordine, che assume spesso i caratteri contraddittori della cosiddetta “pace egemonica”.[xiii] Sorge qui un primo interrogativo: se, in ipotesi, la guerra rappresenta l’evento drammatico che consente un “passaggio di stato” del sistema internazionale, che genere di “ordine” è quello che contiene in sé, in modo organico, i presupposti della sua distruzione? Un ordine che consente, nel medio e lungo termine, il massimo di disordine, il massimo di entropia, è davvero un “ordine”?

Se si passa dal livello teoretico a quello empirico, è un paradosso rilevare come la progressiva istituzionalizzazione delle relazioni internazionali non abbia sinora conseguito l’obiettivo fondamentale dell’eliminazione “categoriale” della guerra: se è vero che la guerra come pratica possibile nei rapporti tra le unità politiche non può essere cancellata, essendo un fatto e non un prodotto speculativo, essa può però essere formalmente “disinventata” non solo attraverso la proclamazione della sua illegalità, ma anche e soprattutto della sua inammissibilità. A questo proposito, Carl Schmitt – un autore non certamente noto per le sue inclinazioni irenologiche – nella sua serrata critica alla Società delle Nazioni fondata nel 1919, pur non condivisibile in toto, rilevava come la nuova Istituzione corresse il rischio di sostituire all’idea – peraltro aberrante – di un’eguaglianza degli stati rispetto alla possibilità di ricorrere allo strumento bellico, con un’altra impostazione, basata – nella  definizione di Schmitt – su un “concetto discriminatorio di guerra”.[xiv] Con l’avvento della Società delle Nazioni si introduce la nozione di guerra legittima, definita in termini di azione di polizia internazionale, esecuzione del diritto internazionale, sanzione o atto di giustizia; conseguentemente, nella acuta analisi di Schmitt, il concetto di guerra non viene abbandonato, ma trasformato in modo funzionale, con il risultato che verrebbero in principio a crearsi due categorie di conflitto, a seconda della loro riconducibilità a meno ad una decisione di un’istituzionale federale solo parzialmente universale (alcuni Stati non divennero mai membri della Società delle Nazioni– come gli stessi Stati Uniti che non ratificarono il Trattato istitutivo – o altri che ne uscirono polemicamente,  come nel caso della Germania, del Giappone e dell’Italia).[xv] L’attualità delle osservazioni di Schmitt si rinviene oggi anzitutto nel concetto di “intervento umanitario” che ripropone, sotto diverse spoglie, la tensione teoretica ed etica tra istanze federali mondiali (quale aspirerebbe a divenire l’Organizzazione delle Nazioni Unite) e l’effettiva universalizzazione – nei termini di reale condivisione planetaria – dei principi che regolano le relazioni internazionali.[xvi]

A questo pro
posito, continuando a riferirsi allo stato attuale delle relazioni internazionali, un sintomo preoccupante della permanenza della guerra nel discorso politico internazionale è che nelle più complesse situazioni critiche, nelle quali il negoziato non sembra produrre i risultati sperati, proprio i Paesi che si propongono sulla scena internazionale come depositari dei principi democratici, di pacifica convivenza tra i popoli e di rispetto dei diritti umani fondamentali, non esitano ad affermare che, pur essendo essi dediti alla ricerca di soluzioni concordate, “tutte le opzioni restano sul tavolo”. La frase, vagamente minacciosa, ripetuta molto spesso in connessione con i negoziati multilaterali informali che riguardano ad esempio questioni di non proliferazione nucleare (come nel caso dell’Iran e della Corea del Nord), sembra suggerire che l’opzione bellica non è stata definitivamente scartata tra le cosiddette ”soluzioni” del contenzioso.

Tale atteggiamento appare anzitutto in contrasto con la stessa Carta delle Nazioni Unite, che impone ai membri di “risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionale, e la giustizia, non siano messe in pericolo” (art.2.3 della Carta delle Nazioni Unite). In ogni caso, al di là delle implicazioni per il diritto internazionale, porre tra i possibili esiti negoziali il ricorso alla forza, più o meno unilaterale o multilaterale, più o meno legittimato da una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza (organo peraltro dominato da una oligarchia con diritto di veto, e istituzione oggi non certo democratica né tanto meno rappresentativa) equivale infatti a minare una delle pre-condizioni essenziali di ogni dialogo realmente costruttivo e serio, e cioè la circostanza che la soluzione diplomatica, una volta intrapresa, è strutturalmente alternativa ad ogni pretesa soluzione conflittuale, e non può contenere in sé i germi di future azioni belliche. La commistione tra approccio discorsivo-dialogico e interazione strategica con l’inclusione della violenza tra gli esiti negoziali appare intrinsecamente contraddittoria e persino controproducente.

In secondo luogo, la perentoria affermazione “tutte le opzioni restano sul tavolo” rende privo di significato concreto uno degli obiettivi fondamentali di ogni negoziato, e cioè che le parti devono necessariamente collaborare non solo alla ricerca di soluzioni condivise, ma mirare a raggiungere “decisioni congiunte” attraverso la vera e propria “invenzione” di nuove, creative alternative. E’ infatti una mera finzione ed un inganno il negoziato che presuppone il conseguimento di un risultato previamente determinato; tutt’al più, in questi casi, si può parlare, con un ossìmoro che viene spesso evocato, di “diplomazia coercitiva”.

3. La pace costituente

Riassumendo: centralità della guerra nella teoria delle relazioni internazionali, da un lato, e persistenza della guerra come categoria operativa delle relazionali internazionali, dall’altro.  Come sosteneva il giurista inglese Henry Maine (1822‒88) verso la metà dell’Ottocento, “la guerra sembra vecchia quanto l’umanità, ma la pace è un’invenzione moderna”.[xvii]

Propongo, a questo punto, un esercizio mentale: cosa accadrebbe se rovesciassimo questa narrazione dominante? Se cioè non lo stato di guerra, ma lo stato di pace venisse assunto come il “modello standard” nella vita internazionale? Si potrebbe allora inferire, in linea con la stessa genesi della disciplina delle relazioni internazionali, che l’attenzione giustamente dedicata alla guerra non scaturisce affatto dal convincimento che la guerra sia la condizione ordinaria nelle relazioni tra gli stati, ma piuttosto dalla percezione che, al contrario,  essa rappresenti una grave anomalia, un vulnus. La guerra, improvvisamente, non sarebbe più un fenomeno fisiologico, persino creativo, foriero di cambiamenti, ma un evento patologico ed involutivo. 

C’è da precisare, intanto, che proprio in considerazione della centralità categoriale della guerra, la teoria delle relazioni internazionali, nei suoi caratteri fondamentali, assume la natura di un complesso percorso riflessivo ed esplicativo sulle cause della stessa. Essa  – come abbiamo visto – si preoccupa in gran parte della guerra come di un evento che produce cambiamenti sistemici innanzitutto per comprenderne i meccanismi ed i presupposti, ma anche per ipotizzare transizioni tra un assetto mondiale ed un altro che non si basino necessariamente su eventi conflittuali “catastrofici” in senso letterale, caratterizzati cioè dall’emergere di punti critici e di cedimenti strutturali del sistema. Si potrebbe sostenere, infatti, che la teoria delle relazioni internazionali punta a individuare le modalità e le condizioni per una morfogenesi non distruttiva dei sistemi internazionali, che non si fondi su una ipotetica “distruzione creativa”.

Secondo i sostenitori della teoria della guerra egemonica, a ben guardare, il sistema internazionale procederebbe “di guerra in guerra”; l’inverso, e cioè un suo incedere “di pace in pace” non sembra avere molto credito nella letteratura specializzata.

Ora, trovo sorprendente come il concetto di guerra egemonica o guerra costituente non abbia trovato un referente simmetrico. L’unico esempio, per quanto improprio e cronologicamente errato, che mi viene in mente è quello del progetto Per la pace perpetua, la breve ma fondamentale opera di Kant del 1795[xviii]. Essa ha tuttavia un carattere etico e speculativo, e, appunto, precede la riflessione contemporanea sulla guerra.

Nella letteratura scientifica delle relazioni internazionali (intese come disciplina accademica) abbondano, come abbiamo visto, i riferimenti alla guerra come momento costitutivo o fondativo; in relazione alla pace, la riflessione si concentra invece sulle diverse tipologie di pace (negativa, positiva), sulla costruzione di tassonomie più o meno dettagliate,  oppure, più pragmaticamente, sui processi di peace enforcing, peace keeping e, da ultimo, di  peace building, cioè di costruzione della pace nelle situazioni post-conflittuali (l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha persino istituito un nuovo organo, la Commissione per la “costruzione della pace” – “United Nations Peacebuilding Commission”). 

Quali potrebbero essere i caratteri distintivi della “pace costituente”? Propongo un procedimento per esclusione e per differenza; proverò, in altri termini, anzitutto a  chiarire ciò che la pace costituente non è e in che modo si contrappone all’idea di guerra costituente. Aggiungo però che è perfettamente plausibile una definizione pragmatica, per così dire, della pace costituente, che non sia ricavata semplicemente in opposizione alla nozione di guerra costituente.

Il concetto di pace costituente dovrebbe essere distinto, in primo luogo, dalle posizioni normative a favore della pace strutturale o, per tornare a scomodare Kant, della “pace perpetua”. Per Kant, infatti, “deve necessariamente esserci una federazione di tipo particolare, che si può chiamare federazione di pace (foedus pacificum) che si differenzierebbe dal trattato di pace (foedus pacis) per il fatto che questo cerca di porre fine semplicemente a una guerra, quella invece a tutte le guerre per sempre.”

La pace costituente non va interpretata nel quadro dell’antica e rispettabilissima riflessione sull’utopia universalista, vale a dire la legittima aspirazione verso una condizione di totale armonia e di eliminazione del conflitto, e quindi sul controllo assoluto delle umane passioni. E’, se vogliamo, un concetto operativo, una situazione di possibilità che non esclude la fallibilità.

Da questo punto di vista, può essere definita come una “pace agonistica”, sia nel senso dell’impegno che essa richiede per essere mantenuta, sia nel senso che rig
etta l’antagonismo senza per questo escludere la realtà del pluralismo, a condizione però che, a livello internazionale, le questioni vengano dibattute, anche in un confronto serrato, sul piano delle idee, e nel reciproco riconoscimento delle identità e delle differenze.[xix]

La pace costituente è anche, certamente, una dimensione storica, poiché implica la capacità di enucleare dal fluire della “storia internazionale” quelle ricorrenze, quelle persistenze, quelle vicende permanenti che si caratterizzano come alternative alle guerre. La pace costituente non è però una filosofia della storia, né la ricerca dei grandi cicli, ma la ricostruzione di uno sfondo, di un vasto scenario che consente lo svolgersi più o meno ordinato o caotico della politica internazionale.

La pace costituente, inoltre, non è riconducibile a uno o più eventi storici, a delle singolarità, nelle relazioni internazionali. Non è un fenomeno discontinuo, puntuale, identificabile con la firma di un trattato. Invano si cercherebbe, nel dipanarsi delle relazioni internazionali, un clamoroso momento di svolta definibile come pace costituente.

La pace costituente è, piuttosto, la faticosa quotidianità delle relazioni internazionali, mentre la guerra costituente è il precipitare nello stato di eccezione.

Inoltre, la pace costituente ha caratteri al contempo più profondi ed informali rispetto agli schemi della sicurezza collettiva o della sicurezza cooperativa. Lo studio sulle “comunità di sicurezza”,[xx] benché la sicurezza venga intesa ormai in senso molto ampio, rimane pur sempre ancorato a schemi protettivi e reattivi, ed in ogni caso non certamente inclusivi rispetto alla realtà interstatale ed internazionale che si colloca oltre i confini della comunità di sicurezza. La comunità di sicurezza comprende il concetto di alleanza che, per quanto interpretabile nel senso di una razionalizzazione del sistema internazionale, rappresenta, in definitiva, una reiterazione della logica amico/nemico.[xxi] Inoltre la comunità di sicurezza prende scarsamente in considerazione la prospettiva della “sicurezza comunitaria”, legata alla nozione e alla pratica della cosiddetta “sicurezza umana”, vale a dire la prospettiva della quotidianità, la tutela degli orizzonti esistenziali delle persone, delle loro aspirazioni, dei loro progetti, della loro sfera affettiva e valoriale.

La pace costituente va anche distinta concettualmente ed empiricamente dalla vexata quaestio dello stato mondiale, su cui peraltro si è riaccesa la ricerca teorica internazionalistica[xxii], sia pure su presupposti assai diversi rispetto alla prospettiva che potremmo definire neo-imperiale o eu-imperiale o anche solo di un federalismo istituzionale mondiale.

Alexander Wendt ha cercato di dimostrare, adottando una prospettiva epistemologica mutuata dalle scienze fisiche, come, nel lungo periodo, la prospettiva di uno “stato mondiale” sia inevitabile; uno stato mondiale inteso come compimento della logica aggregativa che implica “il monopolio globale nell’uso legittimo della violenza organizzata.”[xxiii] L’ottica di Wendt è teleologica, nel senso che punta a identificare lo “stato finale” di un processo in corso, includendo sia elementi intenzionali che non-intenzionali. Partendo da precedenti studi sulla storia delle aggregazioni umane, Wendt rileva come nel 1000 a.C. vi fossero circa seicentomila comunità politiche nel mondo (adottando una definizione molto denotativa e poco connotativa di “comunità politica”), mentre oggi esse sono circa duecento. Trasponendo questa tendenza sul piano dell’evoluzione dei sistemi internazionali, Wendt identifica cinque passaggi verso lo stato mondiale: il “sistema degli stati” di tipo hobbesiano, in cui la regola è la mancanza di regole, l’anarchia; la “società degli stati” nella quale vige il riconoscimento della reciproca indipendenza tra gli stati; la “società mondiale” in cui fa la sua apparizione l’idea di una comunità di sicurezza universale e pluralistica, nella quale vige il principio della risoluzione pacifica delle controversie; la “sicurezza collettiva”, che prevede un criterio addizionale e pro-attivo, vale a dire la clausola della mutua assistenza tra i membri del sistema in caso di minaccia anche ad uno solo di essi; infine, lo “stato mondiale”, con il trasferimento della sovranità ad un livello globale, e nel quale il sistema stesso assume una sua soggettività  autonoma rispetto ai suoi membri. Rimane da verificare – riconosce Wendt – se e quanto questo sistema sia stabile nel tempo, quale ruolo abbia la “secessione” (se cioè sia possibile sottrarvisi, a quale prezzo e a quali condizioni) e in che modo esso sia in grado di riconciliare l’universalismo con il particolarismo. In altre parole, resta irrisolto il problema della legittimazione e dei conflitti potenziali in questa struttura unificante e in che modo si possa impedire che essa degeneri in un dispotismo universale.[xxiv]

La costruzione di Wendt si fonda su una ermeneutica securitaria delle relazioni internazionali. Per evitare questo inconveniente, risultato di un certo riduzionismo, più che riferirsi ad uno “stato mondiale”, si dovrebbe risemantizzare la nozione di “comunità internazionale”, espressione oggi abusata ed inflazionata. Nella maggior parte dei casi, essa rappresenta una attraente metafora, la cui funzione è però quello di sancire la prevalenza di alcuni attori-guida nel sistema internazionale, finendo per assumere un significato agli antipodi da quello apparentemente evocato. Ben più coerentemente, le teorie basate su una accezione fondativa di comunità internazionale riconoscono la mutua implicazione delle categorie dell’universale e del particolare in un contesto di interazione sociale più ampio. Esse si basano su tre assiomi interrelati: co-costituzione e com-penetrazione tra le forme di comunità “particolari” e quella “universale”; sostanziale isomorfismo tra la comunità universale e le comunità particolari; incorporazione strutturale di tutte le relazioni sociali (tra esseri umani e tra comunità umane particolari) nella comunità universale dell’intero genere umano.[xxv]

Sul piano pratico, una concettualizzazione strutturale della pace costituente dipende, tra gli altri fattori, da una reinterpretazione del multilateralismo che approfondisca e sviluppi alcune interessanti piste interpretative contenute nell’istituzionalismo neo-liberale (in particolare nella riflessione di Robert Kehoane[xxvi]) in combinazione con le intuizioni del costruttivismo, di cui proprio Alexander Wendt[xxvii] è uno degli esponenti più rappresentativi. Vincent Pouliot, in particolare, ha indentificato nella pratica del multilateralismo nelle relazioni internazionali una struttura costitutiva. Lungi dall’essere solamente una pratica strumentale mirante ad ottenere obiettivi (dotata, quindi, di una legittimazione fondata sull’output, sui concreti risultati conseguiti, intesa come alternativa ad una legittimazione via input, cioè sui criteri elettivi/selettivi), il multilateralismo può essere alternativamente concettualizzato come un fine in sé.[xxviii]

Non si tratta tanto della concezione delle istituzioni internazionali come luogo di un « negoziato permanente », quanto del fatto che il multilateralismo è una pratica della governance globale caratterizzata da una forma di dialogo politico inclusivo, istituzionalizzato, fondato su principi di interazione condivisi.[xxix]

Il carattere aperto, routinizzato e non discriminatorio del multilateralismo tende a generare un certo grado di indivisibilità ed una  ‘‘reciprocità diffusa” intesa come equivalenza nella distribuzione dei benefici della cooperazione nel tempo ed in termini aggregati. La governance, infatti, non riguarda solamente l’efficacia (cioè il consegui
mento di risultati) ma anche e forse soprattutto il come detti risultati sono conseguiti. Il consiglio di Pouliot agli studiosi e agli analisti delle relazioni internazionali è di completare ed integrare le ricerche sul multilateralismo con una riflessione a partire dal multilateralismo.

Un multilateralismo prospettico e non solo funzionale potrebbe rappresentare una pratica caratterizzante di quella “amicizia politica tra i popoli” recentemente sviluppata sul piano teoretico in un saggio di Catherine Lu[xxx]. Sebbene sia inevitabile che conflitti sorgano tra gli Stati, specie in termini di distribuzione di beni ed oneri, nella condizione dell’amicizia politica tra i popoli – secondo la Lu – essi possono essere risolti all’interno di un contesto globale di norme ed istituzioni basate sul riconoscimento reciproco e sulla condivisione dei poteri decisionali all’interno delle istituzioni della governance globale piuttosto che sulla base della supremazia di singoli stati o gruppi di stati.[xxxi] E’ proprio in questa dimensione pratica e direi quotidiana del multilateralismo (come “conferenza di pace” permanente) che è possibile declinare in un contesto unitario il crescente pluralismo internazionale e stabilire, ben oltre la “fraternità tra le nazioni” immaginata da Nobel nel 1895, i presupposti pragmatici di nuove forme di cooperazione politica strutturata tra i popoli. Si tratta di una modalità di interazione organizzata e volontaria ad alta intensità e frequenza tra attori statali e non statali, istituzioni ed organizzazioni internazionali, istanze sociali e pratiche partecipative transnazionali che rappresenta oggi, sia nei termini – talvolta contrapposti – della dimensione cosmopolitica che in quelli della comunità globale, un programma sicuramente ambizioso, ma non necessariamente utopico o irrealistico, come dimostrano gli studi sul “multilateralismo 2.0”[xxxii].   Le profonde trasformazioni in atto sulla scena mondiale autorizzano da un lato a pensare già in termini di post-globalità, dall’altro a una rappresentazione delle relazioni internazionali in termini di politica infra-mondiale, nel senso intuito già da Kant, e cioè che “con la comunanza  (più o meno stretta) tra i popoli della terra, che alla fine ha dappertutto prevalso, si è arrivati a tal punto che la violazione di un diritto commessa in una parte del mondo viene sentita in tutte le altre parti”[xxxiii]. Consolidare la pace costituente, anche sul piano delle categorie analitiche, è un passaggio non ancora sufficiente, ma certamente necessario in tale percorso di condivisione e compartecipazione.

*

NOTE

[i] Cf. ad esempio, Gideon Rachman, Brussels can share credit with other candidates, “Financial Times”, 13.10.2012

[ii] La motivazione è  consultabile all’indirizzo web http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/peace/laureates/2012/press.html “The Norwegian Nobel Committee has decided that the Nobel Peace Prize for 2012 is to be awarded to the European Union (EU). The Union and its forerunners have for over six decades contributed to the advancement of peace and reconciliation, democracy and human rights in Europe.  In the inter-war years, the Norwegian Nobel Committee made several awards to persons who were seeking reconciliation between Germany and France. Since 1945, that reconciliation has become a reality. The dreadful suffering in World War II demonstrated the need for a new Europe. Over a seventy-year period, Germany and France had fought three wars. Today war between Germany and France is unthinkable. This shows how, through well-aimed efforts and by building up mutual confidence, historical enemies can become close partners.  In the 1980s, Greece, Spain and Portugal joined the EU. The introduction of democracy was a condition for their membership. The fall of the Berlin Wall made EU membership possible for several Central and Eastern European countries, thereby opening a new era in European history. The division between East and West has to a large extent been brought to an end; democracy has been strengthened; many ethnically-based national conflicts have been settled.  The admission of Croatia as a member next year, the opening of membership negotiations with Montenegro, and the granting of candidate status to Serbia all strengthen the process of reconciliation in the Balkans. In the past decade, the possibility of EU membership for Turkey has also advanced democracy and human rights in that country.  The EU is currently undergoing grave economic difficulties and considerable social unrest. The Norwegian Nobel Committee wishes to focus on what it sees as the EU’s most important result: the successful struggle for peace and reconciliation and for democracy and human rights. The stabilizing part played by the EU has helped to transform most of Europe from a continent of war to a continent of peace.  The work of the EU represents “fraternity between nations”, and amounts to a form of the “peace congresses” to which Alfred Nobel refers as criteria for the Peace Prize in his 1895 will. Oslo, 12 October 2012”.

[iii] In essa si ricorda come il ritorno alla democrazia di Grecia, Spagna e Portogallo abbia rappresentato, negli anni ’80, la pre-condizione per la loro ammissione nell’Unione Europea. Il crollo del Muro di Berlino permise successivamente la riunificazione del continente, che trovò proprio nell’Unione Europea una piattaforma politica ed economica appropriata e funzionale.

[iv] Tucidide, La Guerra del Peloponneso, I, 124.

[v] Ibidem, II, 8

[vi] Cf. Hans J. Morgenthau, Politica tra le nazioni. La lotta per il potere e la pace, Il Mulino, Bologna 1997

[vii] Kenneth Waltz, Teoria della politica internazionale, Il Mulino, Bologna 1987

[viii] Robert Gilpin, La teoria della guerra egemonica,  in M. Cesa (a cura di), Le relazioni internazionali, Il Mulino, 2004,  pp. 247-270.

[ix] Seguiamo la “narrazione” di Gilpin. In epoca moderna, la guerra dei Trent’anni (1618-48), con il fallimento del progetto degli Asburgo di dar vita ad un impero universale moderno e la firma della Pace di Westphalia (1648) avrebbe fatto da incubatrice, secondo la prospettiva della guerra egemonica, del moderno sistema internazionale fondato sugli stati nazione e, in Europa, sul concerto delle potenze. Le guerre napoleoniche (1792-1815) riconfigurarono la struttura del potere in Europa, sotto l’influsso di potenti fattori economici, sociali, ideologici. Ne seguì un processo di competizione aggressiva, che con la Prima Guerra Mondiale – non a caso definita la “grande guerra” e illusoriamente, come “la guerra per porre fine a tutte le guerre” – cambiò di scala, di intensità e di estensione geografica, portando le ostilità ad un livello inimmaginabile rispetto ai pur sanguinosi conflitti, essenzialmente bilaterali o tra alleanze tra un numero limitato di stati, che avevano avuto luogo nei due secoli precedenti.  Alla teoria della guerra egemonica si contrappone – osserva Gilpin – quella che configura i conflitti come il risultato di un’escalation: secondo il già citato Kenneth Waltz  (L’uomo, lo stato e la guerra. Un’analisi teorica, Giuffré, Milano 1998) le guerre avvengono perché, in un sistema internazionale sostanzialmente anarchico, non c’è nessuno che possa impedirle. In questo senso, l’anarchia strutturale del sistema internazionale rappresenterebbe la “causa permissiva” della guerra.

[x] Luigi Bonanate, Prima Lezione di Relazioni Internazionali, Laterza, Roma-Bari 2010, p.135

[xi] ibidem, p.136

[xii] ibidem, p.137

[xiii] Secondo Raymond Aron, la “pace egem
onica” o “pace dell’egemonia” designa una situazione in cui “l’assenza di guerre non dipende dall’approssimativa parità di forze che regna tra le unità politiche e impedisce che una di esse o una coalizione impongano la propria volontà, ma dipende al contrario dalla superiorità incontestabile di una di essa”.(Raymond Aron, Pace e Guerra tra le nazioni, Comunità, Milano 1970, p. 189)

 [xiv] “Il concetto di guerra sinora in vigore – afferma Schmitt –  grazie al suo carattere non discriminatorio ed alla sua valutazione paritaria di entrambi i contendenti, rende possibile che il confitto armato possa essere considerato un concetto unitario del diritto internazionale” (Carl Schmitt, Il concetto discriminatorio di guerra, Laterza. Roma-Bari 2008, p. 66) In altri termini, per Schmitt, la guerra costituirebbe una modalità di azione in ambito internazionale standardizzata, accettata e regolata dal diritto internazionale, e le sue norme di applicherebbero invariabilmente a tutti gli stati e a tutte le guerre, indipendentemente sia dalle asimmetrie di potere degli attori che dalla qualificazione delle stesse guerre come giuste o ingiuste.  E’ l’idea di “guerra simmetrica”.

[xv] Si tratta di un’aporia che era già presente nel famoso Patto Briand-Kellog del 1928 (testo consultabile in italiano al sito http://www.studiperlapace.it/view_news_html?news_id=briandkellog), che si proponeva, attraverso un Trattato internazionale, di escludere la guerra tra i mezzi di risoluzione delle controversie tra i Paesi firmatari e che tuttavia non escludeva in modo esplicito né che la guerra potesse essere mossa contro Stati non contraenti del patto né che ad essa potesse farsi ricorso per ragioni di legittima difesa (che in mancanza di una precisa definizione del concetto lasciava spazio ad ogni sua possibile interpretazione.

[xvi] Queste aporie hanno la loro radice, a mio avviso, nell’ambigua rappresentazione dei rapporti internazionali, almeno a partire dall’affermarsi dello stato moderno, prevalentemente in termini di una concezione della sovranità come supremazia interna e resistenza all’interferenza esterna. Le relazioni internazionali assumono come un dato di natura quella che è invece una creazione umana, una vera e propria sovrastruttura politica, un artificio organizzativo, vale a dire proprio lo stato sovrano, che io definirei, oggi come un “cratautoma”. Intendo con questa definizione una struttura del potere governativo che tende ad autoriprodursi automaticamente e persino autonomamente rispetto alle società, sia nella sua versione propriamente sovranista che in quella non meno rigida di tecnocrazia. Non bisogna dimenticare che, tutto sommato, lo stato moderno è una struttura di recente invenzione, non più antica di 4 secoli, mentre la storia delle comunità umane è millenaria e il loro principio organizzativo ha variato notevolmente.

Detto in termini più operativi, uno dei temi portanti su cui si gioca la credibilità della comunità internazionale è il rapporto tra due principi che sembrano entrare talvolta in conflitto. Da una parte, la sovranità degli stati, con il correlato principio di non ingerenza; dall’altro, i diritti umani fondamentali, che hanno assunto un valore transnazionale, non tenendo conto dei confini degli stati.  In qualche modo, sembra determinarsi una contraddizione tra due documenti “fondanti” per l’ordine mondiale: vale a dire, la Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. C’è da precisare che si tratta spesso di una contraddizione solo apparente, invocata da regimi e governi che hanno tutto l’interesse a presentare come intangibile la sovranità statale. L’assolutezza e l’esclusività della sovranità statale è messa in discussione, ad esempio, da un nuovo principio che si è venuto affermato in campo internazionale, e cioè la «responsabilità di proteggere». E’ un principio molto semplice ma anche molto incisivo  esso implica che la sovranità statale ha una ragion d’essere nel dovere delle autorità di governo di proteggere i loro cittadini e più in generale di lavorare per il bene comune. Quando, invece della protezione, è lo stesso governo a costituire una minaccia per il popolo di uno Stato, allora l’esclusività della sovranità viene meno, ed è la comunità internazionale che deve svolgere una funzione supplente di protezione, di difesa, di salvaguardia. In altri termini, la sovranità ha una natura funzionale, e se non assolve più ai compiti per i quali è costituita essa perde ogni credenziale politica, soprattutto in campo internazionale. Da questo punto di vista, potremmo dire, con Schmitt, che oggi “la politica mondiale è una politica molto intensiva, risultante da una volontà di pan-interventismo” (Carl Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1988, p.25). La domanda è se questa tutela debba implicare anche interventi armati, senza cadere nella trappola del “concetto discriminatorio di guerra” evocata da Schmitt. 

[xvii] Henry Maine, International Law, London 1888, p. 8; cit. in Michael Howard, L’invenzione della pace. Guerra e relazioni internazionali, Il Mulino, Bologna 2001

[xviii] Immanuel Kant, Per la Pace Perpetua, Feltrinelli, Milano 1991 [1795]

[xix] Cf. Rosemary E. Shinko, Agonistic Peace: A Postmodern Reading “Millennium – Journal of International Studies”, 2008, 36: 473.

[xx] Cf. Emanuel Adler e Michael Barnett (editors), Security Communities, Cambridge University Press, Cambridge 1998

[xxi] In una certa misura, l’alleanza, specie nella sua configurazione di intesa per garantire la difesa comune, costituisce una forma di “fraternità negativa”, giustificata, cioè, dalla necessità di fronteggiare comuni minacce.

[xxii] Cf. in particolare il numero di “Cooperation and Conflict” del giugno 2012, dedicato al tema  “World State Futures”; in ambito storiografico, cf. Mark Mazower,  Governing the World: The History of an Idea, Penguin Press, New York 2012

[xxiii] Cf. Alexander Wendt, Why a World State is Inevitable, “European Journal of International Relations” 2003 Vol. 9(4): 491–542.

[xxiv] Cf. Heikki Patomäki, The problems of legitimation and potential conflicts in a world political community, “Cooperation and Conflict” 2012 47(2) 239–259); Mathias Albert, Gorm Harste, Heikki Patomäki and Knud Erik Jørgensen, Introduction: World state futures,  “Cooperation and Conflict 2012 47: 145.

[xxv] Jens Bartelson, Visions of world community, Cambridge University Press, Cambridge 2009

[xxvi] Robert Kehoane, After Hegemony: Cooperation and Discord in the World Political Economy, Princeton University Press, Princeton 2005

[xxvii] Alexander Wendt, Teoria sociale della politica internazionale, Vita e Pensiero, Milano 2007

[xxviii] Vincent Pouliot, Multilateralism as an End in Itself,  “International Studies Perspectives” (2011) 12, 18–26).

[xxix] Il multilateralismo delle organizzazioni internazionali a carattere universale si oppone ad altre forme di azione e di cooperazione meno inclusive quali : 1) l’unilateralismo, il bilateralismo e il mini-lateralismo ( che esclude una serie di attori internazionali in nome di una pretesa efficienza) ; 2) le “coalizioni dei volenterosi” (coalitions of the willing) cioè alleanze occasionali e poco strutturate; 3) organizzazioni modellate sul modello del “concerto delle potenze”, che si basano su regole discriminatorie, quali l’auto-inclusione e la cooptazione (Pouliot, art.cit.)

[xxx] Cf. Catherine Lu, Political Friendship among Peoples, “Journal of International Political Theory”, Volume 5, Page 41-58

[
xxxi]
Ibidem, pp. 54–55.

[xxxii] Cf. Luk Van Langenhove, Multilateralism 2.0: the transformation of international relations, United Nations University, 31.05.2011, consultabile al sito web http://unu.edu/publications/articles/multilateralism-2-0-the-transformation-of-international-relations.html#info

[xxxiii] Immanuel Kant, op.cit., p.68

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ZENIT Staff

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