La Corte europea dei diritti dell'uomo enuncia il "diritto all'eugenismo"

Il Centro Europeo per la Legge e la Giustizia analizza e critica la sentenza sul divieto della diagnosi genetica pre-impianto

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di Grégor Puppinck,
direttore del Centro Europeo per la Legge e la Giustizia (ECLJ)

STRASBURGO, mercoledì, 29 agosto 2012 (ZENIT.org) .- La seconda Sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha reso pubblico ieri la sua prima sentenza relativa all’accesso alla diagnosi genetica pre-impianto (DGP), vale a dire la tecnica di screening e selezione di embrioni fecondati in vitro in vista della procreazione di un figlio senza le caratteristiche genetiche considerate. Da questa sentenza risulta che l’accesso alla DGP può effettivamente essere considerato un diritto in Europa, un diritto garantito indirettamente dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Questa sentenza non è definitiva ed è suscettibile di rinvio alla Grande Camera per il riesame.

Il Centro Europeo per la Legge e la Giustizia (ECLJ) interviene presso la Corte in questo caso come amicus curiae ed è stato autorizzato a presentare delle osservazioni scritte.

Il caso di Rosetta Costa e Walter Pavan contro la legislazione italiana (n. 54270/10 depositato il 20 settembre 2010) riguarda una coppia di italiani portatori sani di fibrosi cistica. In precedenza avevano già abortito per evitare la nascita di un bambino malato. Desiderando un figlio non affetto da fibrosi cistica, la coppia ha sostenuto davanti alla Corte che il divieto della diagnosi genetica pre-impianto (DGP) dalla legge n. 40/2004 lede la loro vita privata e familiare. La DGP consente loro di selezionare un embrione sano prima del trasferimento in utero, piuttosto che procedere ad una selezione, a posteriori, con l’aborto. La legge n° 40/2004, che disciplina la procreazione assistita (PMA), è stata adottata in Italia dopo un lungo e difficile dibattito nazionale. Dopo il voto in Parlamento, i suoi critici hanno cercato varie volte di ottenere la sua abrogazione con un referendum. Il referendum non ha dato esito favorevole, così si sono rivolti alla Corte europea per ottenere la censura della legge 40/2004, senza nemmeno ricorrere alle giurisdizioni nazionali.

La seconda Sezione ha accettato di esprimere un giudizio sul diritto interno italiano e ha dato ragione ai ricorrenti, affermando, in sostanza, che il legislatore non è stato coerente nel vietare la DGP mentre tollerava l’aborto terapeutico. Ai sensi di tale sentenza, l’Italia dovrebbe legalizzare la diagnosi genetica pre-impianto, a meno che il caso venga rinviato alla Grande Camera.

Questa sentenza può essere criticata sotto vari aspetti:

In primo luogo, la Sezione ha dichiarato ricevibile la richiesta anche se i ricorrenti non hanno fatto alcun ricorso in Italia e non si sono rivolti ad alcuna giurisdizione interna, il che fa assomigliare il loro ricorso ad una actio popularis. Un tale ricorso interno, non era destinato a fallire in anticipo, come evidenziano le varie decisioni giudiziarie recenti che hanno imposto l’accesso alla diagnosi genetica pre-impianto per altre coppie. Tale ricorso interno avrebbe inoltre potuto portare ad una decisione della Corte costituzionale sulla legge 40. In tal modo, il carattere sussidiario della Corte europea sarebbe stato rispettato. La Sezione, tuttavia, di solito molto severa per quanto riguarda le condizioni di ammissibilità, non ha ritenuto necessario di aspettare che i giudici nazionali avessero avuto la possibilità di esprimersi, per imporre il proprio giudizio.

Paragonato ad altri casi dichiarati irricevibili, in particolare il caso svizzero sul divieto costituzionale dei minareti, i criteri della Corte diventano imprevedibili, a meno che non si stia orientando verso una pratica di pick and chose all’americana, in cui la Corte decide di trattare solo i casi che le interessano. Ad ogni modo, dichiarando questo ricorso ricevibile, la Corte apre la possibilità di contestare direttamente davanti ad essa, senza nemmeno aver dimostrato la sua qualità di vittima o senza adire alla minima giurisdizione.

Per far entrare questo caso nell’ambito dell’applicazione della Convenzione, la Corte afferma che “il desiderio” di avere un figlio non malato “costituisce una forma di espressione della loro vita privata e familiare” e “rientra nell’ambito della protezione dell’articolo 8” (§ 57). Di conseguenza, l’impossibilità legale di realizzare questo desiderio con tecniche PMA e DGP darebbe ai ricorrenti la qualità di “vittime” e costituirebbe una interferenza del governo nel diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata e familiare (§ 58).

Anche se la Sezione lo nega (§ 53), bisogna constatare l’enunciazione di un nuovo diritto: un diritto all’eugenetica. Non si può pretendere che questo diritto riguarda solo l’accesso ai mezzi di selezione, dal momento che ha una finalità superiore: la procreazione di un bambino non affetto. Quindi, non è effettivamente invocabile contro ogni malattia di cui è afflitto un bambino, ma lo sarebbe nei confronti del personale medico la cui mancanza colpevole avrebbe permesso la nascita di un bambino, ad esempio trisomico.

Avendo enunciato un “diritto di mettere al mondo un bambino che non è affetto dalla malattia” (§ 65), si tratta per la Sezione di giudicare se il divieto della DGP lede tale diritto.

Nel merito, la sentenza non sostiene – e non ci sarebbe capace – che il divieto della DGP è di per sé contraria alla Convenzione. Scarta del resto sin dall’inizio la questione posta dai ricorrenti, a sapere se “il divieto fatto nei loro confronti di accedere alla DGP è compatibile con l’articolo 8 della Convenzione” (§ 60). La sentenza riformula la richiesta portandola sulla proporzionalità del divieto della DGP alla luce dell’autorizzazione dell’aborto terapeutico” (§ 60). Così, in questa sentenza, la Sezione cambia il referente: non giudica più il caso in relazione alle esigenze della Convenzione, ma in relazione alla “coerenza” che dovrebbero esserci tra le disposizioni del diritto italiano per essere giustificabili davanti alla Corte Europea.

In questo modo il ragionamento della Corte europea supera le sue competenze, e va a valutare la coerenza tra le diverse disposizioni del diritto italiano che prese separatamente non sono di per sé in contrasto con la Convenzione.

Secondo il ragionamento della sentenza, l’Italia non avrebbe potuto essere condannata se avesse vietato l’aborto detto terapeutico. È solo perché l’Italia permette questo aborto che la sentenza trova una base per imporre, la legalizzazione della DGP.

Qualunque cosa si possa pensare della coerenza interna della legislazione italiana, visto che il divieto della diagnosi genetica pre-impianto non è di per sé contrario alla Convenzione, non è chiaro come questa “incoerenza” autorizzerebbe la Sezione di sostituirsi al legislatore nazionale e alle giurisdizioni nazionali, imponendo loro il proprio arbitrio etico, e ad enunciare un vero e proprio “diritto all’eugenismo”.

Per questi motivi, il ECLJ ritiene necessario che questo caso venga rinviato alla Grande Camera, visto che la sentenza porta ad una nuova questione e solleva seri problemi legali.

* il testo integrale della sentenza (in lingua francese) è disponibile sul sito della Corte europea dei diritti dell’uomo: http://hudoc.echr.coe.int/

[Traduzione dal francese di Paul De Maeyer]

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ZENIT Staff

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