Il vescovo, l’uomo della misericordia

Una riflessione sulla figura del vescovo, dal punto di vista ecclesiologico e canonistico

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La nomina di don Mimmo Battaglia, del clero di Catanzaro- Squillace, a vescovo di Cerreto Sannita- Telese- Sant-Agata de’ Goti (sarà ordinato il 3 settembre per l’imposizione delle mani e la preghiera dell’arcivescovo metropolita Vincenzo Bertolone) è occasione per riflettere sulla figura del vescovo, da un punto di vista ecclesiologico e canonistico. Nel vescovo, e nel simbolismo che egli richiama, c’è infatti condensato il “ritratto” della comunità, com’è e come essa dovrebbe essere.
Ci sono tre “tappe” nella genesi di un vescovo che meritano attenzione per la loro particolarità: l’elezione (più correttamente, l’istituzione canonica) che conferisce l’ufficio e salda il vincolo tra l’eletto e il Papa; l’ordinazione che infonde  la grazie sacramentale per l’imposizione delle mani del vescovo consacrante; la presa canonica della nuova diocesi che è l’atto giuridico grazie al quale il vescovo inizia a governare legittimamente la Chiesa particolare che gli è stata affidata. Elezione, ordinazione e presa canonica rappresentano quindi i tre momenti- chiave dell’inizio di ogni ministero episcopale.
In greco il termine vescovo si traduce con “episcopos”, cioè come “colui che guarda dall’alto”. Il vescovo è, insomma, la sentinella di una comunità cristiana. Non si può comprendere il vescovo, e così il significato del suo ministero, se non lo si inquadra all’interno del Collegio episcopale, il cui “capo” è il Romano Pontefice. Nella Chiesa, mistero di Dio tra le tende degli uomini, c’è insomma una tensione continua tra “particolarità” e “universalità”, laddove ogni vescovo –diocesano, coadiutore, titolare o emerito- rappresenta teologicamente il Cristo Capo ed è Pastore della Chiesa. La “collegialità”, o meglio -per usare le parole del Concilio Vaticano II- l’“unione collegiale”, sta ad indicare quindi che tutti i vescovi, con in testa il Vescovo di Roma, ed in comunione con Lui,  rappresentano la Chiesa in un forte legame di unità dottrinale.
Tant’è che il Collegio episcopale è diretta espressione del Collegio apostolico, dei Dodici: “Come san Pietro e gli altri Apostoli costituirono, per istituzione del Signore, un unico collegio apostolico –si legge nella costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, n. 22-, similmente il romano Pontefice, successore di Pietro, e i vescovi, successori degli Apostoli, sono tra loro uniti”.
E’ di notevole interesse la definizione di Chiesa particolare che offre Papa Francesco nella esortazione apostolica Evangelii Gaudium: “E’ la Chiesa incarnata in uno spazio determinato, provvista di tutti i mezzi di salvezza donati da Cristo, però con un volto locale” (n. 30). E continua Bergoglio con il dire che “il vescovo deve sempre favorire la comunione missionaria nella sua Chiesa diocesana perseguendo l’ideale delle prime comunità cristiane, nelle quali i credenti avevano un cuor solo ed un’anima sola” (n. 30).
Ed allora chi è il vescovo? E’, certamente, in ogni comunità ed in tutta la Chiesa, il primo missionario, il primo annunciatore del Vangelo, l’uomo della carità e della misericordia, il primo testimone della salvezza che irradia la Parola del Cristo vivente.
E’ “primo”, come abbiamo detto, non per una sorta di privilegio umano, bensì perché al vescovo sono affidate per diritto divino le funzioni di santificare, insegnare e governare il popolo di Dio: santificare significa vivere santamente, condurre gli altri alla santità, celebrare la Messa per il popolo, i pontificali e i sacramentali ed amministrare i sacramenti; insegnare, vuol dire spiegare le verità della fede, difenderne l’integrità e l’unità e vigilare sull’istruzione teologica e religiosa nei seminari, nelle scuole religiose e nelle istituzioni accademiche; governare, si riferisce al dovere di esercitare la carità pastorale, di favorire, coordinare e sollecitare le diverse forme di apostolato per i presbiteri ed i fedeli laici, di risiedere personalmente nella diocesi e di visitarne l’intero territorio almeno una volta ogni cinque anni (nella cosiddetta “visita pastorale”).
Una missione, quella del vescovo, visibile a tutti attraverso le insegne che egli indossa: la mitra, il copricapo, è la corona di gloria che merita il Pastore santo nella Patria celeste, ma anche il segno della conoscenza e della sapienza della Parola; l’anello, simbolo della sponsalità che lega il vescovo alla sua Chiesa; il pastorale, un lungo bastone, ricorda che il vescovo è la guida della comunità e rimanda al noto paradigma biblico pastore- gregge; la croce, testimonianza della fede nel Cristo morto e Risorto.
Papa Benedetto XVI, prima, e Papa Francesco, adesso, hanno richiamato e richiamano più volte di rifuggire dalla tentazione del “carrierismo”, nella Chiesa e nella sua comunione gerarchica. Da stigmatizzare è, per esempio, l’atteggiamento di certi seminaristi e giovani sacerdoti che, a detta loro, “studiano per diventare vescovi”. Non si studia per diventare vescovi. Non si ricerca il minestero episcopale, come ha ricordato anche il cardinale Martini nel suo libro (Il vescovo, Rosenberg & Sellier, 2012). La gerarchia, d’altronde, nello spirito della nuova ecclesiologia del Vaticano II, è servizio. E niente più.

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Luigi Mariano Guzzo

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