di Paolo Pegoraro*
ROMA, martedì, 23 novembre 2010 (ZENIT.org).- Che cosa significa “attendere”? Aspettiamo qualcosa o qualcuno? Conosciamo l’identità di ciò che attendiamo? E quali sono gli atteggiamenti esteriori e interiori di colui che attende? L’antologia Nell’ombra accesa (Ancora 2010, pp. 125, € 13) offre un percorso attraverso cinquanta poesie per tematizzare questi interrogativi. Magari gustandosi una manciata di versi ogni giorno, rileggendoli più e più volte, lasciandoli depositare dentro di sé. Un invito a innervare le prossime settimane con il presentimento e la tensione caratteristici della grande Festa della Venuta. Breviario poetico di Natale è infatti il sottotitolo di questa raccolta, curata dal gesuita Antonio Spadaro e concepita come un percorso di gestazione.
Niente meglio dei nove mesi della gestazione – con il loro carico di speranze, timori e trepidazioni – dona forma concreta all’esperienza dell’attesa, entro la quale viene plasmata, curata e protetta ogni esistenza. Tuttavia le esperienze proprie della maturità – quelle dell’incompletezza e del nostro «misterioso zoppicare», secondo l’espressione di Henri De Lubac – ci rimandano sull’altro versante dell’attesa. Siamo stati aspettati, in passato. E ora sta a noi attendere. «Da una parte infatti – scrive Spadaro nella prefazione – sperimentiamo in mille modi i nostri limiti; dall’altra parte ci accorgiamo di essere senza confini nelle nostre aspirazioni. La sete d’infinito che l’uomo reca nel suo cuore, la tensione verso l’assoluto che lo anima, il suo cor inquietum o il suo desiderium visionis, non possono venir saziati all’interno del mondo, da cose contingenti. Allora la condizione umana è radicalmente di attesa».
L’inizio e il fine corrono sullo stesso binario. L’uomo vive la propria dimensione escatologica come una gravidanza di cui prendersi cura, come una nuova vita che va misteriosamente formandosi nel grembo della propria storia personale anno dopo anno, fino alla sua improvvisa rivelazione. Apparirà veramente una vita nuova? E quando? E come sarà? Neppure il credente può vantare certezze granitiche. Anche la fede può rotolare nel canale della routine come un esperimento meccanico di stimolo-risposta. Proprio la mancata risposta può allora risvegliare la coscienza, come rottura di un ingranaggio. È quello che scopre il sacerdote anglicano R. S. Thomas nella poesia La chiesa vuota:
Avevano sistemato questa trappola di pietra
per lui, adescandolo con candele,
come se dovesse arrivare a guisa di enorme falena
uscendo dal buio per sbattere là.
Ah, egli aveva bruciato se stesso
prima nella fiamma umana
ed era sfuggito, lasciando la ragione
lacerata. Non verrà mai più
alla nostra esca. Perché, allora, io rimango in ginocchio
sfregando le mie preghiere su un cuore
di pietra? È nella speranza che una
di loro prenda ancora fuoco e getti
sui suoi muri illuminati l’ombra
di qualcuno più grande di quanto io possa capire?
Il sentimento dell’attesa può essere quello sgomento salvifico capace d’incrinare un’esistenza ormai ripiegata su se stessa. «Attesa» non è sinonimo di «bisogno» (spinta narcisistica verso ciò che manca alla propria autosufficienza) ed è qualcosa di più del «desiderio» (sguardo fissato fuori di sé, verso le stelle: de-sidera). L’attesa indica la predisposizione verso qualcuno o qualcosa che si prevede debba manifestarsi con una risposta o un’apparizione personale. Qualcuno o qualcosa di libero, dunque, che non cade nelle trappole delle aspettative, neppure religiose, ma compare con la sovrana libertà di quanto non è riconducibile al nostro io né è a misura dei propri desideri. Proprio come nessuna madre può decidere di una sola cellula del figlio che si va formando nel suo corpo, per quando da lei intensamente voluto e amato. L’attesa non è un gioco al compromesso: l’unica ascesi che richiede è quella della più umile e concreta accoglienza. Scrive a questo proposito la statunitense Mary Oliver:
Non devi fare il bravo.
Non devi camminare sulle ginocchia
per cento miglia nel deserto, pentendoti.
Devi solo lasciare che il tenero animale del tuo corpo
ami ciò che ama.
Parlami dello sconforto, il tuo, e io ti parlerò del mio.
Intanto il mondo va avanti.
Intanto il sole e i ciottoli lindi per la pioggia
si spostano attraverso i paesaggi,
sulle praterie e tra i profondi alberi,
tra le montagne e i fiumi.
Intanto le oche selvatiche, alte nella limpida aria azzurra,
si stanno di nuovo volgendo verso casa.
Chiunque tu sia, non importa quanto solo,
il mondo si offre alla tua immaginazione,
ti chiama, come le oche selvatiche, austere ed eccitanti
ancora e ancora proclamando il tuo posto
nella famiglia delle cose.
Padre Spadaro commenta: «Non c’è condizione umana che non possa, inclinandosi adeguatamente, condurre a Dio». L’affidamento all’Atteso – piuttosto che alla propria presunt(uos)a santità – l’affidamento alla sorpresa e allo spiazzamento, a un giudizio sulla propria vita esterno al proprio io, è la maturazione ultima dell’attesa. Significa ricavare un minimo spazio nella stanza ingombrata delle proprie preoccupazioni: magari anche solo uno sgabello o una fessura della porta, o delle persiane. Sgombrare il proprio io per far spazio all’Atteso. E al suo apparire potrà scoccare la meraviglia dell’origine. Il frastuono quotidiano si smorza in un balbettare confuso e infantile, come quello di Giovanni Testori, sgomento al punto di non osare pronunciare ciò che vede: « Crisscorè. Jesusgè. Jesursì. / Gesicrè. Gesustòs. / Stoscrisgè. Gescrirè. Grisgesè. / Gesucriì! Cristocrì! Gesugè! / Gesucrè! Gesustòs! Gristosgè. / Grisgiusè. Gestu Cri. / Tu il cri…». «Il miracolo è fatto di questo – continua Spadaro – vedere uno spazio ampio in ciò che sembra ristretto da un orizzonte spaziale e temporale. La fede è la luce che illumina da dentro le cose e le fa essere uniche». E cosa c’è di più piccolo – sia nel tempo che nello spazio – di un neonato? E allora perché continuiamo a incantarci alla nascita di un bimbo? Forse perché «alla nascita d’un bambino / il mondo non è mai pronto», come annota la Nobel polacca Wislawa Szymborska. Dev’essere per questo che, anche quest’anno, torniamo a celebrare il Natale. Non siamo ancora pronti. Eppure attendiamo. Il Bambino viene. E s’infila nelle case anche non atteso, anche senza bussare. Mancanza di buona educazione? I neonati non ne hanno ancora, per fortuna…
Pare ci sia in giro Dio, stamane
entra senza chiedere permesso
né bussare in ciò che resta
del mio monolocale, e chi
se lo aspettava, mi dico,
proprio adesso…
È una luce troppo chiara e amara
irreale limpida e sfuggita
tra nubi come macchie
sul cielo che è uno straccio
allo stremo teso sulle case
È a suo agio, comincia a camminare
a luminosi passi silenziosi
sopra il pavimento a scivolare
tra scarpe, libri, fogli, fotocopie, un mucchio
sparso di CD per terra e poi si siede
sulla sedia e mi vergogno
degli abiti che fanno una catasta colorata
cresciuta a dismisura in questi giorni
Troppo in fretta, caro Dio, è arrivato
il fine settimana, perché non hai avvertito
non mi hai dato tempo per tornare
alla civiltà (se esiste), e liberare
il lavabo dei piatti da lavare
rintracciarti una tazzina e strofinare
per offrirti un bel caffè tra i fiori
freschi e non questi cadaveri
di plastica col capo reclinato
sopra libri ancora, e sigarette,
monetine, gadget, dizionari,
cartelline, lettere d’offese
di stima, e di bugie,
poesie
un rimborso FS di due euro da riavere
il certificato elettorale
la lista delle cose da non fare
(fumare, cercarlo, mangiar male)
che appena lasciano filtrare
il marmo (di plastica) del tavolo
Grazie, Dio, per essere venuto
dove ormai non entra (per fortuna)
più nessuno, tendimi una mano,
che mi alzi e in tutta fretta vinca
questa mia stanchezza invalidante
la mestizia soffocante che mi toglie
il fiato per tornare ad essere all’incirca
quella che sembravo prima d’incontrarlo
Mi dici di salvare le mie piante (si sporgono
ti cercano), che io lascio seccare
guardandole morire per potere
uccidere qualcuno anch’io, a mia volta.
Dio, accomodati pure, non ti formalizzare
non mi rimproverare se mi lascio
un poco andare e mi circondo
del disordine in cui hanno messo
il mondo, lo so che hai altro da fare
ma liberaci, se ti capita, dal male
fatto da quelli che usano il tuo nome
e non sanno cos’è la compassione
delle umiliazioni che c’inducono a ingoiare
i pavidi, i pazzi, i polli, i potentelli
gli pseudocredenti e tutti quelli
che non trovano altro modo
per potersi realizzare
Ma piano, mio Dio, così mi accechi
ma non ero preparata a tutta questa vita
a una primavera arrivata nonostante
e al tremito di luce sulle mani stanche.
(Chiara De Luca, da La coda della galassia)
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*Paolo Pegoraro (Vicenza, 1977) si è laureato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e in Letterature comparate presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Collabora da anni alle pagine culturali di numerose riviste, tra cui L’Osservatore Romano, La Civiltà Cattolica e Famiglia Cristiana.