I fautori dell’ideologia della parità di genere, qui in Italia, guardano ai Paesi scandinavi come a dei modelli da seguire. Non tutti sanno, però, che nella progressista Norvegia, ad esempio, l’ideologia gender ha sì conosciuto una fase storica di popolarità, ma oggi si sta sciogliendo come un blocco di ghiaccio nel mare di Barents all’approssimarsi della stagione estiva.
Lo dimostra un fatto su tutti. Nel 2011 il Consiglio dei ministri dei governi nordici ha deciso di sospendere i finanziamenti al Nordic Gender Institute, fervido centro di ricerche sull’uguaglianza di genere nonché bandiera dell’ideologia gender. La decisione è avvenuta a seguito di un dibattito che ha appassionato l’opinione pubblica scandinava per diversi mesi.
A suscitarlo è stata la trasmissione sulla tv nazionale norvegese di un documentario girato dal sociologo e attore Harald Eia, famoso in patria per essere il protagonista di un programma comico. Il documentario si chiama Hjernevask (lavaggio del cervello) e ha il pregio di indagare in modo meticoloso sull’eventuale presenza di fondamenti scientifici dell’ideologia gender, secondo cui donne e uomini sarebbero diversi solo dal punto di vista fisico, poiché le attitudini costituirebbero caratteri non innati bensì appresi da imposizioni culturali da eliminare.
Nella prima puntata Eia prende in esame quello che lui definisce il “paradosso norvegese”. La sua inchiesta parte dall’Università di Oslo, dove incontra Camilla Schreiner, autrice di una ricerca dalla quale emergono dati sorprendenti circa le scelte e gli interessi lavorativi dei due sessi. Dati che dimostrano che in Norvegia, dopo anni di politiche per la parità di genere, le differenze tra uomini e donne sono più marcate rispetto al passato. I cosiddetti “stereotipi” trovano conferma proprio nel Paese che guida la classifica mondiale in campo di rispetto dell’uguaglianza di genere: la dimostrazione è che il 90% degli infermieri sono donne e il 90% degli ingegneri sono uomini.
La conclusione cui giungono gli esperti è quindi che, laddove è concessa maggiore libertà d’espressione senza condizionamenti, le donne e gli uomini esprimono scelte differenti. Teoria corroborata anche da un altro fatto: in Paesi in cui l’uguaglianza di genere resta una chimera (Arabia Saudita, Pakistan, Malesia…), le donne prediligono attività professionali tecniche, giacché vengono viste come un mezzo di emancipazione o, semplicemente, come opportunità lavorative con più offerta.
Basterebbe questa ricerca per incrinare l’ideologia gender o quantomeno per innescare un dibattito. Il quale viene però rifiutato dai suoi sostenitori. Ne danno prova, nel documentario, Cathrine Egeland, filosofa che lavora all’Istituto di ricerca del lavoro, e Jørgen Lorentzen, del Centro di ricerca interdisciplinare sul genere dell’Università di Oslo. Quest’ultimo definisce “studi superati” le teorie secondo cui le differenze tra uomini e donne sono dovute, oltre che in parte ad aspetti culturali, anche e soprattutto a fattori biologici. E sorride sarcastico quando l’intervistatore gli fa presente dell’esistenza di qualificate ricerche sull’origine innata delle differenze sessuali.
Per andare al di là di quel ghigno superbo, Eia si mette in viaggio e decide di incontrare personalmente gli autori di quegli studi che Lorentzen ritiene esser “superati”. Attraversa così la Norvegia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti e visita alcune tra le più prestigiose università del mondo. È qui che dialoga con professori di psicologia, medicina e sociologia.
Il prof. Trond Diseth, dell’Oslo University Hospital, gli espone un suo studio, elaborato lavorando con bimbi che presentano malformazioni genitali, dal quale emerge che le scelte dei bambini riguardo i giocattoli riscontrano differenze tra maschi e femmine fin dall’età di nove mesi. Bambini ancora più piccoli sono quelli presi in esame dal prof. Simon Baron-Cohen, membro del Trinity College, il quale è giunto a dimostrare che esistono caratteristiche innate e differenti nei cervelli di neonati maschi e femmine e che queste differenze sono dovute anche alla quantità di testosterone prodotto.
Tutti gli esperti intervistati da Eia affermano che le differenze sessuali sono soprattutto di carattere biologico, ma essi non escludono affatto l’esistenza di influenze ambientali. Al contrario, i pasdaran della “gender theory” si arrogano di negare ogni incidenza biologica fondando le loro tesi soltanto sugli aspetti culturali e – come dicono loro stessi – sulla teoretica, ossia su un’attività priva di finalità pratiche.
Questo approccio integralista appare lampante nell’ultima parte del documentario. Eia torna dai sostenitori norvegesi del gender portando con sé i video girati con gli esperti che dimostrano la validità dell’origine biologica dell’identità sessuale. Messi di fronte alle prove scientifiche, essi sembrano brancolare nel buio.
Emblematica è la risposta che dà Cathrine Egeland, la quale giustifica il suo sostegno al gender con queste parole: “Credo che le scienze sociali dovrebbero sfidare un pensiero che si basa sul dire che le differenze sessuali sono biologiche”. Sfidare? Il ruolo delle scienze non dovrebbe, piuttosto, essere quello di giungere, attraverso una ricerca inclusiva di tutte le ipotesi, a una descrizione della realtà?
La risposta della filosofa norvegese dimostra due cose. In primo luogo l’inconsistenza scientifica del gender, e poi il tentativo dei suoi sostenitori di intraprendere una battaglia ideologica per rimodellare la società secondo le loro astrazioni. Di questo inganno se ne sono accorti persino lassù in Scandinavia, visto che hanno tagliato i fondi al Nordic Gender Institute. Quaggiù in Italia, invece, certe sirene sembrano ancora incantare.
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il video in lingua originale sottotitolato in italiano si può guardare qui.