Il velo d’ipocrisia sull’utero in affitto inizia a squarciarsi. Come un tarlo, l’idea che questa pratica costituisca una forma di sfruttamento del corpo femminile si sta insinuando (non senza difficoltà) anche all’interno degli ambienti del femminismo.
In principio fu Sylviane Agacinsky, filosofa e storica beniamina della gauche francese, che nel suo libro Corps en miettes (Corpi lacerati) ha definito le “madri surrogate” delle “schiave moderne”, invitando le donne a “resistere” allo sdoganamento culturale di questo turpe fenomeno.
Il suo invito è stato così raccolto da rappresentanti dell’intellighenzia di sinistra, francese e non. Nei circoli femministi, nei salotti degli intellettuali progressisti, benché devoti alfieri del “vietato vietare”, si è fatto strada un dibattito sul tema che ha suscitato più di qualche riflessione sulla liceità di questa pratica: che considera la donna un mezzo di produzione di bambini e che si fonda in gran parte su una logica neo-colonialista, giacché sfrutta l’indigenza di Paesi come India, Nepal, Thailandia.
L’espressione di un simile punto di vista, tuttavia, non sgorga serena in ambienti nei quali il contraddittorio è lecito soltanto quando non scalfisce alcuni “dogmi laici”. Lo testimonia ciò che è avvenuto in Italia nei giorni scorsi. Nell’inserto del Corriere della Sera, La 27esima, la giornalista Monica Ricci Sargentini pubblica una relazione di un incontro avvenuto a Roma tra storiche rappresentanti del femminismo sul tema dell’utero in affitto.
Fedele al suo compito di cronista, la Sargentini sottolinea il fatto che molte femministe abbiano deciso di uscire allo scoperto per denunciare gli abusi che si nascondono dietro codesta pratica. L’aver riportato la verità, tuttavia, le scatena contro un inopinato putiferio. Nell’arco di poche ore, si alzano le voci di protesta di esponenti della galassia Lgbt. Qualcuno, persino, minaccia di denunciare la giornalista all’Unar (Ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali).
La Sargentini ne rimane impressionata, come si può evincere dalle sue parole, rilasciate ad Avvenire. “C’è una sorta di ricatto psicologico, se appena uno esprime un pensiero contro l’utero in affitto viene etichettato come cattolico integralista e omofobo – dice -. Può essere che in questo Paese se uno dice che un bambino ha diritto a un padre e a una madre finisce alla gogna? Ma la libertà di espressione è ancora viva?”.
La risposta a quest’ultima domanda resta sospesa per aria, forse come la lama della gogna che pende già sopra la testa di altre femministe. Sono quelle di Se Non Ora Quando – Libere, movimento resosi famoso per aver portato in Piazza del Popolo a Roma, il 13 febbraio 2011, numerose persone a manifestare “contro la ripetuta, indecente, ostentata rappresentazione delle donne come nudo oggetto di scambio sessuale”.
E ora, a quasi cinque anni da quella incursione presso l’opinione pubblica, le rappresentanti di Snoqlibere tornano sulle barricate. Lo fanno con un “appello contro la pratica dell’utero in affitto”, nel quale esprimono il desiderio di rompere “un silenzio conformista su qualcosa che ci riguarda da vicino”.
Tra i firmatari, non solo donne. Ci sono esponenti del cinema, della letteratura, degli ambiti accademici e dell’associazionismo. Si va dall’attrice Stefania Sandrelli all’ex deputato del Pci Giuseppe Vacca; dalla scrittrice Dacia Maraini all’attore Claudio Amendola, dalle suore orsoline di Casa Rut a Caserta ad Aurelio Mancuso, già presidente di Arcigay e ora di Equality Italia.
Il testo e l’elenco (ancora in divenire) sono stati pubblicati sul sito Che libertà – il coraggio di essere donne. “Noi rifiutiamo di considerare la ‘maternità surrogata’ un atto di libertà o di amore – si legge -. In Italia è vietata, ma nel mondo in cui viviamo l’altrove è qui: ‘committenti’ italiani possono trovare in altri Paesi una donna che ‘porti’ un figlio per loro. Non possiamo accettare, solo perché la tecnica lo rende possibile, e in nome di presunti diritti individuali, che le donne tornino a essere oggetti a disposizione”.
Del resto – per parafrasare Cristina Comencini, una delle firmatarie dell’appello – “una madre non è un forno”. La regista ha rilasciato la dichiarazione a Repubblica, come ha fatto la docente universitaria Francesca Izzo, promotrice della petizione. “Mi ha colpita una certa resistenza – ha confidato la Izzo -. Molti, forse più uomini ma anche donne, hanno mostrato una singolare ignoranza della questione, si sono dichiarati troppo inesperti per esprimersi. C’è quasi la disponibilità a considerarla una cosa accettabile senza volersene troppo occupare”. Proprio adesso però, al netto di effimere gogne, si evidenzia l’opportunità di squarciare del tutto il velo d’ipocrisia. Se non ora, quando?