"Datemi una croce e vi solleverò il mondo"

Oggi come ieri, il segno della croce e tutto quello che essa rappresenta continua ad essere un simbolo odiato, avversato e da distruggere

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«Datemi un punto di appoggio e vi solleverò il mondo. Questo punto d’appoggio è la croce. Non ce ne possono esser altri».

Simone Weil morì nel 1943, mentre il mondo era il campo di battaglia intriso del sangue degli innocenti da chi pensava di poter imporre col terrore il proprio dominio sulla terra. Si credeva allora che tanta follia avrebbe cambiato l’uomo in meglio e, perciò, mai più si sarebbero rivissute scene simili a quelle della persecuzione razziale, politica, genetica e dei forni crematori. Invece, 70 anni dopo sono cambiati i mezzi e gli strumenti, non l’uomo. E la croce, o meglio, tutto ciò che essa rappresenta, continua ad essere il simbolo odiato, avversato e da distruggere.

È cronaca quotidiana, non storia lontana: bambini iracheni, soprattutto yazidi e cristiani – denuncia il comitato Onu sui diritti dell’infanzia – vengono rapiti dai miliziani di Boko Haram e dell’Isis e poi rivenduti come schiavi del sesso o, più spesso, brutalmente uccisi proprio sulla croce, così volutamente trasformata da segno di infinito amore e pace in elemento di morte. Il messaggio che ne deriva è duplice: ai propri seguaci lo Stato islamico manda a dire che la vittoria è vicina. Agli altri, ai cristiani, all’Occidente intero, trasmette angoscia, depressione, sfiducia.

La strada scelta, il piegare l’Islam all’orrore, la scia di sangue e di brutalità non sono un atto di guerra contro una nazione, bensì contro l’umanità. Contro i valori mutuati da secoli di storia e civiltà, contro quel crocifisso che, per quanto tradito e sovente dimenticato, li incarna e rappresenta.

La croce: niente si erge così in alto da poter contemplare quel che ci circonda. Dalla sua sommità, più che dal piedistallo solenne di un trono, si riesce a capire il mondo: la verità sulla ferocia degli uomini e la loro meschinità, ma pure la fedeltà agli  ideali e la generosità di chi rischia anche la vita pur di essere leale. Attorno al seggio del potere, invece, si scorgono solo falsità, ipocrisia, bestialità e violenza, come quella dei jihadisti. Per i credenti il crocifisso è altro. È un segno di liberazione, di salvezza, di speranza.

«La croce si staglia in alto ed è il simbolo trionfale con cui Cristo batte alla porta del cielo e la spalanca per noi», scriveva Edith Stein. E un’altra donna ancora, Natalia Ginzburg, laica di ferro, nel 1988 sulle pagine dell’Unità affermava: «E’ là muto e silenzioso. C’è stato sempre. È il segno del dolore umano, della solitudine della morte. Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro destino. Il crocifisso fa parte della storia del mondo». E parla a tutti, cristiani e agnostici. Ed a tutti ricorda che il credere genuino non è schiavitù, ma libertà, non è imposizione, ma ricerca, non è obbligo, ma adesione. Non è oscurità, ma luce. Non tristezza, ma serenità. Non è negazione, ma scelta positiva, non incubo minaccioso, ma pace. Forse è proprio per questo che viene combattuta da chi dimentica che vivere la fede genera la speranza che fa fiorire, anche nella crudezza dell’agonia, un sorriso. E fa guardare. Oltre.

+ Vincenzo Bertolone

L’editoriale dell’arcivescovo di Catanzaro-Squillace è stato pubblicato oggi sulla “Gazzetta del Sud”.

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Vincenzo Bertolone

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