ROMA, domenica, 6 giugno 2010 (ZENIT.org).- In quasi tutti i Paesi dell’Occidente è in atto, o si è appena conclusa, una vivace discussione sul problema della regolazione giuridica di un complesso di rapporti interpersonali non riconducibili alla tradizionale figura del matrimonio.
Le società del passato hanno distinto con sufficiente chiarezza i rapporti di coniugio da quelle relazioni che tali non erano, riconoscendo e tutelando i primi e lasciando, invece, all’ambito esclusivamente privato le seconde. Ma nella post-modernità i confini tra pubblico e privato, un tempo ben delineati, sono diventati così sfumati da stimolare l’insorgenza di un tertium genus (le convivenze stabili eterosessuali), con il conseguente passaggio da un bipolarismo (matrimonio e relazioni di fatto) a un tripolarismo sociale (matrimoni, convivenze non matrimoniali stabili, relazioni di fatto). E questa trasformazione sembra mettere in discussione l’istituzione stessa del matrimonio, accentuando una crisi di identità già in atto.
È davvero così? Alcuni potrebbero sostenere che giuridicizzare queste forme di relazione e conferire loro una certa dignità sociale potrebbe indurre a ritenere rafforzato l’istituto stesso della coniugio, che verrebbe esteso anche a coloro che fino ad allora ne erano esclusi. Ma un orientamento simile non può che dirsi limitato e parziale. È privo, infatti, di quel duplice riconoscimento che rappresenta la profonda sostanza etica (e non solo giuridica) dell’autentico matrimonio. In altri termini, nel vincolo coniugale la società riconosce, da un lato, la decisione di un uomo e di donna di creare una durevole comunione di vita mentre, dall’altro, richiede loro di istituzionalizzare quel rapporto codificando una relazione che cessa da quel momento di essere privata e diventa parzialmente pubblica (atto amministrativo del pubblico ufficiale).
Diversamente, la convivenza non esige detti requisiti poiché, pur aspirando ad essere giuridicizzata, rifiuta, al contempo, il riconoscimento richiedendo la salvaguardia dell’esclusiva privatezza. In conclusione, se il matrimonio rappresenta la sintesi tra l’ambito pubblico e quello privato, la convivenza, invece, appartiene in toto a quest’ultimo.
Ma che cosa succederebbe se, come precedentemente anticipato, i confini tra pubblico e privato si dissolvessero fino quasi a confondersi?
Proprio questo è il potenziale fattore di crisi del matrimonio. Pertanto, diventerebbe oggetto di discussione non tanto la coniugio in re ipsa quanto, piuttosto, quel coacervo di relazioni tra persone che, nel contesto della post-modernità, risulterebbe essere profondamente diverso da quello del passato più recente.
Probabilmente sono le stesse dinamiche socio-culturali a considerare anacronistica un’ istituzione stabile all’interno di una società mobile; un’istituzione che, radicata sul valore della fedeltà, non trova riscontro in un contesto teso ad esaltare una libertà arbitraria e priva di quel discrimen necessario alle scelte ed ai sentimenti. In tal senso, la convivenza risponde perfettamente a questa logica interna della post-modernità in quanto è espressione di una società fluttuante e precaria, in cui nessuna scelta è ritenuta definitiva e nessuna relazione viene privilegiata rispetto alle altre.
Ma ciononostante, il matrimonio conserva due punti di forza, quegli stessi che, a detta di alcuni, ne indicherebbero la decadenza. Il primo è la sua capacità di rappresentare una struttura di stabilità nella sfera dei sentimenti e nell’ambito della vita quotidiana, specie nella società odierna in cui l’accelerazione smisurata di ogni cosa produce instabilità e insicurezza. Il secondo è l’intrinseca attitudine a dare la vita e a prendersene cura, diversamente da quanto accade nel rapporto di convivenza che – volutamente precario nella struttura e, quindi, passibile di essere continuamente rimesso in discussione – contiene in re ipsa una minore propensione all’accettazione di quel rischio rappresentato dal figlio.
Ecco, allora, ecco il paradosso. Come è possibile riconoscere valore e dignità al matrimonio ma, di fatto, privarlo del significato suo proprio assimilandolo ad altre forme di relazione senza adeguato fondamento etico?
Impegnarsi reciprocamente alla fedeltà ed essere aperti alla nuova vita significa elevarsi al rango di coniugi (dal latino cum iogum) affrontando insieme, all’interno del vincolo imposto dalla morsa del giogo, ciò che la stessa esistenza propone. Dunque omologare il matrimonio ad una serie di rapporti e pattuizioni individuali, sia pure meritevoli di parziale riconoscimento, significherebbe aggiungere ulteriore precarietà e instabilità ad una società già di per sé provvisoria e mutevole.
Nel doveroso rispetto delle persone e delle scelte di ciascuno, pur se eticamente discutibili, occorre riconoscere l’impossibilità di equiparare istituti che sono e permangono oggettivamente disuguali. Come si evince all’art. 3 della Carta Costituzionale, una disciplina uniforme è posta a tutela di situazioni uguali ed omogenee, mentre una disciplina differenziata riconosce e tutela situazioni di diversità. Del resto, se così non fosse, il principio costituzionale di uguaglianza formale rimarrebbe lettera morta.
Per ulteriori informazioni sul tema, si suggerisce di consultare il libro di Cristina Rolando “Famiglia di fatto. Problema giuridico e di bioetica relazionale” (Cantagalli)
* Cristina Rolando è avvocato e docente. Fa parte del Comitato editoriale della Rivista “Iustitia”, edita dalla Casa Editrice Giuffrè, ed è docente di Istituzioni di Diritto Privato presso la Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma.
Ha pubblicato numerosi saggi e volumi, tra cui “Alimenti e mantenimento nel diritto di famiglia. Tutela civile, penale, internazionale” (Giuffrè 2008) e “Bioetica e persona. Quale rapporto?” (Edizioni Art 2009).