di Omar Ebrahime
ROMA, venerdì, 16 marzo 2012 (ZENIT.org).- Il professor Massimo Introvigne, noto sociologo delle religioni, nonché fondatore e attuale direttore del CESNUR (il Centro Studi sulle Nuove Religioni con sede a Torino) ha tenuto nei giorni scorsi un’interessante conferenza a Roma sul tema “La dittatura del relativismo”.
Occasione della discussione pubblica, ospitata dall’associazione Paola Bernabei, è stata la sua ultima fatica editoriale curata da Sugarco (cfr. M. Introvigne, Tu sei Pietro. Benedetto XVI contro la dittatura del relativismo, Milano 2011) e il Magistero di Papa Benedetto XVI, molto commentato e altrettanto criticato dai mass-media, ma ben poco letto.
Quattro gli interventi del Pontefice presi in esame dal sociologo come particolarmente significativi del suo Magistero complessivo.
Il primo (ultimo, però, in ordine di tempo) è stato il Discorso tenuto lo scorso 9 marzo alla Penitenzeria Apostolica dove il Papa è tornato sulla crisi dell’umanità occidentale dei nostri giorni leggendola attraverso la lente d’ingrandimento dell’ “emergenza educativa”: il fatto, cioè, che forse mai come oggi tutte le tradizionali agenzie educative di un tempo (la scuola, la famiglia, la persino Chiesa, in alcune sue parti) abbiano perso – per motivi diversi, ma vicendevolmente collegati, soprattutto dopo la rivoluzione culturale contro l’autorità e l’ordine naturale del 1968 – il senso della loro identità e, quindi, in ultima analisi della loro vocazione. In questo contesto di diffusa secolarizzazione, se il relativismo, richiamando anche la lezione immortale del più grande dei teologi, San Tommaso d’Aquino (1225-1274), è anzitutto “un male morale, un vizio della volontà” che – segnata dal peccato originale con cui nasce e, poi, dalle diverse forme di peccato sociale organizzato – diventa progressivamente incapace di distinguere il vero dal falso e il giusto e dall’ingiusto, un possibile argine può essere però trovato in una rinnovata fiducia nelle possibilità della ragione umana di conoscere la verità, che esiste ed è accessibile a tutti gli uomini di buona volontà.
E’ questa l’ottica anche della discussa Lectio Magistralis di Regensburg del 2006, diventata superficialmente nota, e strumentalizzata, per la citazione del dialogo tra l’imperatore bizantino Manuele II Paleologo e un dotto persiano, ma in realtà tesa a rendere nuovamente credibili le straordinarie potenzialità della ragione umana comune a tutti gli uomini.
Se le religioni sono diverse, la ragione umana è infatti una sola e identica per tutti gli uomini che possono così dialogare sulla base di un fondamento condiviso: l’obiettivo del Papa, facendo riferimento alla celebre tradizione speculativa di confronto dialettico risalente al mondo greco dell’antichità classica, era proprio quello di riaccendere una ‘disputa alta’ sulla nozione di verità e che cosa l’adesione ad essa in definitiva comporti. Il fatto che quel discorso non sia stato compreso (nel mondo islamico fondamentalista, come nell’Occidente laicista) non dimostra certo l’inadeguatezza del Pontefice a farsi comprendere, sostenuta allora da alcuni commentatori tradizionalmente ostili al messaggio cristiano, quanto, semmai, la povertà di ascolto e di spirito auto-critico dell’umanità contemporanea a Nord come a Sud del Mediterraneo che, per motivi ovviamente diversi, sembra dimostrare più interesse a favorire lo scontro delle armi piuttosto che l’incontro delle esperienze auspicate su base razionale da Papa Benedetto XVI.
Un altro punto importante del Magistero del Pontefice in tema di relativismo è dato poi, per Introvigne, dall’enciclica Spe Salvi del 2007 dove Benedetto XVI situa l’inizio della crisi della modernità ancorandola alla parabola, significativa da questo punto di vista, di Martin Lutero (1483-1546).
L’affermazione luterana del Sola scriptura comporterà la rivendicazione di un primato assoluto non della ragione – come era stato fino ad allora nella Cristianità – ma della volontà individuale, facendo venire meno ogni minima certezza di oggettività al sapere comunemente inteso.
Le successive rivoluzioni culturali nella filosofia e nell’arte, come pure nella politica, accellereranno ulteriormente questo processo di disgregazione e relativizzazione fino a giungere, soprattutto negli ultimi due secoli, ad esiti definitivamente irrazionalistici e nichilistici, quegli stessi che faranno dire al gerarca nazista Hermann Wilhelm Göring (1893-1946), condannato al processo di Norimberga per crimini contro l’umanità: “io non ho nessuna coscienza! La mia coscienza è Adolf Hitler!”.
Non a caso, proprio nel corso dell’ultimo viaggio in Germania, in settembre, parlando al Parlamento federale di Berlino, Benedetto XVI ha chiesto alla classe politica del suo Paese di tornare a quel diritto naturale che ieri come oggi rappresenta l’unica ancora di salvezza contro ogni tipo di relativismo dal momento che, come ebbe a dire l’allora cardinal Ratzinger, “riconoscere la verità universale dei diritti umani garantisce il rispetto dei diritti di tutti, compresi quanti non li riconoscono”.
Subito dopo i drammi della II Guerra Mondiale (1939-1945), Auschwitz e la tragedia dell’Olocausto, ha osservato nell’occasione il Papa, in Germania a nessuno sarebbe stato concesso di sostenere pubblicamente che non esistono differenze tra bene e male o che la dignità di tutti gli esseri umani non sia un principio assoluto, acquisito una volta per sempre. Dopo appena pochi anni, però, anche per la crescente influenza del giurista e filosofo austriaco Hans Kelsen (1881-1973), le leggi e i codici di diritto del Paese, come pure dell’Europa occidentale in genere, iniziarono ad essere condizionati dall’impronta fortemente positivistica del teorico del diritto scisso dal dato di natura.
Ma sostenere dalle cattedre che la morale è relativa, ovvero dipende dalle circostanze spazio-temporali, e poi lamentarsi per l’immoralità dilagante della società in cui si vive è una chiara contraddizione in termini.
E non è a costo zero. Nel frattempo, infatti, a poco più di cinquant’anni dall’ultima catastrofe bellica, anche i diritti umani sono diventati opinabili, così opinabili che persino vita e morte non sono più princìpi sentiti come vincolanti.
Benedetto XVI, ha spiegato in conclusione Introvigne, sostiene che: una volta negata l’esistenza della verità è facile cadere nella trappola del piano inclinato per cui la ragione sarà di chi, di volta in volta, urlerà più forte, possiederà le armi più potenti o semplicemente prenderà più voti.
Ma così, come dimostra ad esempio la legalizzazione dell’aborto procurato in quasi tutti i Paesi europei, non si fa altro che attuare una dittatura del più forte a danno del più debole, che proprio in quanto debole non può ribellarsi.
E persino ciò che dai migliori pagani (come il padre della medicina Ippocrate, 460-377 a.C.) era considerato barbaro torna ad essere possibile: è questo il compimento pratico di quella dittatura del relativismo tratteggiata da Benedetto XVI nell’ultima Messa da Cardinale e poi in diversi atti del suo Magistero pontificio, con Stati cioè nominalmente democratici e liberali, ma con leggi con tutta evidenza molto meno democratiche e liberali di quelli precedenti.