L’uomo è “un essere familiare”

Festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe

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di padre Angelo del Favero*

ROMA, giovedì, 1 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Lo scorso anno la Festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe è caduta il 28 dicembre, giorno solitamente dedicato alla celebrazione della Festa dei Santi Innocenti, i bambini fatti uccidere da Erode “quando si accorse che i Magi si erano presi gioco di lui” (Mt 2,16). Il Vangelo precisa anche l’età di questi piccoli: “avevano da due anni in giù”, secondo il calcolo omicida del re che non voleva rischiare di lasciare vivo l’unico Bambino che intendeva eliminare a Betlemme.

Non si è ancora allontanata l’eco celestiale del canto degli Angeli apparsi ai pastori nella Santa Notte, ed ecco le grida strazianti, smorzate nel sangue, di questi piccoli innocenti e dei loro genitori, impotenti ad arrestare la furia omicida dei soldati. Eppure continua la gioia e la gloria del gran giorno di Natale! L’incarnazione di Dio è, infatti, gloria di quell’Amore, che è venuto ad abitare in mezzo a noi per vincere l’odio e la morte con la forza che scaturisce dalla sua inerme debolezza.

La coincidenza liturgica delle due feste, permette di riconoscere con ampiezza maggiore il martirio di Betlemme: anzitutto, certo, la spada trafisse i bambini, ma nello stesso tempo, casa per casa, anche i loro genitori. La strage degli Innocenti fu una tragedia delle famiglie di Betlemme, così come al martirio del Figlio di Dio sulla croce partecipò l’intera Famiglia della Trinità.

L’uomo, infatti, “è un essere singolare, personale, che può essere descritto in tanti modi, come immagine di Dio, animale ragionevole, sintesi dell’universo o microcosmo, ma deve essere riconosciuto anche come essere familiare” (da “Famiglia e procreazione umana”, Pontificio Consiglio per la Famiglia, 2006, n. 5).

Non si tratta solo di sottolineare una definizione antropologica, ma di richiamare la verità dell’uomo come verità della famiglia. Giovanni Paolo II, nell’enciclica Evangelium Vitae ha scritto: “La famiglia è chiamata in causa nell’intero arco di esistenza dei suoi membri, dalla nascita alla morte. Essa è veramente ‘il santuario della vita…il luogo in cui la vita, dono di Dio, può essere adeguatamente accolta e protetta contro i molteplici attacchi a cui è esposta, e può svilupparsi secondo le esigenze di una autentica crescita umana’. Per questo, determinante e insostituibile è il ruolo della famiglia nel costruire la cultura della vita” (n. 92).

La prima Lettura per la domenica del 28 dicembre, tratta dal libro della Genesi, ci ha presentato il caso di una famiglia sterile: è la famiglia di Abramo, capostipite del popolo di Dio. L’anziano patriarca si lamenta con il Signore: “Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede” (Gen 15,3); allora il Signore lo conduce fuori, nella notte, a contemplare la volta del cielo, con la sterminata “polvere di stelle” che il “Dio degli eserciti” vi ha cosparso. Dice Dio ad Abramo: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle…tale sarà la tua discendenza” (Gen 15,5).

Ma Sara ha ormai novant’anni e continuare a sperare nel dono di un figlio è una lotta sempre più difficile per Abramo, che ne ha dieci di più. Dio però lo rassicura: “Non temere Abram! Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande” (15,1). Paolo similmente ci esorta: “Afferrate sempre lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno” (Ef 6,16). Abramo risponde con la semplicità di un fanciullo: “Mio Signore, che cosa mi donerai, mentre io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Eliazer di Damasco?” (Gen 15,2).

Infatti, se una coppia non aveva figli, secondo le usanze orientali di allora, poteva adottare un servo o uno schiavo, nominandolo erede. Ma per tutta e paradossale risposta, Dio gli rinnova la Sua promessa di fecondità, paragonandola addirittura alla innumerevole “famiglia” delle stelle (il telescopio spaziale Hubble mostrerà che le galassie del cosmo sono effettivamente raggruppate in “famiglie”): “Guarda in cielo e conta le stelle se riesci a contarle…tale sarà la tua discendenza” (Gen 15,5).

Contemplando le stelle, Abramo riacquista la speranza: “Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia” (Gen 15,6). Cosa significa questa espressione? Nell’Antico Testamento “giustizia” è la fedeltà al patto tra Dio e Israele, un patto di amore sponsale ed eterno. Per Abramo, dubitare volontariamente della promessa di Dio sarebbe un tradimento del cuore, un adulterio consumato aderendo alla tentazione della sfiducia. Invece egli rimane fermo sulla Parola che gli è stata data, e ciò prova la sua fedeltà all’alleanza divina, la sua “giustizia”.

La promessa divina, alla fine, si compie, e la fede giunge così all’approdo della pace e della gioia. Ai due coniugi anziani viene rinnovata miracolosamente la grazia del grembo, sia dal versante della fecondità di Sara, sia da quello della capacità di Abramo. Isacco viene concepito e Dio rivela così il suo amore e la sua fedeltà. La famiglia diventa così il segno della fede dell’uomo in Dio e dell’amore di Dio per l’uomo.

E’ questo anche il messaggio del brano della Lettera agli Ebrei: “Fratelli, per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì…una discendenza numerosa come le stelle del cielo…” (Eb 11,12). Contemplando l’arcana bellezza del cielo stellato, il cuore di Abramo viene colmato da uno stupore riconoscente, che gli rinnova la certezza della fedeltà di Dio.

Un fedeltà che troverà il suo canto perfetto in Colei la cui fede fu ancora più grande di quella di Abramo: “L’anima mia magnifica il Signore…per Abramo e la sua discendenza, per sempre” (Lc 1,50-55). Maria magnifica il Signore non solo perché “il suo Fattore si è fatto sua fattura” (Dante, Paradiso), ma per la gioia di una esperienza ineffabile: la Bellezza infinita del Creatore si è raccolta e come concentrata fisicamente nel suo grembo.

Gioia e stupore unici, ma ogni madre può parteciparne, secondo la misura della sua fede, se solo considera che: “L’essere umano è il prodigio più grande dell’universo. In lui, solo in lui si accendono misteriosamente coscienza, espressione, esperienza morale, nostalgie, tragedie e dedizioni di amore, tutte cose che fanno di lui – errori e dolori compresi – la parte più nobile della creazione. Il corpo stesso dell’uomo è ben degno dell’immensità del suo spirito: le cellule del nostro corpo – miliardi e miliardi – sempre al lavoro e sempre percorse da una dolce fluorescenza energetica, sono mille volte più numerose delle stelle del nostro cielo; eppure questo nostro organismo super sofisticato si realizza da una scintilla microscopica, in solo nove mesi!” (da “La vita umana: prima meraviglia!”).

La famiglia di Abramo, provata in molti modi, non disobbedisce mai a Dio, ma vive con spirito di fede ogni avvenimento, ogni difficoltà, ogni nuova richiesta della Sua volontà.Questo atteggiamento di fiducioso abbandono è lo stile della Santa Famiglia, che il Vangelo ci mostra oggi, nell’episodio della presentazione di Gesù al tempio. Lo scopo immediato del loro viaggio da Betlemme a Gerusalemme è, infatti, l’adempimento della Legge.

Così Giuseppe e Maria incontrano Simeone, “uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione di Israele” (Lc 2,25), del cui passato il Vangelo non dice nulla, limitandosi a presentarlo come modello dell’uomo che si apre all’azione di Dio, “mosso dallo spirito”, e che, grazie a questa sua docilità nella fede, sperimenta la gioia dell’incontro con Gesù, al Quale tendeva l’intera sua esistenza.

Anche la figura di Anna è caratterizzata da questa profonda pace: una donna molto anziana, rimasta vedova in gioventù, la quale da lunghi anni “non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con
digiuni e preghiere” (Lc 2,36-37). Tra le molte notizie su questa donna esemplare, il Vangelo non aggiunge quella di aver avuto figli. Tuttavia il messaggio che ci raggiunge della sua umile e nascosta devozione, è anch’esso “familiare”: la fede in Dio è una relazione sponsale con il Signore Gesù, appartenenza esigente perché chiamata ad essere come Lui e con Lui “segno di contraddizione” (Lc 2,34), eppure nello stesso tempo tanto appagante da colmare di felicità anche quell’esistenza coniugale che ha conosciuto il vuoto amaro e doloroso della solitudine, dopo la gioia feconda degli inizi.

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* Padre Angelo, cardiologo, nel 1978 ha fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita all’ospedale Santa Chiara di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1984. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

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ZENIT Staff

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