di Roberta Sciamplicotti
VICENZA, martedì, 6 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Sulla terra c’è spazio per tutti; per questo, il fenomeno delle migrazioni non deve allarmare, ma far scoprire la ricchezza che qualsiasi uomo o donna può apportare a una società.
Lo ha sottolineato l’Arcivescovo Agostino Marchetto, Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, intervenendo questo lunedì a Vicenza sul tema “L’Enciclica Caritas in Veritate e la pastorale per i migranti” in occasione dell’Incontro promosso dalla Fondazione Migrantes diocesana.
Nell’Enciclica, ha ricordato, il Papa si riferisce alle cause che inducono milioni di uomini e donne ad emigrare, come l’“estrema insicurezza di vita, che è conseguenza della carenza di alimentazione”, la questione dell’acqua, dell’agricoltura, dell’ambiente, dell’energia, la ricerca di un lavoro degno.
Un’altra causa di migrazione è la globalizzazione, che ha “grandemente contribuito a far uscire intere regioni dal sottosviluppo”, ma come ha scritto il Papa può anche “concorrere a creare rischi di danni sconosciuti finora e di nuove divisioni nella famiglia umana”.
La società sempre più globalizzata, infatti, avvicina ma non rende fratelli. Per questo, ha spiegato l’Arcivescovo, è “necessario che questa maggiore vicinanza tra le persone, oggi, si trasformi in vera comunione, se si vuole arrivare all’autentico sviluppo dei popoli”, che dipende soprattutto dal riconoscere di essere una sola famiglia.
Come ha affermato il Pontefice (n. 50), “c’è spazio per tutti, su questa nostra terra: su di essa l’intera famiglia umana deve trovare le risorse necessarie per vivere dignitosamente, con l’aiuto della natura stessa, dono di Dio ai suoi figli, e con l’impegno del proprio lavoro e della propria inventiva”.
Le migrazioni, causa o effetto dello sviluppo?
Il rapporto tra migrazioni e sviluppo, ha riconosciuto monsignor Marchetto, è “assai complesso” perché “non è lineare il rapporto causa-effetto tra i due termini del binomio”.
Se da un lato, ha infatti spiegato, “si ritiene che la mancanza di sviluppo nella terra d’origine generi emigrazione, perché ivi è difficile assicurare una vita degna, o addirittura soddisfare alle fondamentali necessità di sopravvivenza, per sé e per la propria famiglia”, dall’altro “l’emigrazione stessa può anche generare una mancanza di sviluppo, reso assai difficile se si priva il Paese originario delle migliori risorse umane atte a dare un contributo significativo alla produzione locale e ai processi ad essa connessi”.
Il presule ha quindi ricordato le diverse situazioni dei migranti, molti dei quali sono “altamente qualificati e competenti”, situazione che provoca nei Paesi meno sviluppati” il cosiddetto “brain drain”, o fuga di cervelli.
Tale contesto è particolarmente problematico se si parla dei lavoratori del settore sanitario, “eppure sarebbe un violare i loro diritti umani e la loro libertà di movimento se si attuassero provvedimenti che togliessero loro la possibilità di decidere liberamente se partire o meno”.
Accanto a questo tipo di emigrazione, ce ne sono altri “più numerosi e anche più dolorosi”, perché “non si tratta del caso di persone in fondo privilegiate, ricercate da datori di lavoro che necessitano di conoscenze e capacità professionali o tecnologiche non facilmente reperibile in loco”.
Anche questi altri tipi di migranti, ad ogni modo, sono necessari perché “sono pronti a svolgere mansioni che i locali non vogliono più eseguire”.
“E che dire di coloro che sono fuggiti dalla terra natia a causa di guerre, violenze, o persecuzioni per motivi politici, etnici, religiosi o per le loro convinzioni? O di chi si è allontanato da catastrofi ambientali naturali o provocate dall’uomo?”, ha chiesto.
Integrazione o assimilazione?
Vivere in una società diversa dalla propria rappresenta “una vera sfida per l’immigrato”, che si trova davanti alle difficoltà materiali quotidiane e a una “questione scottante, che potrebbe anche disorientare: l’integrazione”.
“Quando si parla di integrazione significa che l’immigrato deve adattarsi al modello di vita locale, fino a diventare una copia dell’autoctono, trascurando le proprie legittime radici culturali?”, ha domandato monsignor Marchetto, sottolineando che se così fosse “verrebbe assimilato e non integrato”.
L’assimilazione, constata, rappresenta un impoverimento anche delle società d’accoglienza, “perché il contributo culturale e umano dell’immigrato alla società che lo ospita è in tal modo minimizzato se non annullato”.
Se i migranti devono “senz’altro” compiere “i passi necessari per essere inclusi socialmente nel luogo di destino”, questo processo deve tuttavia “rispettare l’eredità culturale che ognuno porta con sé”.
L’integrazione, ha concluso monsignor Marchetto, non è ad ogni modo “una strada a senso unico, non è cammino da percorrere solo dall’immigrato, ma anche dalla società di arrivo, che, a contatto con lui, scopre la sua ‘ricchezza’, cogliendone i valori della cultura”.
Entrambe le parti devono dunque essere disposte a impegnarsi, “giacché motore dell’integrazione è il dialogo, e ciò presuppone un rapporto reciproco”.
Solo in questo modo, come ha ricordato il Papa nella sua Enciclica, si potrà “dare forma di unità e di pace alla città dell’uomo, e renderla in qualche misura anticipazione prefiguratrice della città senza barriere di Dio”.