di Mariaelena Finessi
ROMA, mercoledì, 24 novembre 2010 (ZENIT.org).- Il dolore, tema fra i più universali, visto nell’ottica della scienza, della filosofia e delle religioni. Questo lo scopo del colloquio messo in piedi lo scorso anno dalla facoltà di Medicina dell’Università La Sapienza di Roma. Di quell’incontro, nato anche per tracciare le dimensioni del dolore cronico (tanto ampie da avere pesanti risvolti socio-economici in termini di perdita di lavoro e comparsa di depressione) sono stati pubblicati finalmente gli atti.
A presentarli al pubblico, alcuni giorni fa, tre esponenti – ognuno a proprio modo – delle tre grandi religioni monoteiste, per raccontare come il Cristianesimo, l’Islam e l’Ebraismo risolvono la questione della sofferenza nella vita degli uomini: Gaspare Mura (docente di Filosofia alle Pontificie Università Urbaniana e Lateranense), Khaled Fouad Allam (docente di Sociologia del mondo musulmano all’Università di Trieste) e David Meghnagi (docente di Psicologia della Religione e di Pensiero Ebraico).
Premesso che «la sofferenza appartiene alla vicenda storica dell’uomo – come ben spiegò Giovanni Paolo II nel 2000, in occasione del Giubileo degli ammalati -, il quale deve imparare ad accettarla e superarla», è vero che le risposte che le tre religioni monoteiste danno al quesito del dolore, «convergono tutte – per Gaspare Mura – intorno ad una figura simbolica, quella di Giobbe».
«La ragione per cui ci si riannoda al Libro di Giobbe è che questi non è un personaggio storico ma è figura di narrazione simbolica, è un pagano che non appartiene ad alcuna determinata tradizione religiosa». In altri termini, «Giobbe è “l’uomo” che, nella nudità della sua esistenza, pone le supreme questioni sul dolore a rappresentanza di ogni uomo, di ogni epoca e di ogni cultura».
Ulteriore elemento, è che Giobbe non pone questioni astratte intorno al dolore, non domanda come i filosofi il “perché delle cose”, «soprattutto Giobbe mostra che non esiste nessuna tecnica, nemmeno quella terapeutica o psicoanalitica, capace di rispondere al senso esistenziale profondo del dolore».
E così, «il fedele dell’Islam vede in Giobbe – continua Mura – la pazienza con cui il vero credente deve accettare dall’Onnipotente non solo i beni, ma anche i mali che nella sua imperscrutabile volontà gli assegna per metterlo alla prova e premiarlo della vittoria; e soprattutto vede nella figura di Giobbe anche un invito a tutti coloro che sono vicini ad un uomo che soffre, a farsi compassionevoli, ad esercitare la virtù della bontà, dell’assistenza, della pietà, cosicché il dolore di uno possa tornare a beneficio di tutti».
«Da Ferdinand de Saussure – spiega poi Allam – sappiamo che la lingua forma la coscienza. Possiamo dunque ricercare le forme verbali che indicano una situazione di dolore nel Corano, perché attraverso esse possiamo riconoscere la semantica del dolore nell’Islam e dunque la percezione che i musulmani hanno di quella esperienza». Non si dice «io sono malato» ma semplicemente «malato», come ad indicare il dominio della malattia sul soggetto. «Si nota come qui l’individuo perda la sua autonomia, perché tutto risulta rimesso alla volontà divina».
Vero è che si «si riesce a sopportare il dolore – aggiunge Meghnagi – se c’è una porta aperta verso il futuro». «Nel rapporto che l’Ebraismo istituisce con Dio, se questo “fallisce”, non è sostituito. È reso migliore. Anche in questo caso si ricorre all’esempio di Giobbe che accusa il suo Dio ma non lo nega. Lo richiama alle sue responsabilità, ma non lo rifiuta».
Dopo la Shoah, con l’uomo messo a dura prova, che va chiedendosi dove è Dio ad Auschwitz, «i testi della tradizione non riescono più a dire qualcosa che non rischi di suonare come un insulto. Il lutto ha investito i fondamenti della civiltà e i suoi simboli religiosi. Nei lager se c’è stato miracolo, è di aver continuato a credere nel bene. Nonostante tutto e perché non v’è altra scelta. Non è più Dio a salvare gli uomini, come nelle vecchie teodicee trionfali. È l’uomo a portare sulle spalle l’idea di Dio, a farla esistere per salvare il mondo».
Se voi mi farete esistere – recita un antico Midrash – io esisto.
Quanto al Cristianesimo, può essere citato – tra i tanti – Jung che nel suo celebre “Risposta a Giobbe” afferma che la risposta al perché di Giobbe è il «perché» pronunciato da Cristo sulla croce: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Ovvero è in Cristo che Dio risponde a Giobbe, accogliendo su di sé il «perché» e la stessa sofferenza di Giobbe. Giacché in Cristo Dio ha veramente incontrato il male e lo ha combattuto e vinto in modo definitivo anche per noi.
«In finale – spiega Mura -, la teologia crucis si fonda sulla grande speranza che l’uomo nutre, di avere Dio non come semplice interlocutore o come spettatore del suo dramma o addirittura come avversario, ma come cobelligerante nella lotta contro il male e la sofferenza. Il Padre, secondo la preghiera insegnata dal Signore, è colui che «libera dal male», cioè è a fianco di ogni uomo per liberarlo dal male e dalla sofferenza».
Il senso profondo del Libro di Giobbe non consiste allora nel chiarire l’enigma del male quanto piuttosto nell’indicarci la maniera in cui è possibile affidarsi a Dio pur nella sofferenza. «Credere a Dio nonostante», dice Ricoeur. «Solo così – conclude Gaspare Mura – è possibile amare Dio senza interesse, rinunciando alla ricompensa per le proprie virtù e rinunciando pure al desiderio di immortalità».
Alla fine, scrive Ricoeur, «è detto che Giobbe è giunto ad amare Dio per nulla, facendo così perdere a Satana la sua scommessa iniziale».