In queste pagine ormai da tempo ci stiamo occupando di delineare, attraverso una lunga serie di analisi terminologiche, linguistiche, storiografiche e teoretiche, il senso di una arte che possa essere realmente a servizio dell’uomo, cioè veramente “umanistica”.
Guardando a quanto accade di nuovo nell’orizzonte che ci circonda, vengono nuove stimolanti considerazioni, riguardo un aspetto che mai la contemporaneità penserebbe di dover rintracciare nel campo delle arti o in quel che di esse rimane. Mi sto riferendo all’umiltà, ovvero ad una virtù che è certamente necessaria al progresso spirituale dell’uomo, ma che è altrettanto necessaria alle arti, se vogliono realmente costruire, attraverso la bellezza, un corretto piedistallo per la verità con lo scopo di promuovere il bene degli uomini.
Più volte abbiamo affrontata la questione teoretica del “sistema d’arte”, nel quale si può pensare di sviluppare declinazioni particolari nella forma compiuta dei vari stili artistici. Abbiamo anche detto più volte, che il termine stile, è un termine storiograficamente recente, e che nei secoli passati era più in uso il termine “maniera” o ancor meglio “schola”, intendendo con questi non solo la cifra pedi rsonale di un singolo pittore, ma anche tutta la sua bottega, la sua scuola fino ad estenderla anche allo “stile” di una intera città o regione. Il termine stile ultimamente, nel parlare comune e quotidiano, ha assunto un erroneo valore “assoluto”, fagocitando di fatto il superiore concetto di “sistema d’arte”, giungendo equivocamente a sostituirlo, con tutte le implicazioni che questo spostamento di significato comporta in ambito teoretico, riducendo di fatto gli strumenti definitori a pochissime parole “insipide”. Nel contempo, il termine “stile” ha anche perso quel senso di accomunamento, di comunione tra membri di una bottega ed il proprio fondatore o maestro. Il termine stile ha perso anche quel carattere catalogativo originario impresso in ambito storiografico, che gli era proprio all’origine, divenendo addirittura un termine tecnico per la descrizione di una singola opera d’arte, o addirittura per una parte di essa. Espressioni come “i vari stili dell’artista”, oppure “lo stile elegante di quest’opera”, fino a “il mescolamento di più stili” sono ormai correnti. Ma di contro a una strumentazione critica così impoverita nel linguaggio e così ridotta nelle dimensioni, incontriamo viceversa espressioni esagerate e rutilanti nelle opere che sempre più spesso troviamo in mostra nei musei d’arte contemporanea. Si può individuare, dunque, come un movimento inversamente proporzionale tra la crescente esasperazione delle forme e dei linguaggi artistici e l’insipiente impoverimento teoretico e critico. L’attenzione critica spesso è passata dall’opera alla vita dell’artista, anzi in alcuni casi le due cose coincidono, ponendosi l’analisi critica allo stesso livello di quella biografica dell’artista. L’artista, nella concezione contemporanea, è un “creatore” capace di stupire sempre per le sue eccentricità nella vita e nelle opere.. Tutto è rivoluzione, o contestazione o rivolta, nella concezione teorica della funzione sociale dell’arte e dell’artista. L’artista contemporaneo ha abbandonato ogni legame con la tradizione della bottega medioevale o rinascimentale, ed ha avocato a sé un solo ruolo, quello di stupire con cose mai viste, in una perenne evoluzione di auto identificazione nel ruolo di demolitore di tabù, di superatore di frontiere, di scopritore di territori inusitati e di auto proclamatore del rifiuto di regole, leggi e servitù. In questa prospettiva l’arte non serve nessuno, se non se stessa, l’artista non serve nessun padrone se non la propria arte. L’egocentrismo smisurato dell’artista così concepito, oscilla tra deliri di autoreferenzialità e patetiche ammissioni di sconfitta, costruendo ininterrottamente il mito moderno e postmoderno dell’artista maledetto, che vive nel proprio genio il male di vivere indicando al contempo nella propria carne maciullata la direzione che l’umanità può e dovrebbe intraprendere nel desiderio di salvezza e di felicità.
Questo non solo è razionalmente non umano, ma anche palesemente anticristiano. L’artista non deve avere se stesso come finalità, ma deve porsi al servizio di un fine bello, vero, buono. L’arte non deve rincorrere a ogni costo una forzata “originalità”, come se questa fosse un parametro valutativo, invece deve essere “originaria”, deve cioè fondarsi nella bellezza del creato e del suo Creatore.
Nella prospettiva cristiana, risultano sempre illuminanti le parole proposte dal Concilio Vaticano II nella Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, in cui espressamente è scritto che le arti devono svolgere un ruolo di “servizio” nei confronti della Chiesa: «la santa madre Chiesa ha sempre favorito le belle arti, ed ha sempre ricercato il loro nobile servizio, specialmente per far sì che le cose appartenenti al culto sacro splendessero veramente per dignità, decoro e bellezza, per significare e simbolizzare le realtà soprannaturali»1. La liturgia è il luogo in cui in modo eccellente l’arte presta il suo servizio ancillare, ma in ogni sua dimensione le arti devono essere “umili”.
Utilizzando l’analogia con la filosofia, potremmo affermare che come la filosofia è ancella nei confronti della teologia, analogamente l’arte deve farsi ancella della Chiesa. Dunque, l’arte, soprattutto sacra e arte liturgica, deve porsi al servizio della Chiesa, diventare ancella. “Ancella” non vuol dire “dama di compagnia”, ma “serva”, si tratta dello stesso termine con cui viene appellata Maria; imitando la grandezza della Santa Vergine Maria che con il suo “Fiat” si dice “schiava del Signore” (Lc 1, 38) e che “magnifica il Signore” “perché ha guardato l’umiltà della sua Serva” (Lc 1, 48), così ogni attività umana, e in modo speciale l’arte al servizio della Chiesa, deve farsi “schiava di Cristo”.
Ricordiamo, come ancora si esprime il Concilio Vaticano II, nella Gaudium et Spes: «chi si sforza con umiltà e perseveranza […] viene come condotto dalla mano di Dio»2.
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NOTE
1 Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, 122.
2 Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes, 36, 2.