di Paola de Groot-Testoni
ROMA, mercoledì, 7 marzo 2012 (ZENIT.org) – La prima e la seconda parte dell’intervista al prof. Faesen, sono state pubblicate rispettivamente lunedì 5 e martedì 6 marzo.
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Il Papa ha dichiarato l’anno della Fede e nel mese di ottobre ci sarà anche il Sinodo dei Vescovi sulla nuova evangelizzazione. Qual è la situazione in Belgio?
Faesen: A questo proposito, trovo molto difficile dare una risposta generale. Sicuramente ci sono altre persone che sarebbero in grado di rispondere meglio a questa domanda. Ma la mia impressione personale è che in Belgio vi sia una palese mancanza di conoscenza di base del credo cristiano. Attraverso il mio lavoro come professore a Lovanio ed Anversa, vengo spesso in contatto con i giovani delle Fiandre e anche con studenti stranieri. Mi colpisce il fatto che non è tanto una mancanza di interesse, ma che – a confronto con gli studenti stranieri – i nostri giovani hanno scarsa conoscenza dei contenuti del credo cristiano. E tra l’altro parlo di studenti di teologia o filosofia o di coloro che mostrano interesse per la letteratura spirituale. Per gli altri probabilmente la situazione non sarà molto migliore. In questo senso, iniziative come l’Anno della Fede sono assolutamente necessarie. Non dimentichiamo che per la maggior parte delle persone, la formazione intellettuale che ricevono sulla fede cristiana è solo quello che possono leggere sui giornali.
Dopo l’uragano degli abusi sessuali, che non ha risparmiato Belgio e Paesi Bassi, ci sono segni di speranza?
Faesen: Gli scandali legati agli abusi sessuali sono davvero angoscianti. Tutti sanno che la Chiesa è fatta di peccatori, ma i peccati che sono venuti alla luce sono estremamente pesanti proprio perché compiuti su bambini vulnerabili e indifesi. Ci sono segni di speranza? Certo. Ma io penso che sarebbe meglio imparare dalle grandi figure bibliche come Abramo, che ha confidato in Dio senza segni. In certi momenti dobbiamo semplicemente osare di fidarci in Dio stesso e non nelle nostre prestazioni, che in questo caso sembrano essere particolarmente deludenti. Sono assolutamente convinto che Dio continui a cercare l’uomo che Lui – per usare le parole di Ruusbroec – rinasce ogni giorno nel cuore di coloro che lo amano. È stato così duemila anni fa, e ha continuato ad esserlo nei secoli successivi, cioè in un modo spirituale. Nei periodi più desolanti della storia della Chiesa, nasce una inaspettata nuova vita, proprio dove meno te lo aspetti. C’è una vitalità nella Chiesa, che chiaramente non proviene dalle stesse persone, ma che ha la sua origine nell’incontro di Dio in quanto Dio, con l’uomo in quanto uomo, quindi anche con una comunità umana peccatrice.
Professor Faesen, lei è anche un esperto di letteratura inglese, in particolare della poesia di Gerard Manley Hopkins. Che cosa l’ha toccata nella sua opera?
Faesen: Definirmi un “esperto” è probabilmente esagerato! Mi piace leggere la letteratura inglese, ed ho condotto – ormai anni fa – alcuni studi su Hopkins. All’epoca mi concentrai in particolare sui suoi, così chiamati, Terribili Sonetti, poesie scritte negli ultimi anni della sua vita. Quel periodo fu molto pesante per lui, fu un tempo di dimenticanza di Dio. La cosa che più mi colpì fu il fatto che lo scrivere poesie, come pure quei sonetti, venisse da lui vissuto come un’esperienza di preghiera, una preghiera quasi impossibile, in cui si rivolgeva a Dio, che a volte veniva visto come avversario, Colui che ostacolava i suoi progetti. Mi ha impressionato il fatto che si potesse vivere la relazione con Dio in maniera più profonda dei tranquilli sentimenti religiosi. Ho ritrovato ciò in molti altri scrittori della letteratura spirituale cristiana. Jan van Ruusbroec l’ha descritta splendidamente: l’interazione di consolazione e desolazione che può portare una persona alla profonda coscienza che il suo rapporto con Dio può essere molto più profondo delle esperienze. Le confortanti, piacevoli e tranquille esperienze non sono di per sé esclusivo carattere della qualità della relazione. Per Ruusbroec il segno più evidente è l’abbandonarsi all’altro. Ho l’impressione che Hopkins, alla fine della sua vita e nei suoi ultimi scritti, fosse alla ricerca di questo abbandono. Al di là di questo, è naturalmente la forza poetica del linguaggio col quale Hopkins descrive i temi del paesaggio interiore (i cosiddetti inscape e instress) che è particolarmente affascinante.
Hopkins era un convertito, come il grande cardinale John Henry Newman. Che cosa possono insegnarci oggi, in questi giorni di Quaresima e quindi in un momento di conversione?
Faesen: Hopkins è stato profondamente influenzato da John Henry Newman, quando quest’ultimo era impegnato nel lavoro pastorale a Oxford, proprio mentre Hopkins studiava lì. Per entrambi la parola “conversione” ha un significato molto specifico, e cioè il passaggio dalla Chiesa Anglicana a quella Cattolica. Entrambi erano stati in precedenza cristiani convinti. Il passo di diventare cattolici, lo hanno indubbiamente vissuto come un approfondimento alla devozione a Dio, a vivere una vita con un rapporto più intenso con Dio. E forse è proprio questo che ci può ispirare durante la Quaresima. Fondamentalmente, la Quaresima è il periodo in cui ci prepariamo spiritualmente alla grande festa della Pasqua, il mistero della risurrezione, il nucleo abbagliante della nostra fede.
Pertanto, la Quaresima non dovrebbe essere un periodo triste, ma un periodo di dedizione al mistero travolgente dell’amore divino e soprattutto di un grande abbandono ad esso. Il sacerdote francese Max Huot de Longchamp – un mio buon amico e un eccellente conoscitore della tradizione mistica – una volta disse: “Abbiamo paura della morte perché abbiamo paura dell’amore”. Questa frase mi impressionò molto. Infatti, vi è nell’uomo, in tutti noi, una riluttanza profonda ad arrenderci pienamente all’amore di Dio. Jan van Ruusbroec dice che non possiamo davvero fare a meno che “fondare la nostra vita su un abisso”. Intendeva dire: l’abisso di amore che è Dio. L’immagine dell’abisso fa capire bene perché a volte le persone hanno paura.