"Renderci disponibili ad ascoltare ciò che lo Spirito vorrà suggerirci"

L’insediamento ufficiale del nuovo patriarca di Venezia, monsignor Francesco Moraglia

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VENEZIA, martedì, 27 marzo 2012 (ZENIT.org) – Riportiamo di seguito l’omelia di S.Ecc. mons. Francesco Moraglia, in occasione del suo insediamento ufficiale come 48° Patriarca di Venezia, avvenuto domenica scorsa, 25 marzo.

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Eminentissimo Patriarca Marco,
Eccellentissimo Rappresentante Pontificio,
caro Monsignor Beniamino, Amministratore Apostolico,
Venerati Confratelli, Autorità,
carissimi presbiteri, diaconi, consacrati e consacrate, fedeli laici,
carissimi Veneziani,

è sotto lo sguardo materno della Nicopeia, nel giorno dell’Annunciazione del Signore, 25 marzo, natale della città, che la Chiesa di Dio che è in Venezia, attraverso la presa di possesso del nuovo Patriarca, viene ricostituita nella sua pienezza teologica, giuridica e pastorale; rivolgiamo il nostro umile grazie a Dio. In questo giorno la Chiesa che è in Venezia è chiamata in modo particolare ad innalzare la sua lode; tutto, infatti, esprime lo stupore e la gioia del popolo di Dio che, reso tale nel sangue di Cristo, celebra la prima Eucaristia presieduta dal nuovo Patriarca, il quarantottesimo successore di San Lorenzo Giustiniani. Così gli uomini passano, ma la Chiesa rimane. È proprio il vescovo – attraverso la successione apostolica – che, col suo ministero, “configura compiutamente” la Chiesa particolare e, tramite la comunione diacronica, si lega al ministero dei Dodici e, con loro, allo stesso Gesù e alla sua Pasqua.

Significativa è, a metà del terzo secolo, la testimonianza di Cipriano, vescovo di Cartagine, sul ministero episcopale. Infatti, secondo Cipriano, la Chiesa particolare – per divino volere – è strutturalmente incentrata sul vescovo che tiene in essa il posto di Cristo sommo sacerdote; il vescovo è il sacerdote che, nel nome Cristo, guida la comunità ecclesiale. L’insegnamento del vescovo di Cartagine circa la comunione fra i vescovi è oltremodo chiara; infatti per Cipriano il vescovo di una chiesa particolare deve vivere in stretta comunione con gli altri vescovi ma, alla fine, è la comunione col vescovo di Roma a garantire la stessa collegialità episcopale (cfr. Cipriano, Lettera ad Antoniano, PL 3,787-788). È la realtà della collegialità che in seguito troverà compiuta e piena formulazione nell’ecclesiologia del Concilio Ecumenico Vaticano II. E in quest’anno, cinquantesimo anniversario della sua solenne inaugurazione, siamo invitati a cogliere sempre meglio il magistero di questa assise ecumenica secondo quell’ermeneutica del rinnovamento nella continuità che autorevolmente propone Benedetto XVI. Il Vaticano II è il grande evento ecclesiale che ha segnato profondamente la vita della Chiesa e al quale dobbiamo guardare con fiducia.

È proprio in forza della collegialità episcopale che il vescovo di una chiesa particolare, in comunione col vescovo di Roma, ha un legame inscindibile con gli altri vescovi. Siamo nella logica del mistero, per cui non solamente il vescovo è coinvolto, ma ogni chiesa particolare è tale in forza del rapporto intrinseco con la chiesa di Roma. Ed è in questa chiave che i confratelli vescovi del Triveneto guardano, con speranza e realismo, all’imminente convegno di Aquileia 2, rinnovando anzitutto il vincolo collegiale tra loro e le loro Chiese, e tra loro e il vescovo di Roma, il vescovo dei vescovi.

L’impegno comune è renderci disponibili, con le nostre Chiese, ad ascoltare ciò che lo Spirito vorrà suggerirci per una nuova evangelizzazione di queste terre, in vista del bene comune e nel dialogo con la cultura contemporanea. Si tratta, così, di ricentrare la vita delle nostre Chiese a partire dalla responsabilità personale dei pastori e, per la loro parte, dei fedeli, avendo di mira l’annuncio di Cristo. Per questo, anzitutto, ci si chiede come l’«educare alla vita buona del vangelo» possa avvenire in modo più efficace nelle chiese del Nordest; in una terra che, da sempre, svolge la funzione di ponte tra l’Est e l’Ovest, tra il Nord il Sud del mondo e, oggi, più che mai, è chiamata a svolgere tale missione.

E in ragione di questo, la Chiesa che è in Venezia è chiamata a far proprio ciò che scrive l’autore della lettera agli Ebrei quando, esortando i discepoli a una reale vita di fede, così si esprime: «corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Eb 12, 2). La nuova evangelizzazione, per essere realmente tale, suppone che la comunità evangelizzante sia, prima di tutto, rigenerata nel proprio rapporto vitale con Cristo; ogni cammino d’evangelizzazione ha inizio non con l’elaborazione di piani pastorali o progetti accademici delle facoltà teologiche, e neppure attraverso un’auspicabile copertura del territorio da parte dei media. Certo questi strumenti, per quanto di loro competenza, concorrono all’opera evangelizzatrice in modo eccellente, ma non costituiscono ancora il fondamento dell’evangelizzazione.

Sono infatti i discepoli, intesi personalmente e comunitariamente, che vengono prima degli uffici pastorali, prima delle facoltà teologiche, prima della rete mediatica; solo in un secondo momento tali strumenti diventano preziosi e, sul piano umano, oggi insostituibili per sostenere una reale missione evangelizzatrice; si tratta di strumenti a servizio di una comunità testimoniale di cui devono veicolare la tensione missionaria, esprimendola con i loro linguaggi e i loro approcci specifici. Prima di tutto, però, viene la comunità testimoniante che in nessun modo può essere surrogata o data per presupposta.

In merito il libro degli Atti degli Apostoli è esplicito e già nella sua struttura offre una preziosa indicazione che va esattamente in tale direzione; questo libro, che contiene la prima narrazione della storia della Chiesa e insieme fa parte dei libri normativi della fede, non lo si può comprendere in senso pieno senza il presupposto teologico e spirituale da cui consegue l’impegno missionario della Chiesa.

Tale presupposto, come sappiamo, è costituito dal dono dello Spirito Santo, ossia l’evento della Pentecoste; senza questo dono – compimento della promessa del Signore – noi non avremmo la Chiesa comunità evangelizzata ed evangelizzatrice.

È proprio il dono dello Spirito Santo che costituisce la Chiesa, trasformando un gruppo di discepoli impauriti nella comunità del Signore risorto. Prima degli annunci cherigmatici e delle catechesi degli apostoli, prima dei viaggi missionari e della fondazione delle Chiese particolari, il libro degli Atti narra l’evento di Pentecoste, evento dal quale si può comprendere il significato di ciò che in seguito verrà scandito pagina dopo pagina. La Pentecoste è in tal modo l’inizio della Chiesa: non soltanto in senso cronologico, ma essenziale-valoriale; tutto ciò che era accaduto prima del vento impetuoso che si abbatte gagliardo e delle lingue di fuoco che si posano sui presenti – come narra il libro sacro (cfr. At 2, 2-3) – è semplice preparazione, sono soltanto fatti che precedono; la Pentecoste è il vero evento che costituisce ed inaugura la Chiesa alla quale, in Gesù, sono chiamati tutti gli uomini di buona volontà.

Richiamo, a questo punto, la pagina lucana dei due discepoli di Emmaus perché in essa troviamo qualcosa che caratterizza la Chiesa di ogni tempo, quindi anche la nostra; è un’immagine estremamente significativa e, proprio per questo, va considerata fino in fondo, in tutte le sue implicanze teologiche, spirituali, pastorali e giuridiche. I due pellegrini – Cleopa e il compagno di strada – stanno camminando con Gesù risorto e sono tristi perché per loro è ancora morto; a un determinato momento pretendono addirittura di spiegare proprio a Lui che cosa era successo nei giorni precedenti in Gerusalemme a quel Gesù, profeta potente in parole e opere, di fronte a Dio e al popolo.

Pare di intravedere, in questo goffo tentativo, l’immagine di certa teologia, più volenterosa che
illuminata, tutta dedita all’ardua e improbabile impresa di salvare, attraverso le proprie categorie, Gesù Cristo e la sua Parola. Ma in questa immagine siamo rappresentati anche noi ogni qual volta, con i nostri piani pastorali, con i nostri progetti, convegni e dibattitti, avulsi da una vera fede, pretendiamo di spiegare a Gesù Cristo chi Egli è. Cleopa, il suo compagno di cammino e dopo di loro i discepoli di ogni tempo alla fine esprimono tutta la loro desolazione e la loro sfiducia nei confronti di Gesù e del suo operato; le parole dei due e l’uso del tempo imperfetto risultano inequivocabili: «noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni» (Lc 24, 21).

Quando la fede viene meno, o non è più in grado di sostenere e fecondare la vita dei discepoli, allora ogni discorso teologico, ogni piano pastorale o copertura mediatica appaiono insufficienti. E noi ci troviamo nella stessa condizione dei due discepoli di Emmaus, incapaci d’andar oltre le loro logiche, i loro stati d’animo, scoprendosi prigionieri delle loro paure. Teniamo conto di tutto ciò alla vigilia di Aquileia 2 e dell’incipiente anno della fede. Ma l’evangelista Luca ci insegna ancora che spezzare il pane con Gesù – l’Eucaristia – è il gesto irrinunciabile e specifico del realismo cristiano, attraverso cui i discepoli andranno oltre le loro soggezioni, suggestioni e paure.

In altre parole l’Eucaristia ci consegna – nel mistero – Gesù vivo e vero; quindi l’Eucaristia dev’essere, anche per noi, evento privilegiato del realismo cristiano. Luogo e momento in cui siamo chiamati ad andare oltre le nostre risorgenti incredulità e ad aprirci un varco alla “realtà intera” che non prescinde dalle vicende storiche ma va oltre di esse e, superando la parzialità della dimensione storica, ci consegna ad una prospettiva nuova, per cui si giunge ad un amore capace di verità e ad una verità sorretta dall’amore. Qui s’inserisce e acquista il suo senso vero il commiato liturgico che, fra poco, per la prima volta – attraverso la voce del diacono – ci scambieremo reciprocamente, vale a dire: «La messa è finita, andate in pace».

Nella celebrazione liturgica assunta nella nostra vita si dà il senso e la realtà ultima dell’Eucaristia, ovverossia l’umanità nuova che nasce dal Corpo dato e dal Sangue effuso, senza con ciò prescindere dalla realtà storica del momento presente: «Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista» (Lc 24, 30-31).

Impegnamoci come Chiesa che è in Venezia a ricordarci reciprocamente la ricchezza e la fecondità di tale realismo cristiano; il vescovo lo faccia in quanto vescovo, i presbiteri in quanto presbiteri, i diaconi in quanto diaconi, i consacrati come consacrati, gli sposi come sposi e spose. Realismo cristiano che, in quanto tale, è sempre e contestualmente rispettoso della molteplicità e delle distinzioni, ossia della sacralità come della laicità, e ciò, a scanso d’equivoci, sia detto e ripetuto. Il vero realismo cristiano promuove sempre l’umano come tale, ovunque lo incontra. Realismo che partendo da Gesù Cristo – unigenito del Padre e primogenito di una moltitudine di fratelli – ritorna a Cristo dopo aver incontrato e attraversato, in tutto il suo spessore e diversi gradi, la creaturalità dell’uomo.

Nell’Eucaristia, che è la carità di Cristo donata qui e ora, si dà la possibilità di rinnovare l’umanità stessa a partire dal rispetto dovuto ad ogni uomo e a tutto l’uomo; non si dà, quindi, carità vera se si prescinde dal rispetto della giustizia effettiva – distributiva e contributiva -, oltre ogni facile aggiustamento. Vogliamo infine includerci e includere quanto accennato nello scenario dell’anno della fede indetto da Benedetto XVI e che presto prenderà avvio e vedrà impegnata con forza la Chiesa che è in Venezia attraverso la corresponsabilità di tutti i suoi membri e secondo il loro specifico ecclesiale. Ci limitiamo ad una sottolineatura riguardante l’evangelizzazione della Chiesa stessa che deve crescere nella consapevolezza della fede per educarsi e porsi, senza arroganza ma anche senza timori o complessi d’inferiorità, in una testimonianza dialogica con le culture dominanti.

Ritorniamo, infine, al testo di Luca e vediamo come i due di Emmaus, senza frapporre indugio, fanno ritorno a Gerusalemme; e proprio loro che poco prima avevano liquidato come semplici fantasie di donne l’evento glorioso della Risurrezione, ora vogliono annunciare alla Chiesa nascente – Maria, gli Undici e gli altri con loro – che avevano niente di meno che incontrato il Signore Gesù lungo la strada e l’avevano riconosciuto nell’atto di spezzare il pane; ma loro malgrado sono preceduti da chi dice loro: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!» (Lc 24, 34).

E il realismo cristiano si riflette su quanto appartiene all’uomo, innanzitutto include il rispetto della vita sempre, senza condizioni; poi l’accoglienza, l’integrazione, la promozione della famiglia, cellula fondamentale della società umana, l’educazione che mira alla pienezza della libertà, il lavoro come diritto e dovere che tocca la dignità stessa dei lavoratori e delle loro famiglie soprattutto oggi, il bene comune con il contributo specifico della dottrina sociale della Chiesa, anche questi valori umani entrano negli scenari della vita risorta, sono i valori che stanno a cuore a una ragione amica della fede, valori che vicendevolmente s’illuminano e sostengono.

Pastore e fedeli, in un momento significativo per la vita della Chiesa di Venezia, si ritrovano oggi fiduciosi sotto il materno sguardo della Nicopeia, Colei che guida alla vittoria, e sono chiamati a dire il loro sì come Maria al momento dell’Annunciazione. Un sì pronunciato col cuore e la ragione, un sì personale e comunitario, un sì detto a Dio e agli uomini, nello spirito di Maria che si lascia condurre verso un Oltre che, fin d’ora, è tutta la nostra gioia.
Amen, così sia.

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ZENIT Staff

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