di Antonio D’Angiò
ROMA, domenica, 2 settembre 2012 (ZENIT.org).– A pochi giorni dalla comunicazione del Ministro dell’Istruzione sul prossimo concorso per l’immissione in ruolo di migliaia di nuovi insegnanti e dall’inizio del nuovo anno scolastico, la lettura dell’ultimo libro di Elena Ferrante, “L’amica geniale” (con sottotitolo “Infanzia, giovinezza”) edito dalla case editrice e/o ad ottobre 2011, è un utile percorso nella memoria, in particolare per i napoletani, per comprendere il ruolo del docente come altro genitore ed educatore per la vita.
La maestra elementare Oliviero, la professoressa del liceo classico Galiani, il maestro elementare Ferraro sono tratteggi di figure che, in un panorama di famiglie disgregate anche dalla miseria nella periferia napoletana del dopoguerra, spiccano per come cercano e sanno indirizzare la crescita culturale ed emotiva dei ragazzi, anche imponendosi al volere delle rispettive famiglie.
L’amica geniale è la storia di due bambine / adolescenti (sino a poco più di sedici anni, nate entrambe nello stesso mese di agosto dello stesso anno), Elena Greco (Lenù) e Raffaella Cerullo (Lila) le quali in simbiosi attraversano i primi anni della loro vita, anni che corrispondono a quelli immediatamente successivi alla conclusione del secondo conflitto mondiale.
In un popolare rione della periferia napoletana, convivono la miseria e la speranza di potervi uscire, anche grazie al nuovo clima sociale della ricostruzione, o attraverso lo studio o attraverso il commercio declinato tra imprenditorialità (pasticceria, salumeria, calzaturifici) e presunta illegalità.
In questa simbiosi è la passione per i libri e per la lettura (e qualche tentativo di scrittura) che le accomunerà per anni, anche quando Lila non proseguirà più gli studi, tenendole avvinghiate sino al momento in cui il matrimonio e il denaro non sembrano dividerne definitivamente il percorso.
Diciamo il percorso e non il destino perché non sappiamo come proseguirà Elena Ferrante la storia di quest’amicizia, perché il libro è solo il primo di una sequenza che sarà corposa e che si annuncia con l’analoga capacità di scandagliare l’animo umano, in particolare femminile nei rapporti familiari. Capacità già dimostrata dall’autrice ne “I giorni dell’abbandono” e ne “L’amore molesto”; altri due libri che hanno ottenuto anche una bella trasposizione cinematografica.
Lenù è dichiarata da Lila l’amica geniale, l’amica caparbia alla quale i professori assegnano tutti dieci all’esame di quinto ginnasio; è colei che scrive in flash-back il romanzo in ricordo di una Lila apparentemente sparita; è la studentessa che tra il quarto ed il quinto ginnasio legge durante la vacanza ischitana, vacanza impostale quasi a dispetto della sua famiglia dalla maestra Oliviero, “I fratelli karamazov” di Dostoevskij; l’amica che riesce a concludere in contemporanea anche gli studi di Teologia ed a contestare esplicitamente il professore di Religione (e con consenso sostanziale ma non nella forma verbale di una professoressa Galiani dichiarata comunista).
Lila, invece, non vuole e non riesce a proseguire gli studi nonostante sembri avere almeno la stessa genialità (e comunque notevoli doti artistiche – imprenditoriali nel creare nuovi modelli di calzature femminili) e probabilmente una superiore passione per la lettura dei libri e la scrittura di racconti, passione alimentata dal maestro in pensione Ferraro nella biblioteca di quartiere.
La mancata prosecuzione negli studi di Lila è così apostrofata a Lenù dalla maestra Oliviero, in una frase netta e inusuale per il vocabolario di un insegnante d’altri tempi, ma che segna il grande rammarico per il talento scolastico sprecato: “La bellezza che Cerullo aveva nella testa fin da piccola non ha trovato sbocco, Greco, e le è finita tutta in faccia, nel petto, nelle cosce e nel culo, posti dove passa presto ed è come se non ce l’avessi mai avuta”.
(Questi insegnanti descritti da Elena Ferrante, così sicuri del proprio ruolo, sono un contraltare ad un altro immaginario docente, Paolo, professore di storia e filosofia il quale, alla fine degli anni ’70, si trova ad affrontare il dramma di un figlio in carcere condannato per terrorismo brigatista, e peraltro irriducibile. Si chiede, Paolo, dopo una visita in carcere al figlio, quanto ci sia di sua responsabilità per averlo avvicinato alle idee del filosofo di Treviri – ndr: Marx -, ed aver visto la solidarietà che riscuoteva il figlio tra i suoi studenti migliori: “ho capito di essere un cattivo insegnante”. Così tratteggiato da Francesca Melandri, ne “Più alto del mare” edito da Rizzoli, e finalista stasera al Premio Campiello).