VENEZIA, martedì, 16 ottobre 2012 (ZENIT.org).- Anno della Fede: occasione per una fede non pigra e più matura.
Per la Chiesa di Venezia e per ogni persona, scrive il Patriarca all’inizio della Lettera, l’Anno della Fede è “una grazia, un’opportunità e un compito: desideriamo viverlo al meglio per ritrovarci, alla fine, più uniti nel Signore ed essere di più la Sua Chiesa”. E’ l’occasione per “crescere nella fede, essere più saggi e ricchi di quella sapienza che viene dall’alto e ci permette di camminare lungo le strade della nostra città e dei nostri paesi, là dove siamo mandati a testimoniare il Signore Gesù; per questo abbiamo bisogno di occhi che sappiano guardare oltre il momento presente e più liberi nel considerarlo secondo verità e giustizia”. E qui, osserva, “la questione decisiva, o “caso serio” nel nostro cammino verso una fede più matura, richiede di far nostre – senza interpretazioni di comodo – le pagine difficili del Vangelo, cominciando da quelle sul perdono”. Soprattutto, riprendendo l’esortazione dell’apostolo Paolo a Timoteo “bisogna non essere pigri nella fede ma saper scorgere, attraverso di essa, le meraviglie di Dio”.
La fede va condivisa. Con gli altri, con la Chiesa.
“La fede – sottolinea mons. Moraglia – non si esaurisce nell’atto personale del credere. L’affermazione “io credo” porta sempre con sé anche la dimensione comunitaria del credere, “noi crediamo”. La forma ecclesiale del credere è parte strutturale della fede. Noi, infatti, un giorno abbiamo ricevuto la fede da qualcuno o, almeno, da qualcuno siamo stati confermati in essa… Ciascuno di noi, analogamente, condivide la fede con chi gliel’ha annunciata e con quanti credono insieme a lui. Sì, la fede va condivisa con gli altri, o meglio con la Chiesa, all’interno della comunione del popolo di Dio che va intesa sempre come unione di fedeli e pastori”. Entra in gioco il tema, ineludibile, della dimensione comunitaria del credere: “Noi comunichiamo con gli altri credenti attraverso i contenuti della fede. Con linguaggio comune si dice che crediamo le stesse “cose”. Due persone che non si conoscono, che non appartengono alla stessa cultura e neppure parlano la stessa lingua ma credono in Gesù Cristo, comunicano tra loro, attraverso la fede, nelle cose più importanti. Condividono le risposte alle domande fondamentali dell’uomo: chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Chi mi garantisce oltre la mia fragilità? Che cos’è il bene? Che cos’è il male?”. E ancora: “Nella Chiesa ogni realtà è personale e allo stesso tempo comunitaria. Nulla è individuale, ad iniziare dalla fede che introduce l’uomo nel mondo di Dio e nell’alleanza tra Dio e l’uomo e degli uomini fra loro”.
Per una genuina vita di fede, per evitare i rischi della “fede fai da te”.
La dimensione comunitaria della fede, prosegue il Patriarca, “non solo non schiaccia l’io personale dei credenti ma fa in modo che l’io del singolo credente non cada in una pseudo-fede oggi molto di moda, una fede fai da te”, “rischio ricorrente per la nostra epoca segnata dall’individualismo che pretende di rinchiudere ogni cosa all’interno di un soggetto che, invece d’incontrare l’Altro, nella vicenda storica di Gesù di Nazareth, finisce per incontrare il proprio io o, ancor più, la cultura dominante del momento storico”. La dimensione pubblica della fede – che “si esprime secondo modalità e gesti pubblicamente rilevabili” e legati anche ad usi e costumi di una popolazione e di un territorio – porta con sé altre riflessioni: “Il rischio, soprattutto in epoche come la nostra, è confondere il patrimonio che esprime la grande Tradizione con un passato che non ha più la forza d’incidere sul presente dei singoli e delle comunità. Allora diventa oltremodo facile passare ad una fede che, nei fatti, non risponde più a una scelta di vita, a un preciso modo di pensare, di parlare e di agire ma, piuttosto, a un freddo conformismo a cui ci si consegna e aggrappa e del quale si ha bisogno per coprire le proprie insicurezze. Un altro pericolo consiste nel confondere l’elemento religioso dell’atto di fede con quello sociale/sociologico che può caratterizzare un particolare territorio o una determinata popolazione”. Mons. Moraglia aggiunge: “Anche gli antagonismi e le guerre di religione non sono contrasti intrinsecamente connessi ad una fede vera e autentica ma, piuttosto, possono appartenere alla vita, alla storia, alla cultura di un’etnia, di un popolo, di una società. Lo ribadiamo: non alla genuina vita di fede”.
Il progetto di Dio, Gesù Cristo e il Vangelo, i Dodici e… la Chiesa.
Sottolinea che il progetto di Dio, rivelato pienamente in Gesù Cristo, ha voluto appoggiarsi e fondarsi su Pietro, sui Dodici, ed ecco la Chiesa. “Il dono di una grazia straordinaria – spiega – è sempre possibile ma, comunemente, Dio offre la fede attraverso l’azione ordinaria della Chiesa. Ora, comportarsi come se Gesù Cristo non giungesse a noi attraverso la consueta, feriale, mediazione ecclesiale – Pietro, i Dodici, il popolo di Dio – è semplice utopia. Cristo – col suo Vangelo, il suo “buon annuncio” – ci raggiunge tramite la Chiesa e il suo ministero; fondamentale è l’esperienza personale dei Dodici e a partire dagli incontri che ebbero con il Maestro il giorno dopo il sabato. La Chiesa, negli uomini e nelle donne che la compongono, è la prima destinataria dell’annunzio cristiano per eccellenza: “Davvero il Signore è risorto!”. Poi, a sua volta, diventa il soggetto evangelizzante per antonomasia a cui compete l’onore e l’onere dell’annuncio… E’ attraverso la comunità dei credenti che noi incontriamo Dio e possiamo credere in Lui”.
L’esempio di Abramo: parla con Dio come un amico parla ad un amico.
Il Patriarca si sofferma poi a lungo sulla figura di Abramo, “padre della fede” ed “emblema del credente”. Lo definisce “il nuovo punto d’unità del progetto di Dio sugli uomini e sulla storia” che “ci viene incontro come personaggio reale e concreto, interlocutore del vero Dio, colui che parla con Dio come un amico parla ad un amico. Una fede intima ed insieme esigente plasma il volto interiore ed esteriore di Abramo e, dopo di lui, ne plasmerà la stirpe scolpendone il profilo naturale e soprannaturale”. Rileva il legame forte tra fede e preghiera: “L’uomo che crede non solo prega ma è colui che, nella preghiera, sa osare. E’ colui che non si tira indietro e non viene meno di fronte alla difficoltà del pregare. Abramo, nella sua preghiera, esprime la qualità della sua fede; la sua orazione appare semplice, immediata, diretta e, soprattutto, coraggiosa… Il modo in cui Abramo si volge al Signore anticipa l’insegnamento di Gesù circa l’immediatezza e semplicità della preghiera”. La preghiera di Abramo “presuppone una dimestichezza, una consuetudine, un’intimità, un’amicizia che gli permettono d’osare al di là di ogni logica umana”, il suo dialogo con Dio “si caratterizza per la franchezza, l’audacia, l’essenzialità, la fiducia. Abramo consegna la totalità del suo essere a Colui che riconosce come suo Signore, l’Onnipotente e, insieme, il Padre amorevole. Siamo dinanzi a un dialogo commovente, un dialogo possibile solo fra amici; in tale clima deve nascere, crescere e dipanarsi ogni vera preghiera”. Con tutta la sua esistenza “Abramo esprime l’immagine della porta della fede: una porta viva e reale che introduce gli uomini a una più intima vita di comunione con il Signore. Abramo raggiunge il culmine della fede come fiducia nel Dio che non può tradire anche quando tutto umanamente sembra venire meno. Solo in questo abbandono totale e fiducioso Abramo diventa pienamente l’amico di Dio”.
Maria, il sì completo a Dio e la fede come accoglienza di una storia.
Il Nuovo Testamento regala il decisivo “balzo in avanti” con Maria, la madre di Gesù: “In L
ei c’è finalmente, da parte della creatura, la possibilità del sì totale, il sì completo che prima era inimmaginabile. In Lei, per la prima volta, l’accoglienza della parola è talmente piena e integrale che la Parola diventa carne umana. L’incarnazione è evento escatologico oltre il quale non si può andare perché l’incarnazione è dono totale di Dio all’uomo e nell’incarnazione si dà il compiersi della creazione. La fede – oltre che fiducia, confidenza e abbandono – è anche accoglienza di una storia, accettazione della persona di Gesù Cristo che ci viene incontro dicendoci ciò che prima non sapevamo e donandoci ciò che prima non avevamo e non eravamo”. Si comprende, qui, che “la fede cristiana è risposta ad un evento, al suo realismo, alla sua verità, alla sua conoscibilità. La risposta del credente a Dio che si rivela – nell’Antico e nel Nuovo Testamento – è una risposta integrale, in cui l’uomo è totalmente coinvolto. A Dio che si rivela sta innanzi l’uomo nella totalità del suo essere – spirito, anima e corpo – e in questa totalità l’uomo è chiamato a rispondere a Dio che si dona”.
La fede ha dei contenuti: spazio al Catechismo, piena recezione del Concilio Vaticano II.
Mons. Moraglia invita a riprendere, nell’Anno della Fede, le quattro Costituzioni del Concilio Ecumenico Vaticano II (“Sacrosanctum Concilium” sulla liturgia, “Lumen gentium” sulla Chiesa, “Dei Verbum sulla Parola di Dio e “Gaudium et spes” sulla Chiesa nel mondo contemporaneo) e soprattutto il Catechismo della Chiesa Cattolica “in cui è trasfuso lo spirito e la lettera del Concilio Vaticano II” e che deve trovare “una più grande e cordiale accoglienza presso le nostre comunità ecclesiali”. In tal modo si compirà “un gesto concreto di recezione e di amore verso il Concilio Vaticano II”. Il Patriarca chiede espressamente “che tale impegno sia assunto da tutti, senza eccezioni, in modo particolare dai parroci e dai loro collaboratori… La piena recezione del Vaticano II chiede di promuovere nei cammini formativi, personali e comunitari, il Catechismo”. Oggi più che mai, infatti, “le nostre comunità sono chiamate a vivere ed esprimere un insegnamento sicuro, una dottrina sana, radicata nella fede della Chiesa”.