"La notte dell'oblio", di Lia Levi

Una lente letteraria, nelle vicinanze del perdono

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di Antonio D’Angiò

ROMA, sabato, 20 ottobre 2012 (ZENIT.org) – La Casa Editrice in queste settimane, tramite Lia Levi (1) con La notte dell’oblio, continua la narrazione delle storie di donne negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, com’è già avvenuto con l’opera di Elena Ferrante, L’amica geniale nel 2011 e Storia del nuovo cognome da pochi giorni.

La notte dell’oblio, attraverso un tratto di storia di una decina d’anni circa (dall’estate del ’43 ai primi anni ’50), pone al centro della scena una madre (Elsa) e le sue due figlie (Milena e Dora) con le loro trepidazioni e sofferenze causate dalla scomparsa rispettivamente del proprio marito / padre (Giacomo), saputo poi deportato in un Lager.

La famiglia Vivanti, ebrea, è accolta da un sacerdote nella casa parrocchiale di un piccolo comune nelle vicinanze di Roma per fuggire alle deportazioni razziali. Da uno dei periodici viaggi nella Capitale per controllare l’andamento del negozio e acquisire un poco di denaro, Giacomo non ritornerà più.

Una storia il cui dipanarsi permette al lettore di collocare i sentimenti personali dei protagonisti all’interno di importanti passaggi storici quali la Resistenza, la Liberazione, la nascita dello Stato di Israele, le elezioni del 1948, la voglia di ricostruzione di quegli anni, alcuni riferimenti alla Cassa del Mezzogiorno.

In questo filo rosso della Storia, le tre donne, ognuna a suo modo, vogliono dimenticare la tragedia della guerra e della loro solitudine affettiva per l’assenza di Giacomo. Voglia di dimenticare, che altro non sembra essere che l’effetto intimo dell’amnistia togliattiana.

In questa centralità femminile, agli uomini è riservata nella narrazione, la dimensione più pubblica e apparentemente più combattiva; sia essa si manifesti nella partecipazione alla Resistenza, sia nella fede comunista in attesa della rivoluzione, sia nella difesa del nascente stato di Israele per le giovani generazioni ebraiche lontane dalla nuova terra.

La Levi in questa saga al femminile, dispone un saggio protagonismo anche per le mamme di Elsa e Giacomo, facendole diventare entrambe partecipi all’avventura artigianale della piccola sartoria di abiti matrimoniali creata da Elsa e, in qualche modo, legando tre generazioni di donne.

In quest’apparente dicotomia tra ruolo pubblico maschile e più intimo e privato femminile, quasi a ripercorrere l’eterna tragedia di Antigone, la Levi tratteggia una serie di figure che fanno da intercapedine emotiva all’interno della narrazione. Si segnala in questo il marito di Milena con la sua vicinanza senza amore dopo pochi mesi di matrimonio; il sacerdote con la cura cristiana agli ebrei e una segreta speranza di conversione per i suoi ospiti; il giovane pittore Amedeo diviso tra l’opera artistica e la necessità di vivere dipingendo quadri su commissione.

Sarà Dora, la sorella minore ma rispetto alla primogenita Milena più dinamica sia dal punto di vista degli studi (si laurea in Lettere), sia delle relazioni sociali (lavora anche part-time in una associazione ebraica), anche più autonoma affettivamente dalla mamma (con un legame particolare con la nonna paterna che vive a Ginevra) a scoprire la verità sulla morte del padre e sul tradimento subìto.

Verità che riporta indietro (e nel profondo) le tre donne al momento della scomparsa di Giacomo e che rende assordante il silenzioso dolore degli anni trascorsi senza di lui. Silenzioso dolore, soprattutto da parte di Elsa, che non ha significato oblio e che ha declinato, nel suo vissuto ebraico, l’idea di perdono.

Su questa conclusione e sull’atteggiamento di Elsa, la Levi rende così viva dal punto di vista letterario la riflessione sul perdono fatta da grandi filosofi come Arendt e Ricoeur e che si ritrovano sinteticamente esaltati nel recente libro Hannah Arendt. Un ritratto controcorrente scritto da Marie Luise Knott, edito da Raffaello Cortina Editore, nel capitolo intitolato “Riapprendere il perdono”.

Per la Arendt le azioni restano e non devono più frapporsi tra gli individui, per Ricoeur il perdono deve coincidere con l’oblio ma non con l’oblio dei fatti, i quali restano incancellabili, bensì con l’oblio del loro significato, da quel momento in poi.

Perché, come ci consegna la Levi in uno dei passaggi finali più coinvolgenti, è al traditore “che gli si è ammalato il carattere”.

*

NOTE

(1) Lia Levi, di famiglia piemontese, vive a Roma, dove ha diretto per trent’anni il mensile ebraico Shalom. Nel 2012 le è stato conferito il Premio Pardès per la Letteratura Ebraica.

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ZENIT Staff

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