"Redemptoris Missio" e la crisi della "missio ad gentes"

L’enciclica di Giovanni Paolo II ha confermato l’Ad gentes, in un momento in cui difficoltà esterne e interne avevano indebolito lo slancio missionario della Chiesa

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di padre Piero Gheddo, del Pime

ROMA, domenica, 21 ottobre 2012 (ZENIT.org) – Nel 1990, venticinque anni dopo l‘approvazione del Decreto conciliare Ad Gentes nel 1965, Giovanni Paolo II pubblica l’enciclica “Redemptoris Missio”, contestata da non pochi nella Curia vaticana prima che uscisse. Dicevano: “L’enciclica è troppo solenne, può bastare una “lettera apostolica”, come per l’anniversario di altri testi conciliari”.

Invece il Papa ha voluto un’enciclica per colmare una lacuna e confermare autorevolmente l’Ad gentes. La lacuna era questa: l’Ad Gentes, considerato secondario nel quadro del Vaticano II (ha rischiato di essere abolito, come ho scritto), non aveva avuto il tempo di essere discusso e di rispondere a tutte le richieste dei padri conciliari dalle missioni: è un testo molto bello, ma affrettato, incompleto.

La R.M. è stata sottovalutata nella Chiesa, da teologi, missiologi, riviste missionarie, perché considerata come la conferma dell’Ad Gentes; quindi, si diceva, non dice niente di nuovo e “non ha il fascino di documenti precedenti”.  In realtà, la R.M., certamente voleva confermare l’Ad Gentes, ma anche, secondo la volontà di Giovanni Paolo II (e posso ben dirlo avendo incontrato parecchie volte il Papa mentre preparavo le tre stesure del documento, ottobre-dicembre 1989, marzo e luglio 1990), intendeva trattare temi che al Vaticano II erano stati esaminati affrettatamente o addirittura ignorati.

Ad esempio, “La missione è appena agli inizi, rivolgere l’attenzione verso il sud e l’Oriente” (n. 40), “Incarnare il Vangelo nelle culture dei popoli” (nn. 52-54), “Il dialogo con i fratelli di altre religioni” (tema che non c’è, ad esempio, nella “Evangelii Nuntiandi”, nn. 55-57), “Promuovere lo sviluppo educando le coscienze” (nn. 58.-59, testo assolutamente nuovo e rivoluzionario nel trattare il tema “Vangelo e sviluppo”), “Sacerdoti diocesani per la missione universale” (nn. 67-68), “Non solo dare alla missione ma anche ricevere” (n. 85), “Dio prepara una nuova primavera del Vangelo” (n. 86), Le “giovani Chiese sono la speranza (missionaria) della Chiesa universale” (n. 91), il trattato su “La spiritualità missionaria” (Parte VIII°, nn. 87-91), ecc.

Giovanni Paolo II all’inizio dell’enciclica “Redemptoris Missio” (1990) afferma di voler rilanciare la missione alle genti, pur rilevando gli effetti positivi del Concilio sull’attività missionaria (n. 2): “Molti sono stati i frutti missionari del Concilio: si sono moltiplicate le Chiese locali fornite di propri vescovi, clero e personale apostolico; si verifica un più profondo inserimento delle comunità cristiane nella vita dei popoli; la comunione fra le Chiese porta ad un vivace scambio di beni spirituali e di doni; l’impegno evangelizzatore dei laici sta cambiando la vita ecclesiale; le Chiese particolari si aprono all’incontro, al dialogo e alla collaborazione con i membri di altre Chiese cristiane e religioni. Soprattutto si sta affermando una coscienza nuova: cioè che la missione riguarda tutti i cristiani, tutte le diocesi e parrocchie, le istituzioni e associazioni ecclesiali”.

Ma poi il Papa continua rilevando quello che molti missionari sul campo lamentano, spesso con acuta sofferenza (n. 2): “Tuttavia, in questa “nuova primavera” del cristianesimo, non si può nascondere una tendenza negativa che questo documento vuol contribuire a superare: la missione specifica ad gentes sembra in fase di rallentamento, non certo in linea con le indicazioni del Concilio e del magistero successivo. Difficoltà interne ed esterne hanno indebolito lo slancio missionario della Chiesa verso i non cristiani ed è un fatto, questo, che deve preoccupare tutti i credenti in Cristo. Nella storia della Chiesa infatti, la spinta missionaria è sempre stata segno di vitalità, come la sua diminuzione segno di una crisi di fede”.

Quali le “difficoltà interne ed esterne” che hanno rallentato lo slancio missionario della Chiesa? Molte e di vario tipo; queste, ad esempio: chiusura di vari paesi ai missionari stranieri; rafforzamento di nazionalismi, religioni e culture non cristiane; guerre, guerriglie e persecuzioni anti-cristiane; approfondimento del solco (o abisso) fra popoli cristiani e non cristiani (Nord e Sud del mondo); non facile integrazione fra vescovi- sacerdoti locali e missionari stranieri; nuove priorità che hanno sostituito il primo annunzio: promozione umana dei popoli, dialogo interreligioso, ecc.

In Italia, secondo la mia esperienza, la decadenza dell’ideale missionario è dovuta, oltre alla crisi della fede e della vita cristiana, alla perdita d’identità della “missione alle genti” e alla conseguente confusione di voci nella produzione teologica e nella pubblicistica cattolica e missionaria.

La “Redemptoris Missio” sintetizza bene questo periodo di confusione terminologica e concettuale (n. 32): “Il cosiddetto rientro o rimpatrio delle missioni nella missione della Chiesa, il confluire della missiologia nell’ecclesiologia e l’inserimento di entrambe nel disegno trinitario di salvezza, hanno dato un respiro nuovo alla stessa attività missionaria, concepita non già come un compito ai margini della Chiesa, ma inserito nel cuore della sua vita, quale impegno fondamentale di tutto il popolo di Dio. Occorre però guardarsi dal rischio di livellare situazioni molto diverse e di ridurre, se non far scomparire, la missione e i missionari ad gentes. Dire che tutta la Chiesa è missionaria non esclude che esista una specifica missione ad gentes, come dire che tutti i cattolici debbono essere missionari non esclude, anzi richiede, che ci siano i “missionari ad gentes e a vita” per vocazione specifica”.

 Il pontificato di Giovanni Paolo II era orientato verso il mondo intero, come scriveva lui stesso (R.M. 1): “Già dall’inizio del mio Pontificato ho scelto di viaggiare fino agli estremi confini della terra per manifestare la sollecitudine missionaria e proprio il contatto diretto con i popoli che ignorano Cristo mi ha ancor più convinto dell’urgenza di tale attività, a cui dedico la presente enciclica”.

Anche la Conferenza Episcopale italiana (CEI) ha dato direttive forti per sollecitare diocesi e parrocchie a mettersi in una linea di impegno missionario. Ricordo solo alcuni testi significativi durante il Pontificato di Giovanni Paolo II:       

– “L’impegno missionario della Chiesa italiana” (25 marzo 1982), 25 anni dopo la Fidei Donum: è il primo, ottimo Direttorio per le diocesi e i centri missionari diocesani.

– “L’impegno missionario dei sacerdoti diocesani italiani” (21 aprile 1982), nota pastorale sui “sacerdoti fidei donum” italiani (allora 1.200).

– “Comunione e comunità missionaria” (22 giugno 1986) dopo il Convegno di Loreto del 1985, per promuovere la “nuova missionarietà” e orientare le scelte delle diocesi verso la missione universale.

– “Gli istituti missionari nel dinamismo della Chiesa italiana” (10 febbraio 1987) che riafferma la validità degli istituti missionari e delle congregazioni religiose aventi missioni, testo molto bello e giusto riconoscimento delle forze missionarie che realizzavano la missione alle genti ben prima della “Fidei Donum”.

– “I laici nella missione ad gentes e nella cooperazione tra i popoli” (25 gennaio 1990) per orientare l’accresciuta presenza dei laici italiani nelle missioni e nella cooperazione missionaria (a metà degli anni ottanta erano cica 1.800).

– “L’amore di Cristo ci sospinge – Lettera alle comunità cristiane per un rinnovato impegno missionario” (4 aprile 1999), credo il miglior documento della Cei sulla missione alle genti.

Ma osservando le riviste e i libri, i congressi, le campagne di enti e organismi missionari, a volte viene da chiedersi se quel documento è conosciuto e vissuto. Diciamo la verità. La gravissima diminuzione delle vocazioni m
issionarie in Italia viene dalla decadenza della famiglia e della società italiana ed è parallela alla crisi delle vocazioni sacerdotali e religiose che tutti lamentano; ma dipende anche da come la figura del missionario e della «missione alle genti» è presentata.

Trent’anni fa si facevano le veglie e le marce missionarie facendo parlare i missionari sul campo, chiedendo a Dio più vocazioni per la missione alle genti e provocando i giovani a offrire la loro vita per le missioni. Oggi prevale la mobilitazione su temi quali la vendita delle armi ai paesi poveri, la raccolta di firme contro il debito estero dei paesi africani, l’acqua bene pubblico, la deforestazione, ecc.

Quando temi come questi acquistano il maggior peso nella “animazione missionaria”, è inevitabile che  il missionario ad gentes diventi a poco a poco un operatore sociale e politico. In una cittadina lombarda, nel 2006 la veglia della Giornata missionaria mondiale è consistita in una marcia dal centro cittadino ad una fabbrica di armi in periferia, per protestare contro quell’industria nazionale: ma questo è un tema della missione alle genti?

Oggi, nell’animazione missionaria (impegni di gruppi, libri, riviste) prevalgono la denuncia, la critica e la protesta a discapito della testimonianza personale, di valori quali il dono della vita per il Vangelo e, in ragione di quello, l’impegno per un mondo più giusto e a misura di uomo.

Nella Redemptoris Missio si legge (n. 79): «La promozione delle vocazioni missionarie è il cuore della cooperazione alle missioni: l’annunzio del Vangelo richiede annunziatori, la messe ha bisogno di operai: la missione si fa anzitutto con uomini e donne consacrati a vita al Vangelo, disposti ad andare in tutto il mondo per portare la salvezza».

Chiedo: è mai pensabile che un giovane o una ragazza si sentano attirati a diventare missionari, se vengono educati a fare denunce e proteste, a raccogliere firme contro le armi o il debito estero? Per avere più vocazioni missionarie occorre affascinare i giovani al Vangelo e alla vita missionaria, fare in modo che si innamorino di Gesù Cristo, l’unica ricchezza che abbiamo. Tutto il resto viene di conseguenza.

In Italia, l’orizzonte propriamente religioso della missione sta oscurandosi, a favore di un orizzonte sociale, culturale e politico. È la Parola di Dio che salva, non i nostri «progetti» umani, non le nostre ideologie, non il denaro o la protesta contro le ingiustizie o qualsiasi progetto politico di «rivoluzione» per portare la pace e la giustizia. Non basta cambiare le leggi (bisogna farlo, ma non basta!), occorre cambiare il cuore dell’uomo, rendendolo da egoista altruista: questo il progetto cristiano di liberazione: creare l’«uomo nuovo» secondo il modello di Gesù.

La Conferenza dei vescovi latino-americani a Puebla (1979) dice: «Il miglior servizio al fratello è l’evangelizzazione, che lo dispone a realizzarsi come figlio di Dio, lo libera dalle ingiustizie e lo promuove integralmente». Questa è anche l’esperienza dei missionari sul campo e delle giovani Chiese.

Il missionario, gli istituti e i vari enti e gruppi missionari hanno dalla Chiesa il mandato di annunciare Cristo, convertire i cuori con la grazia di Dio, portare la «rivoluzione del Vangelo» che sviluppa l’uomo e la società umana. Quando più si mantengono fedeli al loro carisma, tanto più sono credibili ed evangelizzano; quando più si allontanano da questo orizzonte di salvezza soprannaturale, sposando ideologie e progetti umani, tanto più diventano spiritualmente sterili.

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ZENIT Staff

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