Al paragrafo 55 dell’enciclica Lumen Fidei c’è una domanda aperta e inquietante che provoca una profonda riflessione: “Ci vergogneremo di Dio in pubblico?”. Tale quesito dovrebbe interrogare ogni cattolico, anzi ogni cristiano di diversa denominazione. L’enciclica di Papa Francesco, scritta a quattro mani con il Papa emerito Benedetto XVI, afferma che Dio non si vergogna di essere chiamato in pubblico, ed infatti “prepara per loro una città” (Eb, 11-16). “Saremo forse noi a vergognarci di chiamare Dio il nostro Dio?” si legge, “saremo noi a non confessarlo come tale nella nostra vita pubblica, a non proporre la grandezza della vita comune che Egli rende possibile?”.
E’ del tutto chiara la cesura totale che questa domanda pone ad una visione fideistica e materialista della fede cristiana. La Lumen Fidei, come del resto tutta la Dottrina Sociale della Chiesa, ribadisce che senza Dio non si può costruire una città terrena che sia pienamente umana.
Difatti la fede cristiana non è solo un “cammino”, ma anche una “costruzione”, di una fede incarnata e responsabile verso Dio e i fratelli. “La fede rivela quanto possono essere saldi i vincoli tra gli uomini, quando Dio si rende presente in mezzo ad essi” (n. 69). “La fede fa comprendere l’architettura dei rapporti umani, perché ne coglie il fondamento ultimo e il destino definitivo in Dio e così illumina l’arte dell’edificare, diventando così un servizio al bene comune”.
Questa affermazione prevede un ruolo pubblico della fede che deriva dalla centralità di Dio anche nella costruzione della società. “Quando questa realtà viene oscurata, viene a mancare il criterio per distinguere ciò che rende preziosa e unica la vita dell’uomo” (n. 54); “quando la fede viene meno, c’è il rischio che anche i fondamenti del vivere vengano meno … Se togliamo la fede in Dio dalle nostre città, si affievolirà la fiducia tra noi, ci terremo uniti soltanto per paura e la stabilità sarebbe minacciata” (n. 55).
“Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. Ha preparato infatti per loro una città” (Eb. 11-16). L’espressione dell’enciclica, “non vergognarsi” è coniugata con il riconoscimento pubblico. In altre parole la Lumen Fidei suggerisce che Dio si manifesta pubblicamente nella storia dell’uomo con il suo agire concreto, la sua presenza tra noi, il suo desiderio di fondare i rapporti tra gli uomini sull’amore.
Ma se Dio non si vergogna dell’uomo, saremo forse noi a vergognarci di far presente, testimoniare nella nostra vita e nella vita pubblica Dio, il Dio di Gesù Cristo? “Saremo noi a non confessarlo come tale nella nostra vita pubblica, a non proporre la grandezza della vita comune che Egli rende possibile?” scrive il Santo Padre.
Le parole del Pontefice richiamano le parole di San Paolo: “Io non mi vergogno del Vangelo” (Rm 1, 16). Perché nell’epoca della postsecolarizzazione il cristiano di norma è latitante. Ed è questa normalità latitante che rischia di farci “vergognare di Dio” e rendere latitante il Vangelo nella nostra società.
Ma l’Apostolo nella lettera ai Romani, assicurandoli di essere pronto a predicare il Vangelo a Roma, afferma: “Io non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede”. Questa lettera è rivolta alla Chiesa di Roma! Se san Paolo si fosse vergognato di predicare Cristo nella capitale dell’Impero, chissà se oggi Roma sarebbe cristiana, chissà se lo sarebbe Parigi, Nairobi, Lima, Rio de Janeiro e via dicendo! Dovremmo parlare la lingua di Paolo! Dovremmo dire: ‘Non mi vergogno del Vangelo, non mi vergogno del Dio di Gesù Cristo e sono pronto a predicarlo a questa generazione, in questa città, sul posto di lavoro, nella scuola, nel mio condominio, in casa’.
Purtroppo diverse correnti filosofiche e ideologiche hanno avuto presa anche tra i cristiani: ci fanno respirare e vedere come questa “vergogna” – ampiamente teorizzata e messa in atto – mostra i suoi frutti che possiamo sintetizzare con l’espressione di Hannah Arendt, la “banalità del male”. Difatti vergognandoci di Dio, nessuno di noi può affermare la propria estraneità assoluta al male che un altro essere umano è stato capace di compiere. Gli orrori (non ultimi quelli in Siria), che sovente ci affrettiamo a definire “inumani”, “bestiali” – quasi a volerli esorcizzare – sono in realtà alla portata di uomini e donne come noi. Sono, per riprendere nuovamente un espressione della Genesi, “accovacciati alla nostra porta”.