Né vagabondi né turisti, ma pellegrini

Intervista con fra Paolo Martinelli in occasione del “Festival francescano”, in programma a Rimini dal 27 al 29 settembre 2013

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«Cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé». San Francesco d’Assisi non aveva certo letto Il cammino dell’uomo di Martin Buber (Qiqajon 1990), ma altrettanto certamente ha camminato «trascendendo» se stesso. 

Ne parla il manifesto del Festival Francescano 2013, redatto tra gli altri da fra Paolo Martinelli, cappuccino, preside dell’Istituto francescano di spiritualità all’Antonianum di Roma.

Msa (Messaggero di sant’Antonio). Che cosa significava camminare per san Francesco?

Martinelli. Nella sua esperienza e in quella dei francescani, camminare è segno dell’itineranza, cioè della vita come itinerario, con una meta e una destinazione: il mondo va attraversato, non perché negativo, ma perché non è il fine ultimo. Per certe filosofie l’universo stesso è negativo, ma non così in Francesco. Basti pensare al Cantico di frate Sole: l’esistenza terrena, per quanto segnata dal peccato, è voluta da Dio.

Attraversare significa non fermarsi.

Sì, non bloccarsi: l’assetto migliore per abitare il mondo è attraversarlo, vivendo tutte le circostanze dentro una prospettiva ultima. Il cammino è sempre sentito come anticipo del sapore della meta, dove le cose sono belle proprio perché portano altrove.

La meta perciò è oltre questa vita.

Decisamente. L’esistenza francescana ha un valore escatologico, che non significa automaticamente l’aldilà: ciò che viviamo ha un senso che va oltre l’immediato.

Lei ha citato l’aldilà: spesso è rappresentato come immobile e fisso. Nulla a che fare col «cammino» quindi…

Siamo eredi di una cultura che ha separato l’elemento storico dal soprannaturale, quindi anche l’aldilà è presentato come imponderabile, statico e astratto. Fosse così, sarebbe anche poco desiderabile… Invece sono proprio i santi a darci una percezione estremamente vitale e vivente di Dio, per cui il cammino che l’uomo percorre nell’esistenza in qualche modo anticipa l’esistenza in Dio, che è vita in sé. Dio è la massima profondità di tutto ciò che sperimentiamo nel mondo, proprio perché ne è l’origine e ne è il destino. L’idea stessa della trinità, di un Dio che è comunione, evento eterno di amore, ha una radicale attrattiva vitale. Crea il mondo come esuberanza di vita, come libertà che si partecipa.

Anche i cristiani sono accusati di «immobilismo». Di ogni cammino di pellegrinaggio si evidenzia che sì, lo percorrono i cristiani, ma poi anche le persone in ricerca, come se un cristiano non cercasse più nulla.

<p>La realtà paradossalmente è proprio il contrario. Aver scoperto la risposta offerta da Dio fa capire ancora di più la domanda, ma non chiude affatto la partita, che è continuamente ridestata dall’incontro con il Signore. Sant’Agostino lo aveva capito: la ricerca dell’uomo nei confronti di Dio è continuamente aperta, perché Egli è infinito, non diventa mai un «concetto» da mettersi in tasca.

Il manifesto del Festival individua tre modi di camminare: da vagabondo, da turista e da pellegrino. Quali le differenze?

Il vagabondo è senza meta; il turista conosce la meta, ma non si lascia cambiare dal viaggio. Solo il pellegrino intercetta la traiettoria del desiderio profondo, restando fedele al cuore dell’uomo. A questa dimensione antropologica comune a tutti, il cristiano aggiunge un elemento: il pellegrinaggio dice il vero rapporto con Cristo, colui che devi sempre seguire e rincontrare.

Come coltivare uno spirito da pellegrini nella quotidianità?

Attraverso la povertà, che è custode dello spirito dell’itineranza. Povertà è camminare leggeri sul reale. L’alternativa è bloccarsi sulle cose e farne una falsa meta. Se ci avventiamo sulle cose, aspettandoci ciò che non possono darci, alla fine il cammino diventa pieno di delusioni. 

di Alberto Friso 

Per info: www.festivalfrancescano.it        

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ZENIT Staff

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