La "primavera araba" ha portato l'Isis in Libia

Paolo Sensini, storico e autore di un saggio sulla guerra contro Gheddafi del 2011, analizza la situazione odierna del Paese risalendo alle radici della crisi

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“Avrete Bin Laden alle porte, ci sarà una jihad di fronte a voi, nel Mediterraneo”. Più che il colpo di coda dialettico di un dittatore ormai braccato, questo avviso che Mu’ammar Gheddafi lanciò nella sua ultima intervista – rilasciata nel 2011, pochi mesi prima di essere ucciso – appare oggi come una profezia. Miliziani che sfilano sotto le insegne dello Stato islamico avanzano nel Paese, mentre giornali italiani titolano preoccupati: “L’Isis è a sud di Roma”. Di cosa accade in Libia e di quali scenari potrebbero aprirsi, ZENIT ne ha parlato con Paolo Sensini, storico e autore dei libri Libia 2011 (ed. Jaca Book) e Divide et Impera – Strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente (ed. Mimesis).

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Chi sono i miliziani che hanno alzato la bandiera nera dell’Isis in Libia?

Sono gli stessi che nel 2011 – spalleggiati in tutto e per tutto da Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e poi anche dall’Italia – hanno compiuto la cosiddetta “primavera araba”. Queste persone che oggi rappresentano uno “spauracchio” venivano descritti nel 2011 come coloro che stavano portando in Libia la democrazia. Costoro, più o meno nell’ordine di un milione di persone armate fino ai denti, si stanno ora contrapponendo gli uni agli altri per guadagnare quanto più potere possibile. Oggi si parla tanto di Isis, ma in Libia esiste da tempo una miriade di sigle riconducibili tutte all’islamismo fondamentalista. La bandiera nera di al Qaeda è stata issata nei giorni in cui veniva ucciso Gheddafi: durante la rivolta sventolava sul Palazzo di Giustizia di Bengasi e sulla città di Derna, dove era stato istituito un Califfato. Nel tempo queste forze non hanno fatto altro che radicalizzarsi.

Qual è la situazione odierna?

Quello che ora sembra di vedere è l’incapacità del governo di Tobruk, cioè quello riconosciuto dall’Occidente e presieduto da Abdullah al-Thani, di gestire la situazione di totale caos. Di qui il suo tentativo di creare quanto più allarmismo possibile per coinvolgere nell’intervento militare anche i Paesi occidentali oltre che l’Egitto.

Intervento che potrebbe coinvolgere anche l’Italia?

Sarebbe una follia, per l’incapacità di gestire una situazione che vede sul terreno circa un milione di persone armate, disposte anche a portare avanti una guerriglia che troverebbe l’esercito italiano impreparato. E poi dovrebbero essere le Forze armate che hanno causato il disastro libico a farsi carico della situazione: innanzitutto la Francia. L’Italia non può sempre arrivare a “togliere le castagne dal fuoco”. Piuttosto, l’Italia dovrebbe fermare il flusso migratorio che proviene da quell’area: rispedendo verso le coste libiche i barconi carichi di immigrati dopo aver curato le persone più gravi. Così neutralizzerebbe la tratta di esseri umani e non alimenterebbe le ricchezze che i miliziani traggono dai disperati.

Dalle dichiarazioni che giungono da Palazzo Chigi appare comunque che la soluzione militare sia considerata una “extrema ratio”. Preliminarmente si stanno contemplando ipotesi diplomatiche, tra cui la nomina di Romano Prodi a mediatore Onu…

Romano Prodi era tra coloro che nel 2011 esercitarono pressioni verso un Berlusconi tentennante per spingere l’Italia in guerra. La prima responsabilità è però del presidente Napolitano, il quale, nonostante avessimo un accordo di amicizia con Gheddafi siglato nel 2008 e che contemplava addirittura l’intervento militare al fianco della Libia nel caso in cui fosse attaccata, sospinse con forza l’entrata dell’Italia in guerra. Non è il caso di affidarsi a chi ha provocato quel guaio, oggi testimoniato dalle condizioni in cui versa la Libia.

Mons. Martinelli, vicario apostolico di Tripoli, in un’intervista al Corriere della Sera ha affermato che con Gheddafi c’erano anche “scambi di amicizia” ed era una personalità che “non faceva paura”…

Gheddafi, pur non avendo nel 2011 nessuna carica politica ma solo in virtù della sua grande capacità di leadership, gestiva le risorse del proprio Paese (petrolio, gas, acqua…) nella più totale autonomia e nell’ambito di una cooperazione con l’Italia. La cosa era per nulla gradita a potenze come Francia e Gran Bretagna, che ambivano ad avere maggiore influenza in Libia. C’è poi da dire che Gheddafi aveva la capacità di gestire la Libia laicamente e non su criteri confessionali, come invece fanno le potenze alleate dell’Occidente nei Paesi del Golfo provocando evidentemente l’approvazione occidentale. Questi i motivi reali che portarono all’intervento militare del 2011.

Concretamente quali danni ha subito l’Italia dalla guerra del 2011 e cosa rischia oggi, alla luce dell’aggravarsi della crisi libica?

I danni subìti sono enormi. Basti pensare che l’Eni ha avuto una diminuzione da un milione e mezzo di barili prodotti in Libia ogni giorno a 150mila. Poi vi è tutto un interscambio di infrastrutture, contemplato nell’accordo di cooperazione siglato nel 2008, che è venuto meno. Si tratta di una serie di immobili che avrebbero costruito compagnie italiane, ma su tutti spicca il progetto dell’edificazione di una strada litoranea che avrebbe dovuto duplicare la via Balbia, che era già stata costruita durante il ventennio fascista. Oggi il rischio è sotto i nostri occhi: l’afflusso di migliaia di clandestini che arrivano sulle nostre coste malgrado l’Italia non sia più nelle possibilità di assorbire immigrati. Cosa, quest’ultima, che la Libia faceva: era un Paese di 6milioni di abitanti che ospitava circa 2milioni di neri sub-sahariani. Oggi invece, a causa di quella sciagurata “primavera araba”, chi gestisce queste situazioni sono i miliziani che hanno dato vita a una vera e propria tratta di esseri umani.

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Federico Cenci

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