“L’illusione che le risorse della tecnica siano sufficienti a sconfiggere ogni male ha portato il nostro mondo all’asfissia della vita, soffocata dal fare e dall’avere. Ma ora l’ottimismo di un progresso senza fine ha lasciato il posto al ripiegamento su se stessi”. Sono parole estratte dal Progetto Culturale orientato in senso cristiano, emanato nel 1997 dalla Conferenza Episcopale Italiana. Parole che, all’epoca, erano in assoluta controtendenza, perché il modello vincente era quello del “pensiero unico” basato sull’individualismo e le logiche di mercato.
A distanza di nemmeno vent’anni, emergono le contraddizioni di quel modello “vincente”: fenomeni di inusitata violenza – dal nuovo schiavismo alla disoccupazione di massa – stanno riportando indietro le lancette della storia, e l’illusione consumistica si è trasformata nel suo drammatico opposto.
Abbiamo citato le parole del Progetto Culturale ma avremmo potuto citarne molte altre, estratte dai documenti pontifici o dai discorsi dei grandi pensatori della Chiesa. La sostanza non cambia. Sono a confronto due diverse impostazioni concettuali: l’una – quella materialista e laica – basata sulle circostanze contingenti, con una prospettiva temporale di pochi anni, se non addirittura di pochi mesi; l’altra – quella spirituale e religiosa – che analizza le radici profonde che presiedono all’esperienza umana, e prefigura le conseguenze scaturenti da determinate scelte di vita e di pensiero.
Questo dualismo si ripropone oggi nel dibattito sulla famiglia che ruota intorno al Sinodo. Da un lato, i portatori di interessi settoriali, che vorrebbero dalla Chiesa pronunciamenti in linea con i costumi emergenti e gli umori di un’opinione pubblica influenzata dai mass-media. Dall’altro, i padri sinodali, chiamati a contemperare la doverosa attenzione agli aspetti umani e pastorali con la fedeltà ai principi naturali e verità di fede, che non possono essere “negoziati” sulla base di convinzioni ed interessi contingenti.
Una domanda, dunque, sorge spontanea: la famiglia è un valore assoluto oppure relativo? È una cellula di base dell’organizzazione sociale e della crescita umana o è una scelta provvisoria assoggettata alle ideologie in voga?
Scrive monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto e segretario dell’Assemblea generale ordinaria del Sinodo: “la famiglia è in crisi in larghe aree del ‘villaggio globale’, come dimostra la diminuzione dei matrimoni, l’aumento delle convivenze, il numero delle separazioni e dei divorzi, la diffusione delle cosiddette coppie di fatto. Ma anche se in molti paesi del mondo ci si sposa di meno, la famiglia viene comunque vista come un ambiente affidabile, a volte il solo capace di tutelare l’essere personale specialmente nelle fasi della sua maggiore fragilità, come l’infanzia, l’adolescenza, la prima giovinezza e la vecchiaia”. Il primo scopo dell’Assemblea sinodale, conclude mons. Forte, è dunque quello di “proporre il valore e la bellezza della famiglia di fronte a un mondo in cui il suo significato è oscurato e trascurato”.
Se spostiamo l’attenzione dal punto di vista degli uomini di Chiesa per focalizzarla sulle valutazioni degli esperti di scienze umane (psicologi, economisti, giuristi), troviamo conclusioni del tutto analoghe: la famiglia è il nucleo di identità e di valori preposto alla trasmissione della cultura; la “cellula” dove si attua il primo processo formativo dell’essere umano e da cui dipende la sua capacità di relazionarsi con gli altri. È possibile modificare e alterare questa “cellula” prescindendo dalla sua missione d’origine? Sì, certo, è possibile, ma poi bisogna accettarne le conseguenze. Quelle conseguenze che ormai sono sotto gli occhi di tutti: solitudine, denatalità, disgregazione sociale…
E la poesia? La poesia ha sempre avvertito intensamente il senso della fragilità umana. E ha sempre avuto la capacità d’interpretare gli ondivaghi moti del cuore. La poesia conosce bene il radicamento di cui l’uomo ha bisogno per sottrarsi alla precarietà della sua condizione, alla vulnerabilità che la natura gli ha imposto proiettandolo in un mondo minaccioso. Un radicamento che non può attuarsi in assenza di un tessuto ambientale che comprenda la famiglia, il paese d’origine, la casa. Senza i quali l’uomo rischia di rimanere per sempre un “profugo dell’anima”, qualunque sia il destino che la vita vorrà riservargli.
Sono concetti che emergono con forza nell’opera di una delle più alte voci liriche del secondo Novecento: il grande poeta molisano Giuseppe Jovine (Castelmauro, CB, 1922-1998). Dal ricco repertorio di Jovine, pubblichiamo un testo del 1979 intitolato Le mie radici: una poesia molto apprezzata da Mario Luzi che ne esaltava la “pregnanza di significati in cui l’autore attraverso l’elencazione di cose e oggetti anche banali e quotidiani, li rende vivi e depositari di significati profondi e universali”.
LE MIE RADICI
di Giuseppe Jovine
Non so chi pietra su pietra ha composto
la mia casa grigia come il fango,
so che le crepe aperte nel suo fianco
sono ferite vive nel mio corpo.
Qui ho imparato a tenere i segreti
dalle labbra socchiuse degli usci,
ho imparato a fiorire nel silenzio
dalle rose dei cocci ai davanzali
ed a tenermi fitte le mie anime
come le doghe lisce di un mastello
od i fastelli cinti di verméne
e dall’erba piegata dalle bore
appresi che dolcezza che consola
lievita sotto il morso del dolore
ed è fiore di cardo la parola
che dissodando il buio fa chiarore.
E nella quiete aerea soffitta,
sulle colline scorrendo le nevi
e le reliquie degli avi sui muri
ascoltavo sui tegoli il vento,
il veleggiare odoroso del tempo;
mi visitava l’ambiguo mistero
col suo profumo lacero di morte
che mi dannava ad amare la vita.
Non altro senso della vita
allora come sempre
scoprivo nel travaglio
del bifolco che scava le parole
dalle memorie più antiche
del mondo.
Qui torno a rannicchiarmi come i cani
che vedevo agli angoli dei muri
soli alla cuccia prima di morire;
qui la vita ha gli stessi stupori,
ha le stesse impazienze della morte
che ti prende per mano e ti conduce
dove tu vuoi sull’antico sentiero
che mena al piano di Santa Lucia
tra il verde dei vigneti e il canto fioco
delle peschiere muschiate degli orti
dove corrono i morti a dissetarsi.
Qui torno amaro dopo ogni sconfitta
per non desistere dal denso esistere
col cuore d’esule senz’altro arredo
che il canto dei mattini e ogni sconfitta
torna a splendermi come una vittoria.
Qui mi lusinga e felicita il gesto
di chi semina fiori e frumenti,
orecchia al brulicare degli erbai,
fruga nei tralci e interroga la luna
nell’ora che svaporano i casali
odorosi di menta e rosmarino.
Qui ogni albero ha il suo vento,
ogni rovo il suo lamento
ogni radura il suo silenzio.
Qui nasce la mia storia,
qui ciò che penso è mio.
Dal cuore della terra ch’è il mio cuore
vedo dai botri con l’erba novella
la verità rifiorire sorella.
(Castelmauro, luglio 1979)
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