Era veramente il Figlio di Dio?

Il Presidente del Rinnovamento nello Spirito spiega l’amore di Dio per l’umanità

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di Salvatore Martinez

ROMA, venerdì, 6 aprile 2012 (ZENIT.org).- Sulla croce verità è fatta.

L’uomo, raffigurato nell’espressione estatica del centurione romano, ai piedi della croce, può solo dire:

«Veramente costui era il Figlio di Dio» (Mt 27, 54).

Nel Cristo crocifisso ogni altra specie di amore umano è sorpassato, surclassato, annullato, invalidato. Le categorie del vivere umano sono ribaltate: chi perde la vita la troverà; chi soffre sarà glorificato; chi si umilia sarà esaltato, il mite è il vero forte, chi viene sconfitto dalla violenza in Cristo è più che vincitore.

Ecco perché san Paolo, al culmine della sua comprensione del mysterium crucis, affermerà senza esitazione:

«Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del nostro Signore Gesù Cristo» (Gal 6, 14).

Questa scoperta di un Dio che si fa uomo per amore e che per amore s’immola sino al sacrificio cruento della croce, sconvolge la cifra egoistica e autoreferenziale del genere umano. L’umanità entra nel mistero; una sconvolgente scoperta è sotto gli occhi di tutti: la croce non è soltanto il segno della nostra vita in Dio e della nostra salvezza, ma è anche la testimone verace e muta dei dolori degli uomini e, allo stesso tempo, l’espressione unica e preziosa di tutte le loro speranze, specie dei piccoli e degli ultimi della terra, coloro che sembrano sperare senza speranza.

Il Pontefice Benedetto XVI, in Visita pastorale in Francia, ha affermato:

“Solo la croce esprime la legge fondamentale dell’amore; è la formula perfetta della vera vita” (Parigi, 12 settembre 2008).

Comprendiamo, così, perché san Paolo scriveva della sua conoscenza di Gesù alla comunità di Filippi con espressioni tanto elevate, pregnanti, che denotano profonda convinzione e il raggiungimento del massimo grado di felicità e di pienezza umana. Egli parla della conoscenza di Cristo come del “bene supremo”.

Ora, in tutta la Sacra Bibbia, “conoscere” non indica appena una scoperta intellettuale, il farsi un’idea di qualcosa, ma un legame vitale intimo, un entrare in un rapporto affettivo con l’oggetto conosciuto.

Conoscere non è un’idea che si possiede, ma un’esperienza che si compie.

Per l’apostolo Paolo, Cristo non era un insieme di dottrine, di eresie, di dogmi; era una persona viva, presente e realissima, che si poteva designare con un semplice pronome: “Lui”. Dunque, conoscere Lui, come si fa quando si addita qualcuno che è presente.

L’effetto dell’innamoramento, che consegue da questa conoscenza piena, è duplice.

Da una parte, opera una drastica reductio ad unum, una concentrazione sulla persona amata che fa passare in secondo piano tutto il resto del mondo, come se niente altro, al di fuori della persona amata, più esistesse.

Dall’altra, rende capaci di soffrire qualsiasi cosa per la persona amata, di accettare la perdita di tutto.

Vediamo entrambi questi effetti realizzarsi nella vita di san Paolo, specie nel momento in cui scoperto e conosciuto Cristo, potrà affermare:

«Per lui ho accettato la perdita di tutte queste cose e le considero come spazzatura» (cf Fil 3, 8).

San Paolo ha accettato la perdita dei suoi privilegi di “ebreo tra ebrei”, la stima e l’amicizia dei suoi maestri e connazionali, l’odio e la commiserazione di quanti non comprendevano come un uomo come lui avesse potuto farsi sedurre da una setta di fanatici senza arte né parte.

Nella Seconda lettera ai Corinzi c’è l’elenco impressionante di tutte le cose sofferte da san Paolo per amore di Cristo; elenco che gioverebbe sempre ricordare per avvalorare la portata dell’amore paolino (cf 2 Cor 11, 24-28).

L’Apostolo Paolo è un conquistato da Cristo. Gli innamorati, lo sappiamo, difficilmente si trattengono o lasciano che altri addomestichino il loro amore.

Francesco d’Assisi andava per i boschi della Verna gridando come un matto: L’amore non è amato!

Quante frasi pregnanti, lapidarie, incontriamo nel linguaggio paolino:

«Per me il vivere è Cristo» (Fil 1, 21);

oppure:

«Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20).

Una radicalità che si farà strada nei secoli, sino alla Regola di san Benedetto:

“Nulla assolutamente anteporre all’amore di Cristo”.

Godere dell’amore di Cristo è il culmine delle aspirazioni di un discepolo del Signore.

Il godere dell’amore di Cristo era tutto per san Paolo: vita, mondo, condizione angelica, presente, futuro e ogni altro bene. All’infuori di Cristo, niente più reputava bello; niente più era gioioso o conveniente.

San Paolo, il persecutore dei cristiani, l’implacabile osservante della legge, non si convertì a una dottrina, fosse pure la dottrina della “giustificazione mediante la fede”: si convertì a una Persona!

Prima che un cambiamento di pensiero, il suo fu un cambiamento di cuore, l’incontro con una persona viva.

Conoscere il nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo non è, dunque, semplicemente sapere di lui. È una conoscenza che deve essere caratterizzata da alcuni requisiti.

È necessaria una conoscenza personale. Non posso conoscerlo attraverso la conoscenza che ne ha un altro, per interposta persona. Devo conoscerlo io stesso, conoscerlo in proprio.

Deve essere una conoscenza intelligente. Conoscere Cristo non sulla base delle mie immaginazioni, sogni o visioni, ma come la Bibbia ce lo rivela. Devo conoscere le sue due nature, divina e umana. Devo conoscere i suoi voleri, il suo potere, le sue opere. Devo meditare su di lui tanto da potere

«abbracciare con tutti i santi quale sia la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo e di conoscere questo amore che sorpassa ogni conoscenza, affinché io sia ricolmo di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3, 18-19).

Deve essere una conoscenza sacramentale, cioè che accade nella comunità cristiana, insieme ai fratelli e alle sorelle nella fede, disponendomi a servire la comunità, a farla crescere, a divenire io stesso “sacramento”, segno d’amore per tutti.

Deve essere una conoscenza entusiasmante, quella che mi porta a dire: più lo conosco e più vorrei conoscerlo, più in alto salgo e più ancora vorrei salire. Ne voglio sempre di più, perché l’amore di Cristo mai basta alla mia gioia.

La croce è lo svelamento del cuore amante

Quanti attentati alla conoscenza di Cristo; quanto svilimento di senso e di prassi nel presentare la persona di Gesù e il suo Vangelo: così l’umanità precipita nelle tenebre della non conoscenza di Dio.

Per salvare l’uomo è necessario riportare Dio nel cuore e nella storia dell’uomo. Non sarà il potere mondano a salvarlo; non sarà l’economia a sfamarlo. Solo Dio può salvare l’uomo. E Dio, il Dio vivo e vero, entra nella storia percorrendo la via dell’umiltà e della semplicità: dalla grotta alla croce.

Occorre riportare Dio nel cuore degli uomini, aiutare gli uomini a riappropriarsi della propria identità recuperando l’intimità con Dio, così tanto trascurata dal frenetismo e dall’attivismo del nostro secolo. L’esaltazione della croce di Cristo è il sentire profondo del Cristianesimo.

Per ogni approfondimento si consiglia la lettura del libro di Salvatore Martinez : “Ridire la Fede ridare la speranza, rifare la carità” Edizioni RnS 2011

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ZENIT Staff

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