di Salvatore Martinez

ROMA, martedì, 3 aprile 2012 (ZENIT.org).- Fatica del sacrificio e comunione di volontà.

Ha scritto il beato Giovanni Paolo II:

“Il programma messianico di Cristo è un programma di misericordia. Nella temporalità, nella storia umana, che è insieme storia di peccato e di morte, l’amore si rivela soprattutto come misericordia e anche si attua come tale” (Dives in Misericordia, n. 8).

È tutta qui la missione redentrice del Cristo.

Ebbene, come potrà, egli farsi carico del nostro soffrire se, dinanzi alla cattiveria dell’uomo, alle ingiustizie del tempo, all’insipienza collettiva, smettiamo di fidarci dell’uomo, a partire dalla sua debolezza, dalla sua incapacità di vivere il bene, dal suo scioperare – come affermava Teillard de Chardin – quando la speranza sembra venir meno?

Come potrà, Cristo, farsi carico del nostro soffrire se non riusciamo a godere dell’essere al mondo, se non esistiamo agli altri, se non abbiamo coscienza della vita, proprio a partire dalla “fatica del desiderio e del sacrificio” che essa comporta?

Solo ponendoci liberamente dinanzi a queste realtà ci è dato di comprendere il paradosso dell’incarnazione e della passione di Cristo. Da qui scaturisce la risposta ai nostri più inquietanti interrogativi: Cristo soffre “per” noi, cioè prende su di sé la sofferenza di tutti e la redime; Cristo soffre “con” noi, dandoci la possibilità di condividere con lui i nostri patimenti, nell’attesa di una gioia più grande.

Afferma papa Benedetto XVI:

“Tante volte i Vangeli ci riportano i sentimenti di Gesù nei confronti degli uomini, in special modo dei sofferenti e dei peccatori (cf Mt 20, 34; Mc 6, 34; Lc 19, 41). Egli esprime attraverso un sentimento profondamente umano l’intenzione salvifica di Dio per ogni uomo. Nasce così intorno al Mistero eucaristico il servizio della carità nei confronti del prossimo, che ‘consiste appunto nel fatto che io amo, in Dio e con Dio, anche la persona che non gradisco o neanche conosco. Questo può realizzarsi solo a partire dall’intimo incontro con Dio, un incontro che è diventato comunione di volontà arrivando fino a toccare il sentimento. Allora imparo a guardare quest’altra persona non più soltanto con i miei occhi e con i miei sentimenti, ma secondo la prospettiva di Gesù Cristo [Deus caritas est, n. 18]’” (in Sacramentum Caritatis, n. 88).

Con la Pasqua contemporanei di Cristo

San Paolo, nella sua Lettera ai Filippesi, ci consegna una professione di fede che condensa, con rara bellezza e incisività, il “mistero” del Cristo, socio del nostro soffrire.

«Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2, 5-11).

Con queste parole l’Apostolo attesta le due nature di Gesù, vero uomo e vero Dio.

Con la passione, Gesù-uomo raggiunge il culmine delle sofferenze patibili e subisce la depravazione violenta del genere umano.

Al contempo, con la sua morte gloriosa, Gesù-Dio manifesta l’onnipotenza divina, il destino eterno di gioia che nessuna sofferenza, nemmeno la morte, potrà impedire a chi crede nel Cristo.

Gesù nasce per morire e muore per risorgere. Così, mediante lui, avverrà anche per noi.

Come mai nella storia era accaduto – come mai più dopo l’incarnazione, la morte e la risurrezione di Gesù potrà accadere – nel Cristo i contrasti sono riconciliati: umiltà e maestà, povertà e gloria, debolezza e forza, ingiustizia e perdono, abbandono e amore, tristezza e gioia.

Naturale e soprannaturale, umanità e divinità, finitezza ed eternità: che sfida per la nostra intelligenza e che benedizione quando questa tensione “temporale” si risolve nella fede.

Con la Pasqua, Cristo è nostro contemporaneo, sempre, per sempre!

Una verità che risuona in ogni nostro giorno terreno, feria di Pasqua, perché fuori dalla sua risurrezione il Cristo non sarebbe più indispensabile all’uomo e al suo destino di amore e di pace.

Nel compiersi della Pasqua tutto il senso è dato: Gesù doveva soffrire, ma non poteva essere vinto dal dolore umano; doveva morire, ma non poteva rimanere morto; doveva stare in mezzo ai suoi, ma non poteva rimanere per sempre con loro.

Uno speciale conforto, infine, ci viene da uno scritto del grande Padre della Chiesa latina, sant’Agostino:

“Questo nostro tempo di miseria e di lacrime viene simboleggiato dai quaranta giorni prima della Pasqua; il tempo che seguirà, tempo di letizia, di pace, di felicità, di vita eterna, di regno senza fine è simboleggiato invece dai giorni pasquali in cui noi eleviamo lodi a Dio. Ci vengono cioè presentati due tempi: uno prima della risurrezione del Signore, l’altro dopo la risurrezione del Signore; uno è il tempo in cui siamo, l’altro è il tempo in cui speriamo di essere un giorno per sempre” (Discorsi, n. 254, 4-5).

Per ogni approfondimento si consiglia la lettura del libro di Salvatore Martinez : “Ridire la Fede ridare la speranza, rifare la carità" Edizioni RnS 2011