«Che ho fatto? Niente di speciale, solo il mio lavoro. Ero l’uomo giusto al posto giusto al momento giusto».
Il 26 Settembre di 34 anni fa il mondo è stato sul punto di finire, in tutti i sensi, in una guerra nucleare e l’ha dimenticato in fretta, come in fretta ha dimenticato Stanislav Evgrafovich Petrov, in quel Settembre del 1983 tenente colonnello dell’esercito sovietico. Per uno scherzo del destino, che poi forse tanto scherzoso e casuale non èmai, il tempo sembra essersi fermato: allora, giusto da qualche mese, il presidente americano Ronald Reagan aveva definito l’Urss «l’impero del male» e la Nato aveva avviato esercitazioni militari nucleari. Il leader del Cremlino, Jurij Andropov, aveva rispostodenunciando «un acuirsi senza precedenti» del confronto est-ovest. Intanto, come per non farsi mancare niente, un intercettore sovietico aveva abbattuto un aereo di linea della Korean Air Lines in volo sulla penisola della Kamchatka, uccidendo 269 persone tra le quali un deputato del Congresso americano. Insomma, si era sulla soglia dell’abisso, forse come oggi: sono cambiati in parte gli attori, ma la scena resta la stessa e identico è il timore di una pioggia di testate nucleari.
Le condizioni che in clima di Guerra Fredda avevano scongiurato il verificarsi di un’ipotesi del genere erano fondate su due pilastri. Il primo, il trattato di non proliferazione: chi ha le armi nucleari se le tiene, chi non le ha rinuncia a fabbricarle. Il secondo, la deterrenza: nessuno usa l’arma atomica perché la ritorsione dell’avversario sarebbe talmente distruttiva da annullare qualsiasi potenziale guadagno militare. Due criteri che hanno sostanzialmente retto per decenni grazie allarazionalità dei soggetti politici in campo. Ma nell’era della ragione, paradossalmente, a venir meno èproprio il raziocinio. C’è allora di che temere: il rischio di una spirale è reale, perché basta un incidente casuale a scatenare un conflitto termonucleare. Per scongiurarlo, l’unica via percorribile, per quanto ardua, resta quella diplomatica. Un passaggio colto pure da Papa Francesco già ad aprile, con l’invito «a risolvere i problemi usando la chiave diplomatica, perché stiamo parlando del futuro dell’umanità. Oggi l’umanità non è capace di sopportare un’altra guerra terribile. Guardiamo ai Paesi che già la stanno vivendo, alla Siria, all’Africa, allo Yemen. Fermiamoci». Un appello che per molti è caduto nel vuoto. Per questo la mente ritorna al tenente colonnello Petrov: la notte del 26 settembre 1983 era di servizio nel bunker “Serpukhov 15”, a guardia di“Krokus”, il cervellone concepito per individuare ogni oggetto volante diretto verso l’Unione Sovietica edattivare misure di risposta. Anche atomiche e nucleari. Quella notte il cervellone segnalava il lancio di un missile, dal Montana diretto verso la Russia, seguito da altri quattro. Se Petrov si fosse attenuto agli ordini, avrebbe dovuto avvisare i superiori,e questi avrebbero ordinato l’
L’infallibile macchina aveva fallito, il fallibile uomo no, salvando il mondo dalla catastrofe. Lolasciarono al suo posto per non dover ammettere di essere imperfetti, ma senza rendergli merito. A maggio Petrov è morto, nell’indifferenza generale. La speranza è che anche in questi giorni, nelle stanze dei bottoni rossi, ve ne siano altri di uomini come lui, illuminati dalla fede e dalla speranza: giusti, al posto giusto, nel momento giusto.
Monsignor Vincenzo Bertolone è arcivescovo metropolita di Catanzaro-Squillace e presidente della Conferenza Episcopale Calabra.