Il viaggio in Colombia di Papa Francesco ha tracciato senz’altro una più efficace strada di pace per gli abitanti di quella nazione e di riflesso per la terra intera. In ugual modo ha saputo parlare, con le sue diverse fasi di confronto e con gli appelli mirati dello stesso Pontefice, alla coscienza di qualunque uomo. Oggi si è spesso incapaci di impostare una reazione costruttiva dinanzi ad un qualsiasi conflitto [1]. Il messaggio del Vicario di Cristo colpisce per la sua intensità e universalità, tramutandosi in una indicazione quotidiana universale di convivenza pacifica tra gli uomini.
Si tratta di un vero contributo responsabile che ogni credente ha il dovere di destinare alla costruzione del regno di Dio sulla terra, soprattutto da parte di chi detiene ruoli ben precisi nell’amministrazione pubblica e nel processo secolare della Chiesa. La reazione del mondo dinanzi ad una ostilità sociale, grande o piccola che sia, è infatti più volte di passività o di contrasto fine a sé stesso. “Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo” (Evangelii gaudium, 227).
Oggi è divenuto vitale muoversi in questa ultima direzione e per farlo è indispensabile che si possano intrecciare tra di loro alcuni pilastri globali dell’esistenza umana, quali la responsabilità, l’amore e l’obbedienza. Ogni qualvolta che una comunità sbanda o in un luogo di lavoro e di coabitazione sociale, compresa la famiglia, si inseriscono inquietudini e immoralità, si osserva come siano venuti meno i valori cristiani. Eppure ogni uomo di fede dovrebbe tutelarli e qualunque ministro del Signore rilanciarli fino al sacrificio!
Tutto questo succede quando la responsabilità personale, l’amore profuso e l’obbedienza alla Parola si trasformano in aspetti secondari del proprio modo di esistere. In un contesto del genere ogni conflitto genera altre ingiustizie e ciascuna comunità, priva dell’insegnamento evangelico e dei suoi necessari riferimenti, rischia di perdere la bussola della vita che conduce al benessere comune. Un uomo del Signore deve perciò costantemente, nella sua responsabilità, coniugare in modo permanente amore e obbedienza, lungo il corso della sua attività pubblica e privata. Non si può lasciare il popolo senza Parola.
Chi si muove in questa direzione, pur avendo il compito di sollecitare il vangelo nei cuori, commette “un crimine spirituale” e spegne quell’amore verso il prossimo che solo l’obbedienza al Signore può dare. La scelta della fede è sempre del singolo, ma chiunque ha il diritto di essere messo nelle condizioni di conoscere la strada che salva e redime. Mosè, scendendo dal monte e vedendo il popolo immerso nella idolatria, disse ad Aronne: “Che ti ha fatto questo popolo, perché tu l’abbia gravato di un peccato così grande?” (Es. 32,21).
Il male quindi più grande che si possa fare ad una comunità è lasciarla alla sua deriva, privandola dal senso alto della verità rivelata. Il ricordo della Parola mette ognuno al riparo da quelle azioni che trasfigurano l’armonia terrena nella sua struttura fisica, sociale e spirituale. I guai odierni ambientali, morali, comportamentali, non sono forse il frutto di un rifiuto di ascolto dei principi universali che i comandamenti e le beatitudini hanno consegnato al mondo per l’eternità?
Se si pensa poi ai disastri climatici e agli incendi dolosi, vittima purtroppo in questi giorni il nostro Paese, non si registrano per caso comportamenti e modelli individuali e collettivi di egoismo e disprezzo sociale? Obbedire alla Parola di Dio e osservare le sue leggi consente di non stare dalla parte di coloro che partecipano alle proprie rovine quotidiane e a quelle collegiali. Nello stesso tempo permette di attrarre il vicino verso buone pratiche, rafforzando un comportamento comunitario costruttivo che segnala le criticità e offre soluzioni convincenti e benefiche per tutti.
Quest’ultimo passaggio è vitale per il singolo che ha compreso come la sua obbedienza agli indirizzi eterni del Creatore sia una grande virtù. Una vera esperienza ontologica che va trasmessa e testimoniata all’interno dei propri spazi quotidiani e di ogni articolazione pubblica, deputata ad organizzare la vita sociale, politica e etica dei suoi componenti. Non è facile farlo, ma per lasciare un segno nell’altro è necessario parlare con gesti concreti e scelte chiare che siano il riflesso tangibile del proprio modo di professare il senso autentico della fede mostrata. Portare nella Parola chi è fuori dal vangelo significa volergli veramente bene, aiutandolo a liberarsi dei labirinti delle tante illusioni quotidiane.
Non è questo di certo un merito, ma un servizio necessario alla composizione corretta di una società. La gente ha sempre di più bisogno di trasparenza e serenità collettiva per ritrovare una autentica prosperità interiore ed esteriore. Su questa strada, senza “saccheggiare” la realtà, con il sostegno dei doni della responsabilità, dell’amore e dell’obbedienza liberatrice nel Signore, ognuno sarà capace di passare da ogni forma di conflitto ad un processo stabile di concordia sociale.
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NOTE
[1] Colombia: “Alla cultura della morte, della violenza, rispondiamo con la cultura della vita, dell’incontro” di Anita Bourdin (ZENIT.org, 11 settembre 2017 )
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Cartagena, Chiesa Pietro Claver, 10 settembre 2017 / © PHOTO.VA - OSSERVATORE ROMANO
Dal conflitto ad un nuovo processo di concordia sociale
Non si può lasciare il popolo senza Parola.