Il nostro debito è stato condonato. Ma la parola condono evoca sempre sdegno, sa di qualcosa che non si è meritato, ai cuori che si ritengono giusti e onesti appare come un’ingiustizia. Il condono è sempre fuori-legge, contestato e rigettato in nome della giustizia, sia per i grandi evasori fiscali, sia per i popoli poveri e in via di sviluppo, perché l’uomo non è abituato al condono dei debiti. La colpa rimane incastrata nel cuore perché non si è mai fatta l’esperienza esistenziale di un perdono capace non solo di condonare, ma anche di ricreare un cuore nuovo, orientato al bene proprio laddove lo era stato al male.
Nella nostra vita ci è spesso accaduto come al servo spietato: nella preghiera, nell’accostarci al sacramento della penitenza, abbiamo “implorato clemenza e un po’ di pazienza per restituire”, dimenticando o ignorando che il Signore perdona condonando tutto il debito e, in più, donando lo Spirito Santo che trasforma radicalmente il cuore, come il Battesimo. Il suo perdono è “la seconda tavola di salvezza dopo il naufragio della grazia perduta” (Tertulliano, De paenitentia, 4, 2): il Signore ha distrutto il “documento scritto della nostra colpa; lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce” (Col 2, 14). Nessun debito da estinguere, perché “non c’è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” (Rm 8, 1). Nulla più da restituire.
E’ l’esperienza che cambia radicalmente la vita, il cuore del cristianesimo; e questo è un cristiano: un condannato a morte al quale siano state spalancate le porte della cella; è libero, ha conosciuto nel suo intimo la misericordia di Dio, e per questo, al termine di ogni eucarestia, di ogni confessione, all’ascoltare la predicazione del Vangelo, nel segreto della sua preghiera contrita e umiliata, può esultare con la Chiesa come nella notte di Pasqua quando canta “O felix culpa, felice colpa, che meritò di avere un così grande redentore!” (Exultet di Pasqua).
La gratitudine, la pace, la consolazione e la gioia sono gli effetti immediati del perdono: “Tutto il valore della Penitenza consiste nel restituirci alla grazia di Dio stringendoci a lui in intima e grande amicizia. Coloro che ricevono il sacramento della Penitenza con cuore contrito e in una disposizione religiosa conseguono la pace e la serenità della coscienza insieme a una vivissima consolazione dello spirito. Infatti, il sacramento della Riconciliazione con Dio opera una autentica risurrezione spirituale, restituisce la dignità e i beni della vita dei figli di Dio, di cui il più prezioso è l’amicizia di Dio” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1468).
Il servo aveva ottenuto tutto ciò: il debito che lo separava dal suo re era stato cancellato, la magnanimità lo aveva fatto risorgere dalla prigione alla quale era condannato, gli erano stati restituiti la dignità e i beni, poteva ancora amministrarli nell’intima e grande amicizia con il suo re. Eppure non appaiono in lui la gratitudine, la consolazione e la pace. Sembra piuttosto non accorgersi di nulla, una scorza sul cuore gli impedisce di lasciarsi raggiungere dalla misericordia del Re che “si era impietosito di lui”. Troppo grande, stupefacente, incredibile quell’amore, e così rispettoso della sua libertà al punto di lasciare che si rinchiudesse nel suo orgoglio incapace di accogliere la gratuità del condono.
Come accade a noi, che, pur rivolgendoci a Dio, lo consideriamo uno strozzino che può solo dilazionare i tempi della restituzione: lo conosciamo attraverso la carne, e proiettiamo su di Lui l’immagine che abbiamo dell’uomo e della giustizia mondana, il poco di cui abbiamo esperienza empirica. Per questo siamo preoccupati di quello che dovremmo fare per estinguere il debito, illusi e sedotti dall’inganno “originale” d’essere diventati come dio, nella superba certezza di poterlo trattare da pari a pari e di saper raccogliere una fortuna quale la sua; ma ci ritroviamo stretti nel moralismo e nel legalismo che ci soffocano l’anima.
La parabola infatti, ci illumina su quale sia il vero obiettivo di satana: il peccato concreto è solo uno strumento con il quale egli cerca di inchiodarci alla disperazione cieca sull’amore infinito di Dio: sollecita l’orgoglio perché, ferito dal fallimento, ci spinga nell’abisso di violenza, odio ed esigenza che cancella la speranza, la fede e la carità dal cuore, anticipo dell’inferno al quale vuole condurci.
Il Re aveva condonato 10.000 talenti, una somma esorbitante, se si pensa che la rendita annua del regno di Erode era di novecento talenti (cf G. Flavio, Antichità Giud. XVII, 11,4,$$ 317-320); la somma corrispondeva a 360 tonnellate di oro o di argento. Un talento era pari a 6.000 denari, mentre uno stipendio medio era di 30 denari; 10.000 talenti significavano dunque 60.000.000 di stipendi quotidiani. Per pagare questo debito il servo avrebbe dovuto lavorare circa 200.000 anni. Quale stoltezza allora appare nel servo che si illudeva di poter rifondere una fortuna così immensa!
Ma il demonio è così astuto da saper innescare l’orgoglio perché si inoltri nell’irragionevolezza dove è impossibile accogliere l’unico amore ragionevole, quello che, a fronte di un debito impossibile da saldare, può solo condonarlo. Il debito del peccato, di qualunque peccato, infatti, è inestinguibile, se non a prezzo della vita, come la stessa Legge prescriveva. E non solo con la propria, ma anche con quella “della moglie e dei figli”. Il peccato che rompe la relazione con Dio distrugge tutto, la famiglia, il futuro dei figli, si sparge come un’epidemia, rende schiavi e uccide.
Ma Cristo ha pagato sino all’ultimo spicciolo – con la sua stessa vita – il prezzo della nostra redenzione: “Egli ha pagato per noi all’eterno Padre il debito di Adamo, e con il sangue sparso per la nostra salvezza ha cancellato la condanna della colpa antica” (Exultet di Pasqua). Ma il servo spietato non aveva capito: “lasciato andare” era rimasto imprigionato, come i canarini nati nella gabbia e per questo incapaci di volare una volta usciti. Il perdono non lo aveva toccato e rigenerato, e così si era infilato nel cammino oscuro dei sensi di colpa e dell’orgoglio ferito, di quanti vivono il proprio cristianesimo senza la gioia della resurrezione, arrestandosi nel perimetro limitato della “religione naturale”: “Nelle religioni mondiali, espiazione significa normalmente riparazione e ripristino dei rapporti perturbati esistenti con la divinità, ottenuti tramite azioni propiziatrici degli uomini. L’azione espiatrice con la quale gli uomini mirano a conciliarsi e a propiziarsi la divinità, sta al centro della storia delle religioni (J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo, pp. 227-228).
Per questo, la loro esistenza è costellata di regole e leggi, e sforzi per compierle e rispettarle; le loro giornate si dispiegano come una corsa ad ostacoli, senza amore, esigendo da se stessi e dagli altri. Moglie, marito, figli, colleghi, tutti strapazzati perché non scappino dai propri rigidi schemi; ogni “prossimo” è imprigionato perché paghi “il dovuto”, la considerazione, la pazienza, il rispetto, l’amore di cui si è debitori verso Dio ma di cui si è sprovvisti, e che, stoltamente, si vorrebbe estorcere agli altri per poter mettere in pace la coscienza.
Anche per noi spesso il sangue di Cristo sembra non aver segnato gli stipiti delle nostre porte, e viviamo nel terrore che possa giungere da un momento all’altro l’angelo giustiziere. Una vita senza la Pasqua è una vita preda dell’angoscia e dei sensi di colpa, chiusa nell’oscurità del sospetto e dell’insoddisfazione che avvolgono ogni relazione. In debito con Dio vediamo creditori ovunque: tutti ci devono qualcosa, ci sentiamo vittime di ingiustizie di ogni tipo, nessuno ci comprende tributandoci gli onori, l’affetto e la gratitudine che ci spettano.
Ma dietro ad ogni atteggiamento di esigenza vi è sempre un cuore che non ha conosciuto il perdono, la profonda riconciliazione con Dio. Chi invece si è sentito perdonato e riconciliato con Dio, vive in pace, e non pone più limiti all’amore. Ha sperimentato la Pasqua, e ha scoperto in Cristo il prezzo “dovuto” del riscatto, l’unico che poteva estinguere il nostro debito: “Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia… Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia. (cfr. 1 Pt. 1, 18-19 e 1 Pt. 2, 24).
Non si tratta dunque della semplice chiusura di una partita di dare e avere. La parabola ci dice che la Redenzione operata da Cristo è qualcosa di infinitamente più grande di un pur inaudito e scandaloso condono del debito: Gesù ha offerto se stesso per riscattarci dalla morte che paralizzava il nostro cuore, rendendolo incapace di amare. Il condono totale del debito era necessario per liberare l’uomo dalla schiavitù del peccato e ricrearlo a immagine e somiglianza di Dio, vivo per la giustizia, come hanno ripetuto i Padri: “Dio si è fatto uomo affinché l’uomo potesse divenire dio”.
Il re della parabola è immagine del Padre che guarda con amore ai suoi servi, anche a quelli infedeli che hanno sperperato i suoi beni, disprezzando e usando per se stessi la Grazia della natura divina di cui erano partecipi. Un Re invincibile di fronte al debito più grande, che perdona e condona perché il servo possa di nuovo essere accolto nella sua intimità e vivere secondo la sua volontà, nell’amore e nella fedeltà. Solo se perdonati, riconciliati con Dio e ricreati in Cristo, possiamo vivere in pienezza l’amore che supera le barriere della morte, alte “settanta volte sette” la nostra statura: impossibile per l’uomo superarle, ma possibile presso Dio.
In Cristo e solo in Lui siamo cristiani, figli del perdono che vivono perdonando agli altri “settanta volte sette”, infinite volte come infinito era il nostro debito dissolto nella misericordia: “Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti [alla lettera: di viscere] di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi” (Col 3, 12-13).
Pietro, a nome della Chiesa domanda e ascolta l’annuncio del Signore, e lo accoglie come un seme di vita nuova deposto nelle sue viscere. La Chiesa, infatti, è il luogo del perdono, il seno benedetto dove rinascere nella misericordia. Chi ha conosciuto il perdono di Dio vede la sproporzione tra quanto gli è stato condonato e “i 100 denari” di cui è creditore. I suoi occhi vedono la trave che li appesantisce e non si accorgono della pagliuzza posata sugli occhi del prossimo.
Se il nostro debito con Dio è estinto, anche il debito del nostro prossimo è naturalmente disciolto nelle stesse viscere di misericordia che ci hanno liberato. Un amore senza limiti che risponde a un debito infinito rompe la catena del male e della rivalsa, e disegna una nuova “economia di misericordia”, la follia dell’economia divina. La pace, la gioia, la vita vera è tutta in questo amore: “O immensità del tuo amore per noi! O inestimabile segno di bontà: per riscattare lo schiavo, hai sacrificato il tuo Figlio!” (Exultet di Pasqua).