Cartagena, Messa, 10 settembre 2017 / © PHOTO.VA - OSSERVATORE ROMANO

Colombia: “Alla cultura della morte, della violenza, rispondiamo con la cultura della vita, dell’incontro”

Omelia a Cartagena — Testo completo

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“Alla cultura della morte, della violenza, rispondiamo con la cultura della vita, dell’incontro”, ha esortato papa Francesco durante la Messa di domenica 10 settembre 2017, celebrata nel container terminal del porto di Cartagena, Contecar (“Terminal de Contenedores de Cartagena”), la tappa conclusiva del suo viaggio apostolico in Colombia.
Questa sera, alle 19 ora locale (le 02.00 a Roma), il Papa lascerà Cartagena e la Colombia a bordo di un Boeing 787 “Dreamliner” della compagnia Avianca per ritornare a Roma.
Obiettivo del viaggio apostolico impegnativo era rafforzare il processo di pace tra il governo di Bogotá e la guerriglia dopo più di mezzo secolo di conflitto, che — non dimentichiamo — ha causato oltre 8 milioni di vittime (in senso ampio) tra sfollati interni (7 milioni), feriti, mutilati e morti.
Per realizzare questa riconciliazione, il Papa ha proposto l’incontro. “Noi — così ha sottolineato — possiamo dare un grande contributo a questo nuovo passo che la Colombia vuole fare. Gesù ci indica che questo cammino di reinserimento nella comunità comincia con un dialogo a due. Nulla potrà sostituire questo incontro riparatore; nessun processo collettivo ci dispensa della sfida di incontrarci, di spiegarci, di perdonare.”
“Le ferite profonde della storia esigono necessariamente istanze dove si faccia giustizia, dove sia possibile alle vittime conoscere la verità, il danno sia debitamente riparato e si agisca con chiarezza per evitare che si ripetano tali crimini.”, ha proseguito Jorge Bergoglio, che ha lanciato un appello improvvisato — molto applaudito — per lottare efficacemente contro il narcotraffico.
“Ma tutto ciò ci lascia ancora sulla soglia delle esigenze cristiane”, ha continuato il Pontefice argentino. “A noi è richiesto di generare ‘a partire dal basso’ un cambiamento culturale: alla cultura della morte, della violenza, rispondiamo con la cultura della vita, dell’incontro”.
Al termine della sua omelia, Francesco ha rammentato il tema generale del suo viaggio, spiegando che “fare il primo passo” è soprattutto “andare incontro agli altri con Cristo, il Signore”. (pdm)

Cartagena, Messa, 10 settembre 2017 / © PHOTO.VA - OSSERVATORE ROMANO

Cartagena, Messa, 10 settembre 2017 / © PHOTO.VA – OSSERVATORE ROMANO

 
Riprendiamo la traduzione ufficiale dell’omelia del Santo Padre.
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“Dignità della persona e diritti umani”

In questa città, che è stata chiamata “l’eroica” per la sua tenacia 200 anni fa nel difendere la libertà ottenuta, celebro l’ultima Eucaristia di questo viaggio. Inoltre, da 32 anni, Cartagena de Indias è in Colombia la sede dei diritti umani, perché qui come popolo si stima che «grazie al gruppo missionario formato dai sacerdoti gesuiti Pedro Claver y Corberó, Alonso de Sandoval e il fratello Nicolás González, accompagnati da molti figli della città di Cartegena de Indias nel secolo XVII, nacque la preoccupazione per alleviare la situazione degli oppressi dell’epoca, essenzialmente quella degli schiavi, per i quali reclamarono il rispetto e la libertà» (Congresso della Colombia, 1985, legge 95, art. 1).
Qui, nel Santuario di san Pietro Claver, dove in maniera continua e sistematica si attua il riscontro, la riflessione e il perseguimento dei progressi e del vigore dei diritti umani in Colombia, oggi la Parola di Dio ci parla di perdono, correzione, comunità e preghiera.
Nel quarto discorso del Vangelo di Matteo, Gesù parla a noi, che abbiamo deciso di puntare sulla comunità, che apprezziamo la vita in comune e sogniamo un progetto che includa tutti. Il testo che precede è quello del pastore buono che lascia le 99 pecore per andare dietro a quella perduta, e quell’aroma profuma tutto il discorso che abbiamo appena ascoltato: non c’è nessuno talmente perduto che non meriti la nostra sollecitudine, la nostra vicinanza e il nostro perdono. Da questa prospettiva, si capisce dunque che una mancanza, un peccato commesso da uno, ci interpella tutti ma coinvolge, prima di tutto, la vittima del peccato del fratello; e costui è chiamato a prendere l’iniziativa perché chi gli fatto del male non si perda. Prendere l’iniziativa: chi prende l’iniziativa è sempre il più coraggioso.
In questi giorni ho sentito tante testimonianze di persone che sono andate incontro a coloro che avevano fatto loro del male. Ferite terribili che ho potuto contemplare nei loro stessi corpi; perdite irreparabili che ancora fanno piangere, e tuttavia queste persone sono andate, hanno fatto il primo passo su una strada diversa da quelle già percorse. Perché la Colombia da decenni sta cercando la pace per tentativi e, come insegna Gesù, non è stato sufficiente che due parti si avvicinassero, dialogassero; c’è stato bisogno che si inserissero molti altri attori in questo dialogo riparatore dei peccati. «Se [il tuo fratello] non ti ascolterà, prendi ancora con te una o due persone» (Mt 18,16), ci dice il Signore nel Vangelo.
Abbiamo imparato che queste vie di pacificazione, di primato della ragione sulla vendetta, di delicata armonia tra la politica e il diritto, non possono ovviare ai percorsi della gente. Non è sufficiente il disegno di quadri normativi e accordi istituzionali tra gruppi politici o economici di buona volontà. Gesù trova la soluzione al male compiuto nell’incontro personale tra le parti. Inoltre, è sempre prezioso inserire nei nostri processi di pace l’esperienza di settori che, in molte occasioni, sono stati resi invisibili, affinché siano proprio le comunità a colorare i processi di memoria collettiva. «L’autore principale, il soggetto storico di questo processo, è la gente e la sua cultura, non una classe, una frazione, un gruppo, un’élite – tutta la gente e la sua cultura –. Non abbiamo bisogno di un progetto di pochi indirizzato a pochi, o di una minoranza illuminata o testimoniale che si appropri di un sentimento collettivo. Si tratta di un accordo per vivere insieme, di un patto sociale e culturale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 239).
Noi possiamo dare un grande contributo a questo nuovo passo che la Colombia vuole fare. Gesù ci indica che questo cammino di reinserimento nella comunità comincia con un dialogo a due. Nulla potrà sostituire questo incontro riparatore; nessun processo collettivo ci dispensa della sfida di incontrarci, di spiegarci, di perdonare. Le ferite profonde della storia esigono necessariamente istanze dove si faccia giustizia, dove sia possibile alle vittime conoscere la verità, il danno sia debitamente riparato e si agisca con chiarezza per evitare che si ripetano tali crimini. Ma tutto ciò ci lascia ancora sulla soglia delle esigenze cristiane. A noi cristiani è richiesto di generare “a partire dal basso” un cambiamento culturale: alla cultura della morte, della violenza, rispondere con la cultura della vita e dell’incontro. Ce lo diceva già quello scrittore così vostro e così di tutti: «Questo disastro culturale non si rimedia né col piombo né coi soldi, ma con una educazione alla pace, costruita con amore sulle macerie di un paese infiammato dove ci alziamo presto per continuare ad ammazzarci a vicenda… una legittima rivoluzione di pace che canalizzi verso la vita l’immensa energia creatrice che per quasi due secoli abbiamo usato per distruggerci e che rivendichi ed esalti il predominio dell’immaginazione» (Gabriel García Marquez, Messaggio sulla pace, 1998).
Quanto abbiamo agito in favore dell’incontro, della pace? Quanto abbiamo omesso, permettendo che la barbarie si facesse carne nella vita del nostro popolo? Gesù ci comanda di confrontarci con quei modelli di comportamento, quegli stili di vita che fanno male al corpo sociale, che distruggono la comunità. Quante volte si “normalizzano” – si vivono come cose normali – processi di violenza, esclusione sociale, senza che la nostra voce si alzi né le nostre mani accusino profeticamente! Accanto a san Pietro Claver c’erano migliaia di cristiani, molti di loro consacrati; ma solo un pugno di persone iniziò una corrente contro-culturale di incontro. San Pietro Claver seppe restaurare la dignità e la speranza di centinaia di migliaia di neri e di schiavi che arrivavano in condizioni assolutamente disumane, pieni di terrore, con tutte le loro speranze perdute. Non possedeva titoli accademici rinomati; si arrivò persino ad affermare che era “mediocre” di ingegno, ma ebbe il “genio” di vivere pienamente il Vangelo, di incontrarsi con quelli che altri consideravano solo uno scarto. Secoli più tardi, l’impronta di questo missionario e apostolo della Compagnia di Gesù è stata seguita da santa María Bernarda Bütler, che dedicò la sua vita al servizio dei poveri e degli emarginati in questa stessa città di Cartagena.[1]
Nell’incontro tra di noi riscopriamo i nostri diritti, ricreiamo la vita perché torni ad essere autenticamente umana. «La casa comune di tutti gli uomini deve continuare a sorgere su una retta comprensione della fraternità universale e sul rispetto della sacralità di ogni vita umana, di ogni uomo e di ogni donna; dei poveri, degli anziani, dei bambini, degli ammalati, dei non nati, dei disoccupati, degli abbandonati, di quelli che vengono giudicati scartabili perché li si considera nient’altro che numeri di questa o quella statistica. La casa comune di tutti gli uomini deve edificarsi anche sulla comprensione di una certa sacralità della natura creata» (Discorso alle Nazioni Unite, 25 settembre 2015).
Gesù, nel Vangelo, ci fa presente anche la possibilità che l’altro si chiuda, si rifiuti di cambiare, persista nel suo male. Non possiamo negare che ci sono persone che persistono in peccati che feriscono la convivenza e la comunità: «Penso al dramma lacerante della droga, sulla quale si lucra in spregio a leggi morali e civili». Questo male minaccia direttamente la dignità della persona umana e spezza progressivamente l’immagine che il Creatore ha plasmato in noi. Condanno fermamente questa piaga che ha spento tante vite e che è mantenuta e sostenuta da uomini senza scrupoli. Non si può giocare con la vita del nostro fratello, né manipolare la sua dignità. Faccio appello affinché si cerchino i modi per porre fine al narcotraffico, che non fa che seminare morte dappertutto stroncando tante speranze e distruggendo tante famiglie. Penso anche a un altro dramma: «alla devastazione delle risorse naturali e all’inquinamento in atto; alla tragedia dello sfruttamento del lavoro; penso ai traffici illeciti di denaro come alla speculazione finanziaria, che spesso assume caratteri predatori e nocivi per interi sistemi economici e sociali, esponendo alla povertà milioni di uomini e donne; penso alla prostituzione che ogni giorno miete vittime innocenti, soprattutto tra i più giovani rubando loro il futuro; penso all’abominio del traffico di esseri umani, ai reati e agli abusi contro i minori, alla schiavitù che ancora diffonde il suo orrore in tante parti del mondo, alla tragedia spesso inascoltata dei migranti sui quali si specula indegnamente nell’illegalità» (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2014); e persino si specula con una “asettica legalità” pacifista che non tiene conto della carne del fratello, che è la carne di Cristo. Anche per questo dobbiamo essere preparati e saldamente posizionati su principi di giustizia che non tolgano nulla alla carità. Non è possibile convivere in pace senza avere a che fare con ciò che corrompe la vita e attenta contro di essa. A questo proposito, ricordiamo tutti coloro che, con coraggio e senza stancarsi, hanno lavorato e hanno persino perso la vita nella difesa e protezione dei diritti della persona umana e della sua dignità. Come a loro, la storia chiede a noi di assumere un impegno definitivo in difesa dei diritti umani, qui, a Cartagena de Indias, luogo che voi avete scelto come sede nazionale della loro tutela.
Infine Gesù ci chiede di pregare insieme; che la nostra preghiera sia sinfonica, con toni personali, accenti diversi, ma che levi in modo concorde un unico grido. Sono sicuro che oggi preghiamo insieme per il riscatto di coloro che sono stati nell’errore, e non per la loro distruzione, per la giustizia e non per la vendetta, per la riparazione nella verità e non nella dimenticanza. Preghiamo per realizzare il motto di questa visita: «Facciamo il primo passo!», e che questo primo passo sia in una direzione comune.
“Fare il primo passo” è, soprattutto, andare incontro agli altri con Cristo, il Signore. Ed Egli ci chiede sempre di fare un passo deciso e sicuro verso i fratelli, rinunciando alla pretesa di essere perdonati senza perdonare, di essere amati senza amare. Se la Colombia vuole una pace stabile e duratura, deve fare urgentemente un passo in questa direzione, che è quella del bene comune, dell’equità, della giustizia, del rispetto della natura umana e delle sue esigenze. Solo se aiutiamo a sciogliere i nodi della violenza, districheremo la complessa matassa degli scontri: ci è chiesto di far il passo dell’incontro con i fratelli, avendo il coraggio di una correzione che non vuole espellere ma integrare; ci è chiesto di essere, con carità, fermi in ciò che non è negoziabile; in definitiva, l’esigenza è costruire la pace, «parlando non con la lingua ma con le mani e le opere» (San Pietro Claver), e alzare insieme gli occhi al cielo: Lui è capace di sciogliere quello che a noi appare impossibile, Lui ci ha promesso di accompagnarci sino alla fine dei tempi, e Lui non lascerà sterile uno sforzo così grande.

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Congedo al termine della S. Messa
Al termine di questa celebrazione, desidero ringraziare Mons. Jorge Enrique Jiménez Carvajal, Arcivescovo di Cartegena, per le gentili parole che mi ha rivolto a nome dei fratelli nell’episcopato e di tutto il popolo di Dio.
Ringrazio il Signor Presidente Juan Manuel Santos per il suo invito a visitare il Paese, le Autorità civili, e tutti coloro che hanno voluto unirsi a noi in questa celebrazione eucaristica, qui o attraverso i mezzi di comunicazione.
Ringrazio dell’impegno e della collaborazione che hanno reso possibile questa visita. Sono tanti quelli che hanno collaborato offrendo il proprio tempo e la propria disponibilità. Sono state giornate intense e belle, nelle quali ho potuto incontrare tante persone e conoscere tante realtà che mi hanno toccato il cuore. Voi mi avete fatto tanto bene!
Cari fratelli, vorrei lasciarvi un’ultima parola: non fermiamoci a “fare il primo passo”, ma continuiamo a camminare insieme ogni giorno per andare incontro all’altro, nella ricerca dell’armonia e della fraternità. Non possiamo fermarci. L’8 settembre 1654 moriva proprio qui san Pietro Claver; dopo quarant’anni di schiavitù volontaria, di instancabile lavoro in favore dei più poveri. Egli non rimase fermo, dopo il primo passo ne seguirono altri e altri ancora. Il suo esempio ci fa uscire da noi stessi e andare incontro al prossimo. Colombia, il tuo fratello ha bisogno di te, vagli incontro portando l’abbraccio di pace, libera da ogni violenza, “schiavi della pace, per sempre”.
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NOTE
[1] Anch’essa ebbe l’intelligenza della carità e seppe trovare Dio nel prossimo; nessuno dei due si paralizzò davanti all’ingiustizia e alle difficoltà. Perché «di fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le mani per poter continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le proprie confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 227).

© Copyright – Libreria Editrice Vaticana

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Anita Bourdin

Journaliste française accréditée près le Saint-Siège depuis 1995. Rédactrice en chef de fr.zenit.org. Elle a lancé le service français Zenit en janvier 1999. Master en journalisme (Bruxelles). Maîtrise en lettres classiques (Paris). Habilitation au doctorat en théologie biblique (Rome). Correspondante à Rome de Radio Espérance.

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