Offriamo di seguito il testo integrale del discorso indirizzato da papa Francesco ai vescovi della Colombia, che ha incontrato giovedì 7 settembre 2017 nel palazzo arcivescovile di Bogotá.
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La pace sia con voi
Così il Risorto salutò il suo piccolo gregge dopo aver vinto la morte; e così consentitemi di salutarvi in questo modo all’inizio del mio viaggio.
Vi ringrazio per le parole di benvenuto. Sono contento perché i primi passi che compio in questo Paese mi portano a incontrare voi, Vescovi della Colombia, per abbracciare in voi tutta la Chiesa colombiana e per stringere la vostra gente al mio cuore di Successore di Pietro. Vi ringrazio moltissimo per il vostro ministero episcopale, che vi prego di continuare ad esercitare con rinnovata generosità. Rivolgo un particolare saluto ai Vescovi emeriti, incoraggiandoli a continuare a sostenere, con la preghiera e con la presenza discreta, la Sposa di Cristo alla quale si sono generosamente donati.
Vengo per annunciare Cristo e per compiere nel suo nome un cammino di pace e di riconciliazione. Cristo è la nostra pace! Egli ci ha riconciliati con Dio e tra di noi!
Sono convinto che la Colombia abbia qualcosa di originale, qualcosa di molto originale che richiama fortemente l’attenzione: non è mai stata una meta completamente realizzata, né una destinazione totalmente raggiunta, né un tesoro totalmente posseduto. La sua ricchezza umana, le sue abbondanti risorse naturali, la sua cultura, la sua luminosa sintesi cristiana, il patrimonio della sua fede e la memoria dei suoi evangelizzatori, la gioia spontanea e senza riserve della sua gente, l’impagabile sorriso della sua gioventù, la sua originale fedeltà al Vangelo di Cristo e alla sua Chiesa e, soprattutto, il suo indomabile coraggio di resistere alla morte, non solo annunciata, ma molte volte seminata: tutto questo viene sottratto – come fa il fiore della mimosa nel giardino, che ha come un pudore – diciamo che si nasconde, a quelli che si presentano come stranieri bramosi di soggiogarla, di dominarla, mentre, all’opposto, si offre generosamente a chi tocca il suo cuore con la mansuetudine del pellegrino. La Colombia è così.
Per questo, come pellegrino, mi rivolgo alla vostra Chiesa. Sono vostro fratello, desideroso di condividere Cristo Risorto, per il quale nessun muro è eterno, nessuna paura è indistruttibile, nessuna piaga è incurabile.
Non sono il primo Papa che vi parla nella vostra casa. Due dei miei più grandi predecessori sono stati ospiti qui: il beato Paolo VI, che venne poco dopo la conclusione del Concilio Vaticano II per incoraggiare l’attuazione collegiale del mistero della Chiesa in America Latina; e san Giovanni Paolo II nella sua memorabile visita apostolica del 1986. Le parole di ambedue sono una risorsa permanente, le indicazioni che delinearono e la stupenda sintesi che offrirono sul nostro ministero episcopale costituiscono un patrimonio da custodire. Non sono “invecchiati”. Vorrei che quanto vi dico venga recepito in continuità con quello che essi hanno insegnato.
Custodi e sacramento del primo passo
«Fare il primo passo» è il motto della mia visita e anche per voi questo è il mio primo messaggio. Sapete bene che Dio è il Signore del primo passo. Egli ci anticipa sempre. Tutta la Sacra Scrittura parla di Dio come esiliato da Sé stesso per amore. E’ stato così quando vi erano solo tenebre, caos e, uscendo da Sé, Egli fece in modo che tutto venisse ad essere (cfr Gen 1,1 – 2,4); è stato così quando Egli passeggiava nel giardino delle origini, e si accorse della nudità della sua creatura (cfr Gen 3,8-9); è stato così quando, pellegrino, Egli sostò nella tenda di Abramo, lasciandogli la promessa di una insperata fecondità (cfr Gen 18,1-10); è stato così quando si presentò a Mosè affascinandolo, quando non aveva più altro orizzonte che quello di pascolare le pecore di suo suocero (cfr Es 3,1-2); è stato così quando non tolse lo sguardo dalla sua amata Gerusalemme, neppure quando si prostituiva sul marciapiede dell’infedeltà (cfr Ez 16,15); è stato così quando emigrò con la sua gloria verso il suo popolo esiliato nella schiavitù (cfr Es 10,18-19).
E, nella pienezza del tempo, Egli volle rivelare il vero nome del primo passo, del suo primo passo. Si chiama Gesù ed è un passo irreversibile. Proviene dalla libertà di un amore che tutto precede. Perché il Figlio, Egli stesso, è la vivente espressione di tale amore. Coloro che lo riconoscono e lo accolgono ricevono in eredità il dono di essere introdotti nella libertà di poter compiere sempre in Lui questo primo passo, non hanno paura di perdersi se escono da sé stessi, perché possiedono la garanzia dell’amore che promana dal primo passo di Dio, una bussola che impedisce loro di perdersi.
Custodite dunque, con santo timore e con commozione, quel primo passo di Dio verso di voi e, per mezzo del vostro ministero, verso la gente che vi è stata affidata, nella consapevolezza di essere voi stessi sacramento vivente di quella libertà divina che non ha paura di uscire da sé stessa per amore, che non teme di impoverirsi mentre si dona, che non ha necessità di altra forza che l’amore.
Dio ci precede, siamo tralci e non siamo la vite. Pertanto, non fate tacere la voce di Colui che ci ha chiamati, e non pensate che siano la somma delle vostre povere virtù o le lusinghe dei potenti di turno ad assicurare il risultato della missione che Dio vi ha affidato. Al contrario, mendicate, mendicate nella preghiera quando non potete né dare, né darvi, perché abbiate qualcosa da offrire a quelli che si accostano costantemente al vostro cuore di Pastori. La preghiera nella vita del Vescovo è la linfa vitale che passa attraverso la vite, senza la quale il tralcio marcisce diventando infecondo. Pertanto, lottate con Dio, e più ancora nella notte della sua assenza, finché Egli non vi benedica (cfr Gen 32,25-27). Le ferite di questa quotidiana e prioritaria battaglia nella preghiera saranno fonte di risanamento per voi; sarete feriti da Dio per diventare capaci di curare.
Rendere visibile la vostra identità di sacramento del primo passo di Dio
Di fatto, rendere tangibile l’identità di sacramento del primo passo di Dio, esigerà un continuo esodo interiore. «Non vi è infatti invito più efficace ad amare che essere primi nell’amare» (Agostino, De cat. rud., I, 4.7, 26: PL 40), e, pertanto, nessun ambito della missione episcopale può prescindere da questa libertà di compiere il primo passo. La condizione di possibilità per l’esercizio del ministero apostolico è la disposizione ad avvicinarsi a Gesù lasciando alle spalle «ciò che siamo stati, perché possiamo essere ciò che non eravamo» (Id., En. in ps., 121,12: PL 36).
Vi raccomando di vigilare non solo individualmente ma anche collegialmente, docili allo Spirito Santo, su questo permanente punto di partenza. Senza questo nucleo i lineamenti del Maestro illanguidiscono sul volto dei discepoli, la missione si blocca e diminuisce la conversione pastorale, che non è altro che dare risposta all’urgenza dell’annuncio del Vangelo della gioia oggi, domani e il giorno seguente (cfr Lc 13,33), zelo che consumò il Cuore di Gesù lasciandolo senza nido né riparo, dedito unicamente al compimento fino alla fine della volontà del Padre (cfr Lc 9,58.62). Quale altro futuro possiamo perseguire? A quale altra dignità possiamo aspirare?
Non misuratevi con il metro di quelli che vorrebbero che foste solo una casta di funzionari piegati alla dittatura del presente. Abbiate invece sempre fisso lo sguardo nell’eternità di Colui che vi ha scelti, pronti ad accogliere il decisivo giudizio delle sue labbra.
Nella complessità del volto di questa Chiesa colombiana, è molto importante preservare la singolarità delle sue differenti e legittime forze, le sensibilità pastorali, le peculiarità regionali, le memorie storiche, le ricchezze delle peculiari esperienze ecclesiali. La Pentecoste permette che tutti ascoltino nella propria lingua. Per tale ragione, cercate con perseveranza la comunione tra voi. Non stancatevi di costruirla attraverso il dialogo franco e fraterno, condannando come la peste i progetti nascosti. Siate solleciti nel compiere il primo passo l’uno verso l’altro. Anticipatevi nella disponibilità a comprendere le ragioni dell’altro. Lasciatevi arricchire da quello che l’altro può offrirvi e costruite una Chiesa che offra a questo Paese una testimonianza eloquente di quanto si può progredire quando si è disposti a non rimanere nelle mani di pochi. Il ruolo delle Provincie Ecclesiastiche in rapporto allo stesso messaggio di evangelizzazione è fondamentale, perché sono diverse e armonizzate le voci che lo proclamano. Per questo, non accontentatevi di un mediocre impegno minimo, che lasci i rassegnati nella tranquilla quiete della loro impotenza, mentre al tempo stesso placa quelle speranze che avrebbero bisogno del coraggio di essere riposte più sulla forza di Dio che sulla propria debolezza.
Riservate una particolare sensibilità per le radici afro-colombiane della vostra gente, che tanto generosamente hanno contribuito a disegnare il volto di questa terra.
Toccare la carne del corpo di Cristo
Vi invito a non avere paura di toccare la carne ferita della vostra storia e della storia della vostra gente. Fatelo con umiltà, senza la vana pretesa di protagonismo e con il cuore indiviso, libero da compromessi o servilismi. Solo Dio è il Signore e la nostra anima di Pastori non si deve sottomettere a nessun’altra causa.
La Colombia ha bisogno del vostro sguardo, lo sguardo proprio, tipico di Vescovi, per sostenerla nel coraggio del primo passo verso la pace definitiva, la riconciliazione, verso il ripudio della violenza come metodo, il superamento delle disuguaglianze che sono la radice di tante sofferenze, la rinuncia alla strada facile ma senza uscita della corruzione, il paziente e perseverante consolidamento della res publica, che richiede il superamento della miseria e della disuguaglianza.
Si tratta ovviamente di un compito arduo ma irrinunciabile: la strada è ripida e le soluzioni non sono ovvie. Dall’altezza di Dio, che è la croce del suo Figlio, otterrete la forza; con l’umile lucina degli occhi del Risorto percorrerete la via; ascoltando la voce dello Sposo che sussurra al cuore, riceverete i criteri per discernere di nuovo, in ogni incertezza, la giusta direzione.
Uno dei vostri illustri letterati scrisse parlando di uno dei suoi mitici personaggi: «Non immaginavo che fosse più facile iniziare una guerra che concluderla» (Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine, cap. 9). Tutti sappiamo che la pace esige dagli uomini un coraggio morale diverso. La guerra deriva da quanto di più basso c’è nel nostro cuore, la pace invece ci spinge ad essere più grandi di noi stessi. Poi, lo scrittore aggiungeva: «Non pensavo che ci sarebbero volute tante parole per spiegare quello che si provava nella guerra, in realtà ne bastava una sola: paura» (ibid., cap. 10). Non è necessario che vi parli di tale paura, di questa radice avvelenata, frutto amaro e nefasta eredità di ogni conflitto. Desidero incoraggiarvi a continuare a credere che si può agire diversamente, ricordando che non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura; lo stesso Spirito testimonia che siete figli destinati alla libertà della gloria ad essi riservata (cfr Rm 8,15-16).
Voi vedete con i vostri occhi e conoscete come pochi la deformazione del volto di questo Paese, siete custodi degli elementi fondamentali che lo rendono uno, nonostante le sue lacerazioni. Proprio per questo, la Colombia ha bisogno di voi per riconoscersi nel suo vero volto carico di speranza malgrado le sue imperfezioni, per perdonarsi reciprocamente nonostante le ferite non del tutto cicatrizzate, per credere che si può percorrere un’altra strada anche quando l’inerzia spinge a ripetere gli stessi errori, per avere il coraggio di superare quanto può renderla miserabile nonostante i suoi tesori.
Vi incoraggio – questo lo sento come un dovere, mi viene dall’anima, sento di dirlo –, abbiate il coraggio – voglio proprio trasmettervi questo coraggio –, vi incoraggio a non stancarvi di fare di ciascuna delle vostre Chiese un grembo di luce, capace di generare le nuove creature di cui questa terra ha bisogno. Rifugiatevi nell’umiltà della vostra gente per rendervi conto delle loro segrete risorse umane e di fede, ascoltate quanto la loro spogliata umanità brama grazie alla dignità che soltanto il Risorto può conferire. Non abbiate paura di migrare dalle vostre apparenti certezze alla ricerca della vera gloria di Dio, che è l’uomo vivente. Coraggio! Vi incoraggio in questo cammino.
La parola della riconciliazione
Molti possono contribuire alla sfida di questa Nazione, ma la vostra missione è peculiare. Voi non siete tecnici né politici, siete Pastori. Cristo è la parola di riconciliazione scritta nei vostri cuori e avete la forza di poterla pronunciare non solo sui pulpiti, nei documenti ecclesiali o negli articoli dei periodici, ma più ancora nel cuore delle persone, nel segreto santuario delle loro coscienze, nell’ardente speranza che li attira all’ascolto della voce del cielo che proclama: «Pace agli uomini, che Dio ama» (Lc 2,14). Voi dovete pronunciarla con la fragile, umile, ma invincibile risorsa della misericordia di Dio, l’unica capace di abbattere, di sconfiggere la cinica superbia dei cuori autoreferenziali.
Alla Chiesa non interessa altro che la libertà di pronunciare questa Parola, essere libera di pronunciare questa Parola. Non servono alleanze con una parte o con l’altra, bensì la libertà di parlare ai cuori di tutti. Proprio lì avete l’autonomia e il potere di inquietare, lì avete la possibilità di sostenere una inversione di rotta.
Il cuore umano, molte volte ingannato, concepisce l’insensato progetto di fare della vita un continuo aumento di spazi per depositare ciò che accumula. Ma è un inganno. Proprio qui è necessario che risuoni la domanda: A che serve guadagnare il mondo intero se rimane il vuoto nell’anima (cfr Mt 16,26)?
Dalle vostre labbra di legittimi Pastori di Cristo, quali siete, la Colombia ha il diritto di essere interpellata dalla verità di Dio, che ripete continuamente: «Dov’è tuo fratello?» (Gen 4,9). E’ un interrogativo che non può essere taciuto, nemmeno quando chi lo ascolta non può far altro che abbassare lo sguardo, confuso, e balbettare la propria vergogna per averlo venduto, magari al prezzo di qualche dose di stupefacente o un errato concetto di ragion di Stato, oppure per la falsa coscienza che il fine giustifica i mezzi.
Vi prego di tenere sempre lo sguardo fisso all’uomo concreto. Non servite un concetto di uomo, ma la persona umana amata da Dio, fatta di carne e ossa, storia, fede, speranza, sentimenti, delusioni, frustrazioni, dolori, ferite, e vedrete che questa concretezza dell’uomo smaschera le fredde statistiche, i calcoli manipolati, le strategie cieche, le informazioni distorte, ricordandovi che «in realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» (Gaudium et spes, 22).
Una Chiesa in missione
Tenendo conto del generoso lavoro pastorale che già svolgete, permettetemi di presentarvi ora alcune ansie che porto nel mio cuore di Pastore, desideroso di esortarvi a essere sempre di più una Chiesa in missione. I miei Predecessori hanno già insistito su alcune di queste sfide: la famiglia, la vita, i giovani, i sacerdoti, le vocazioni, i laici, la formazione. Nei decenni scorsi, nonostante il grande lavoro, forse sono diventate ancora più faticose le risposte per rendere efficace la maternità della Chiesa nel generare, nutrire e accompagnare i suoi figli.
Penso alle famiglie colombiane, alla difesa della vita dal seno materno fino alla sua fine naturale, alla piaga della violenza e dell’alcolismo, non di rado diffusa nelle famiglie, alla fragilità del vincolo matrimoniale e l’assenza dei padri di famiglia con le sue tragiche conseguenze di insicurezza e orfanezza. Penso a tanti giovani minacciati dal vuoto dell’anima e presi dalla droga come via di uscita, o dallo stile di vita facile o dalla tentazione sovversiva. Penso ai numerosi e generosi sacerdoti e alla sfida di sostenerli nella fedele e quotidiana scelta per Cristo e per la Chiesa, mentre alcuni altri continuano a portare avanti la comoda neutralità di quelli che non scelgono nulla per rimanere soli con sé stessi. Penso ai fedeli laici sparsi in tutte le Chiese particolari, che resistono faticosamente nel lasciarsi radunare da Dio che è comunione, anche quando non pochi proclamano il nuovo dogma dell’egoismo e della morte di ogni solidarietà, parola che vogliono togliere dal dizionario. Penso all’immenso sforzo di tutti per approfondire la fede e renderla luce viva per i cuori e lampada per fare il primo passo.
Non vi porto ricette né veglio lasciarvi una lista di compiti. In fondo vorrei pregarvi che, realizzando in comunione la vostra gravosa missione di Pastori in Colombia, conserviate la serenità. Non so se dirvelo ora, però, se esagero, perdonatemi, ma mi viene in mente che questa è una virtù di cui c’è più bisogno: conservate la serenità. Non perché voi non l’abbiate, ma è che c’è bisogno di averne di più. Sapete bene che di notte il maligno continua a seminare zizzania, ma abbiate la pazienza del Padrone del campo, confidando nella buona qualità dei vostri semi. Imparate dalla sua longanimità e magnanimità. I suoi tempi sono lunghi perché è smisurato il suo sguardo d’amore. Quando l’amore è scarso, il cuore diventa impaziente, turbato dall’ansia di fare cose, divorato dalla paura di aver fallito. Credete soprattutto nell’umiltà del seme di Dio. Fidatevi della potenza nascosta del suo lievito. Orientate il cuore al fascino stupendo che attrae e fa vendere tutto pur di possedere quel tesoro divino.
In effetti, che cosa di più forte potete offrire alla famiglia colombiana della forza umile del Vangelo dell’amore generoso che unisce l’uomo e la donna, rendendoli immagine dell’unione di Cristo con la Chiesa, messaggeri e custodi della vita? Le famiglie hanno bisogno di sapere che in Cristo possono diventare alberi frondosi capaci di offrire ombra, di dare frutto in ogni stagione dell’anno, di ospitare la vita tra i loro rami. Sono molti oggi quelli che rendono omaggio ad alberi senza ombra, infecondi, a rami privi di nidi. Per voi, il punto di partenza sia la testimonianza gioiosa che la felicità sta altrove.
Che cosa potete offrire ai vostri giovani? Loro vogliono sentirsi amati, diffidano di quelli che li sottovalutano, chiedono coerenza limpida e aspettano di essere coinvolti. Accoglieteli, pertanto, con il cuore di Cristo e aprite loro spazi nella vita delle vostre Chiese. Non partecipate ad alcun negoziato che svenda le loro speranze. Non abbiate paura di alzare serenamente la voce per ricordare a tutti che una società che si lascia sedurre dal miraggio del narcotraffico trascina sé stessa in quella metastasi morale che mercanteggia l’inferno e semina dovunque la corruzione, e nello stesso tempo ingrassa i paradisi fiscali.
Che cosa potete dare ai vostri sacerdoti? Il primo dono è quello della vostra paternità, che assicuri che la mano che li ha generati e unti non sia ritirata dalla loro vita. Viviamo nell’era dell’informatica e non ci è difficile raggiungere i nostri sacerdoti in tempo reale con qualche programma di messaggi. Ma il cuore di un padre, di un Vescovo, non può limitarsi a comunicare col suo presbiterio in maniera precaria, impersonale ed esteriore. Non può lasciare il cuore del Vescovo la preoccupazione, la sana inquietudine su dove vivono i suoi sacerdoti. Vivono veramente secondo Gesù? O si sono improvvisati altre sicurezze come la stabilità economica, l’ambiguità morale, la doppia vita o l’aspirazione miope alla carriera? I sacerdoti hanno necessità, urgente e vitale, della vicinanza fisica e affettiva del loro Vescovo. Hanno bisogno di sentire che hanno un padre.
Sulle spalle dei sacerdoti pesa spesso la fatica del lavoro quotidiano della Chiesa. Essi sono in prima linea, continuamente circondati dalla gente che, abbattuta, cerca in loro il volto del Pastore. La gente si avvicina e bussa alla porta del loro cuore. Essi devono dare da mangiare alle folle e il cibo di Dio non è mai una proprietà di cui si può disporre senz’altro. Al contrario, proviene solamente dall’indigenza messa a contatto con la bontà divina. Congedare la folla e cibarsi del poco che si può indebitamente fare proprio è una tentazione permanente (cfr Lc 9,13).
Vigilate pertanto sulle radici spirituali dei vostri sacerdoti. Conduceteli continuamente a quella Cesarea di Filippo dove, dalle origini del Giordano di ciascuno, possano sentire nuovamente la domanda di Gesù: “Chi sono io per te?”. La
ragione del graduale deteriorarsi che molte volte porta alla morte del discepolo è sempre in un cuore che non può più rispondere: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio” (cfr Mt 16,13-16). Da qui viene meno il coraggio della irreversibilità del dono di sé, e deriva anche il disorientamento interiore, la stanchezza di un cuore che non sa più accompagnare il Signore nel suo cammino verso Gerusalemme.
Curate specialmente, per favore, l’itinerario formativo dei sacerdoti, a partire dalla nascita della chiamata di Dio nei loro cuori. La nuova Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis, recentemente pubblicata, è una valida risorsa, ancora da applicare, affinché la Chiesa in Colombia sia all’altezza del dono di Dio che mai ha smesso di chiamare al sacerdozio tanti suoi figli.
Non trascurate, per favore, la vita dei consacrati e delle consacrate. Essi costituiscono lo schiaffo cherigmatico ad ogni mondanità e sono chiamati a bruciare qualsiasi riflusso di valori mondani nel fuoco delle beatitudini vissute sine glossa e nel totale abbassamento di sé stessi nel servizio. Per favore, non considerateli come “risorse utili” per le opere apostoliche; piuttosto, sappiate riconoscere in essi il grido dell’amore consacrato della Sposa: «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20).
Riservate la stessa preoccupazione formativa ai laici, dai quali dipende non solo la solidità delle comunità di fede, ma gran parte della presenza della Chiesa negli ambiti della cultura, della politica, dell’economia. Formare nella Chiesa significa porsi in contatto con la fede vivente della Comunità viva, introdursi in un patrimonio di esperienze e di risposte suscitati dallo Spirito Santo, perché è Lui che insegna tutte le cose (cfr Gv 14,26).
E prima di concludere – è già un po’ lungo – un pensiero vorrei rivolgere alle sfide della Chiesa in Amazzonia, regione della quale siete giustamente orgogliosi, perché è parte essenziale della meravigliosa biodiversità di questo Paese. L’Amazzonia è per tutti noi una prova decisiva per verificare se la nostra società, quasi sempre ridotta al materialismo e al pragmatismo, è in grado di custodire ciò che ha ricevuto gratuitamente, non per saccheggiarlo, ma per renderlo fecondo. Penso soprattutto all’arcana sapienza dei popoli indigeni dell’Amazzonia e mi domando se siamo ancora capaci di imparare da essi la sacralità della vita, il rispetto per la natura, la consapevolezza che la ragione strumentale non è sufficiente per colmare la vita dell’uomo e rispondere alla ricerca profonda che lo interpella.
Per questo vi invito a non abbandonare a sé stessa la Chiesa in Amazzonia. Il rafforzamento, il consolidamento di un volto amazzonico per la Chiesa che qui è pellegrina è una sfida di tutti voi, che dipende dal crescente e consapevole appoggio missionario di tutte le diocesi colombiane e di tutto il suo clero. Ho ascoltato che in alcune lingue native amazzoniche per riferirsi alla parole “amico” si usa l’espressione “l’altro mio braccio”. Siate pertanto l’altro braccio dell’Amazzonia. La Colombia non la può amputare senza essere mutilata nel suo volto e nella sua anima.
Cari fratelli,
vi invito a rivolgerci spiritualmente a Nostra Signora del Rosario di Chiquinquirá, la cui immagine avete avuto la delicatezza di portare dal suo Santuario alla magnifica Cattedrale di questa città perché anch’io la potessi contemplare.
Come ben sapete, la Colombia non può dare a sé stessa il Rinnovamento a cui aspira, senza che esso venga concesso dall’alto. Imploriamolo dunque dal Signore, per mezzo della Vergine.
Come a Chiquinquirá Dio ha rinnovato lo splendore del volto di sua Madre, Egli continui a illuminare con la sua luce celeste il volto di questo intero Paese e benedica la Chiesa in Colombia accompagnandola con la sua bontà, e benedica voi. Vi ringrazio per tutto quello che fate.
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