Una donna che vive nell’eterna nostalgia di un figlio perduto. Una morte che l’ha resa inconsolabile, anche dopo il matrimonio e la nascita di altri due bambini. Un dolore troppo profondo ed inesprimibile a parole, che la porterà a meditare il suicidio. Quel figlio, l’ha perduto per sua volontà. L’ha fatto morire lei. L’ha ucciso lei.
La voce sottile (Youcanprint, 2015), di Antonella Perconte Licatese, è un rarissimo – forse unico – esempio di romanzo che tratta coraggiosamente il tema dell’aborto. L’autrice non narra vicende autobiografiche, non è un medico, né una psicologa, né una volontaria di un centro di aiuto alla vita ma si è avvicinata ai temi pro-life, sospinta dalla curiosità umana e dal provvidenziale incontro con alcune persone, che hanno smosso in lei una passione profonda per la causa dei bambini non nati.
Autrice teatrale e docente, la Perconte ha elaborato il suo primo romanzo nella forma di un diario ricco di pathos ed espressività ma non privo di un background di testimonianze e del rigore scientifico di saggi che trattano la sindrome del post-aborto.
Ne esce quindi un ritratto crudo, quasi impietoso, della donna che compie questa scelta drammatica: il tentativo di rimuovere l’atto compiuto, il gelo interiore, il tentativo fallito di ricostruirsi una vita normale, quando, nel profondo dell’anima, c’è un desiderio di morire.
Anna è un’insegnante di provincia, sposata con due bambini, dall’esistenza apparentemente normale. Un cupo e impercettibile dolore, tuttavia, la attraversa ed è legato a proprio a quel bambino da lei rifiutato. Il male di vivere la accompagna e lei inizia a somatizzarlo in maniera sempre più vistosa.
Nel suo diario, la donna si rivolge costantemente al figlio, con parole struggenti e colme di un amore materno che non ha potuto realizzarsi. Non riesce a perdonare se stessa per il male fatto. Nei suoi flash back, ricostruisce la tragica vicenda: quel bambino, concepito fuori dal matrimonio, con l’uomo successivamente sposato, lei lo voleva. I condizionamenti familiari e le ‘nuove convenzioni sociali’ l’hanno però indotta a una decisione contraria alla sua coscienza.
Il prosieguo della narrazione è segnato dalla sempre più vertiginosa discesa nell’abisso di un’anima. Nel tentativo di affrontare a viso aperto la sua devastazione interiore, Anna decide di recarsi, in pieno inverno, nella località marittima dove tredici anni prima, il bambino, poi abortito, era stato concepito.
La disperazione della povera donna sembra a un punto di non ritorno, poi, improvvisamente, qualcosa cambia: il monologo rivolto a quel figlio crudelmente soppresso, diventa un grido silenzioso, un’implorazione di perdono. Per Anna è l’inizio di una nuova vita, il cui primo passo si concretizzerà in una decisione particolarmente sorprendente e coraggiosa.
Tra i pregi dell’opera prima di Antonella Perconte Licatese spicca l’assoluta assenza di qualunque facile moralismo. Facendo parlare la realtà, anche nei suoi aspetti più desolanti, e trasformandola in poesia, l’autrice ha realizzato un romanzo che, per la sua sincerità e delicatezza saprà colpire la sensibilità di molti e indurre ad una riflessione, in particolare chi crede che l’aborto sia una “libera scelta”.