Tra gli innumerevoli articoli pubblicati in merito alle vicende che riguardano l’Istituto Opere religiose (IOR) si parla spesso delle misure che il Vaticano sta prendendo per rispondere ai criteri internazionali di trasparenza e alle norme antiriciclaggio.
Si legge spesso di qualche banca inserita nella black list o nella white list. Ma che significa questa espressione?
Sul sito web del Ufficio delle Entrate, come peraltro in quello dell’OCSE, ogni anno è possibile trovare gli aggiornamenti sui “paradisi fiscali”, ovvero, la lista di quegli Stati o territori che non si sono impegnati a rispettare gli standard internazionali in materia di anti-riciclaggio.
Ma cosa vuol dire essere in black list? Anche la letteratura noir ed il cinema si sono occupati di questo argomento, basti pensare, per tutti, al romanzo di John Grisham Il Socio, del 1991, dal quale è stato successivamente tratto l’omonimo film, interpretato, tra gli altri, da Tom Cruise e da Gene Hackman.
Nel dare uno sguardo alla lista, fino al 2015, ben tre Stati europei erano nella black list: Lussemburgo, San Marino, e addirittura, la Città del Vaticano. C’è da dire che il fatto che anche la Città del Vaticano fosse tra i paesi nella lista nera, ha dato modo, a tanti, di parlare, a volte (permetteteci di dire) un po’ sopra le righe.
Cerchiamo, allora, per quanto ci è possibile di fare luce, o almeno di tentare di spiegare per primo a noi stessi, in che cosa esattamente consista lo sforzo fatto da questi tre Stati per uscire dalla black list.
In particolare da quando c’è l’euro, infatti, gli Stati soprammenzionati hanno dovuto superare non pochi esami per entrare nel club dei paesi impermeabili, in astratto, al riciclaggio del denaro sporco. Ma il processo di analisti e revisione non è indolore e, nel caso i questione, ha comportato vedere funzionari europei controllare bilanci ed investimenti di stati sovrani.
Ma cosa si controlla, o meglio, di cosa occorre dare evidenza? Nella sostanza, dei soggetti che, siano essi persone fisiche o giuridiche, abbiano depositi o movimentino danaro sui conti di banche con sede nello Stato.
Chiediamoci adesso quali siano i motivi per chiedere la riservatezza e quali ragioni abbia una banca per accordarla. Per l’intermediario bancario, la questione è semplice e può riassumersi nel fatto che dare la riservatezza vuol dire assicurarsi più depositi.
Chiediamoci ancora, tuttavia: perché c’è tale domanda di riservatezza? Alcune motivazioni sono legittime, altre di natura meramente truffaldina.
Le motivazioni legittime vanno da esigenze di confidenzialità personali, che richiedono adeguati strumenti di schermatura societaria, ad opportunità di ottimizzazione fiscale prevalentemente da parte di persone giuridiche, ma anche di persone fisiche.
La domanda di natura illecita è, invece, volta ad agevolare il reinvestimento di fondi di origine illegale tramite l’impiego di servizi finanziari che garantiscano un adeguato grado di opacità. Ovviamente, tali esigenze non sono necessariamente alternative tra loro ma possono ben coesistere e, quindi, possono configurarsi operazioni illecite di arbitraggio fiscale e/o di schermatura societaria.
Per esemplificare – speriamo efficacemente – supponiamo che un soggetto abbia la necessità, ad esempio, perché si trova nell’imminenza della bancarotta, di trasferire a terzi la proprietà di proprie società o rami d’azienda, pur mantenendone il controllo. Una strategia funzionale ad impedire che tali asset possano comunque essere a lui riconducibili, è di trasferirli all’estero, con il coinvolgimento di paesi e giurisdizioni diverse, al fine di creare una rete molto strutturata di nessi proprietari e di flussi finanziari, che sia difficilmente ricostruibile nell’ambito delle procedure concorsuali o nel caso vengano avviati dei procedimenti giudiziari.
E così, per la titolarità delle società si può rivolgere a paesi in cui è possibile costituire facilmente veicoli societari scarsamente trasparenti: ad esempio, un trust controllato in qualità di trustee da società anonime con sede nello stesso paese, oppure società a responsabilità limitata con sede in altre giurisdizioni, preferibilmente ad alto livello di opacità o a fiscalità privilegiata (in modo anche da ottimizzare il carico fiscale).
Per garantirsi il controllo delle società, i soggetti in questione possono nominare dei prestanome come amministratori delle stesse, avvalendosi, ad esempio, di servizi da parte di professionisti legali e contabili operanti in altri paesi, in modo da poter facilmente indirizzare la gestione aziendale. Infine, per la gestione finanziaria, possono essere costituiti dei rapporti finanziari intestati alle società presso intermediari con sede in quelle giurisdizioni che offrono tutele del segreto bancario, ovvero, non prestano un adeguato livello di collaborazione in campo giudiziario o antiriciclaggio a livello internazionale.
C’è dunque del buono di fondo nella questione delle liste bianche, compilate da organismi sovranazionali, ma ne consegue un’importante perdita di sovranità, come tanti acuti economisti negli anni hanno avuto modo di osservare. Tuttavia, se non si accetta tale ingerenza, il paese in black list avrà un enorme danno all’immagine che, nel caso del Vaticano, è, a parere di chi scrive, ancora più alto.
E comunque, quante liste esistono? Abbiamo una lista nera, una grigia, una grigio chiara e, infine, una lista bianca. Al momento Costa Rica, Malesia, Filippine e Uruguay sono, i Paesi presenti nella lista nera Ocse sui paradisi fiscali[1]. Ricordiamo che chi si trova nell’elenco sarà soggetto a sanzioni, secondo quanto previsto dall’accordo firmato in sede G20.
Nella lista bianca vi sono gli Stati o territori che hanno seguito gli standard internazionali, stipulando almeno 12 accordi conformi a queste regole; attualmente sono i seguenti: Argentina, Australia, Barbados, Canada, Cina, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Guernesey, Ungheria, Islanda, Irlanda, Isola di Man, Italia, Giappone, Jersey, Corea, Malta, Mauritius, Messico, Olanda, Nuova Zelanda, Norvegia, Polonia, Portogallo, Russia, Seychelles, Slovacchia, Sudafrica, Spagna, Svezia, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito, Stati Uniti, Isole Vergini.
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[1]Lista grigia (sono 31 stati o territori che si sono impegnati a rispettare gli standard internazionali ma che, ad oggi, hanno siglato meno di dodici accordi conformi a questi standard): Andorra, Anguilla, Antigua, Barbuda, Aruba, Bahamas, Bahrein, Belize, Bermuda, Isole Vergini Inglesi, Isole Cayman, Isola Cook, Dominica, Gibilterra, Grenada, Liberia, Liechtenstein, Isole Marshall, Monaco, Montserrat, Nauru, Antille Olandesi, Niue, Panama, St Kitts e Nevis, Santa Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Samoa, San Marino, Isole Turk e Caicos, Vanuatu. Lista grigio chiara (8 Paesi): Austria, Belgio, Brunei, Cile, Guatemala, Lussemburgo, Singapore, Svizzera. Macao e Hong Kong, territori cinesi, si sono impegnati nel 2009 a conformarsi agli standard internazionali e, in ragione di ciò, questi due territori non sono più menzionati nella lista grigia.