Riconciliare in qualche modo le vittime dei reati e i loro colpevoli, durante lo sconto della pena carceraria, e riparare le ferite nelle vite di entrambi. Prison Fellowship International è impegnato in questa difficile opera da una quarantina d’anni. Molto più recente è la diffusione del progetto anche in Italia, in cui il Rinnovamento nello Spirito Santo ha avuto un ruolo determinante.
A colloquio con ZENIT, Marcella Reni, presidente della sezione italiana di Prison Fellowship e responsabile dell’area carismatica del RnS, ha illustrato le attività dell’associazione, annunciando un’interessante attività natalizia.
Dottoressa Reni, quali sono gli scopi e le modalità di azione di Prison Fellowship?
In Italia, Prison Fellowship arriva nel 2009 ma in America è attivo già dal 1976. È articolato in circa 125 associazioni nazionali federate, presenti in tutti e cinque i continenti. È un’associazione per i diritti dei detenuti e per la tutela delle loro condizioni carcerarie; al tempo stesso tutela anche i diritti delle vittime. Prison Fellowship è presente anche in nazioni come il Pakistan, l’Iran o la Cina, dove vige ancora la tortura, o in paesi del Sudamerica, dove le condizioni carcerarie sono pessime.
In Italia, Prison Fellowship nasce con un progetto prioritario, il Progetto Sicomoro, che intende mettere a confronto detenuti e vittime indirette, ovvero vittime dei loro stessi reati ma da parte di altre persone. Il percorso del Progetto Sicomoro si svolge all’interno delle strutture carcerarie: siamo ormai arrivati a trattare moltissimi detenuti e vittime, con risultati eccellenti. Parliamo di una giustizia riparativa che definiamo “surrogata” (proprio perché non vi è una mediazione diretta tra vittima e detenuto), che porta però a risultati eccezionali nel trattamento del detenuto, il quale cambia vita e mentalità, riconosce ciò che ha fatto ed assume una consapevolezza nuova, con un desiderio di riparare, laddove è possibile, con le modalità più disparate: dal fare qualcosa per la vittima e per la società, allo scrivere semplicemente una richiesta di perdono, laddove il danno sia irreparabile. Il risultato eccezionale, però, è in particolare sulle vittime, che ritrovano serenità e, soprattutto – risultato che abbiamo constatato nel 100% dei casi – una nuova fiducia nell’essere umano in quanto tale, al di là del suo errore e prescindendo dal suo sbaglio. L’errore spesso è irreparabile ma l’uomo va avanti e la dignità umana rimane, così come rimane l’impronta di Dio nel cuore del detenuto.
Lo scorso mese si è tenuta a Roma una conferenza sul progetto Building Bridges promossa da alcuni dei partner europei di Prison Fellowship International. Qual è il bilancio di questo evento?
Building bridges è un progetto europeo, costruito proprio sul Progetto Sicomoro. Vi hanno partecipato sette paesi europei, le università di Ulm e Manchester, un Centro di Ricerca viennese. Il Progetto è portato avanti in 14 sperimentazioni: tutte quante hanno prodotto gli stessi risultati di conversione e riparazione nelle vittime che, sono diventate – anche in Italia – persino volontari nella ricerca di nuove vittime, perché hanno compreso quanto sia fecondo questo percorso e quanto sia riparatore delle ferite, anche emotive e della memoria. Non è in gioco, infatti, soltanto la riparazione materiale ed economica ma anche la restaurazione psicologica, affettiva ed emotiva. Tutto questo è un risultato veramente positivo. La cosa che mi preme dire è che in Italia la giustizia riparativa viene studiata: stiamo ancora facendo accademia ed abbiamo delle interessantissime soluzioni di mediazione diretta tra veri colpevoli e vere vittime. Quello che ci proponiamo è un raggio più ampio, trattando con tutte le vittime possibili e di tutti i crimini possibili, utilizzando detenuti all’interno delle strutture carcerarie o anche ex detenuti all’esterno, in maniera che la riparazione raggiunga il maggior numero possibile sia di vittime, sia di detenuti, mettendo al centro la vittima, affinché questa non si senta ancor più vittimizzata ma diventi protagonista del processo riparativo.
Lei è un esponente di spicco del Rinnovamento nello Spirito Santo italiano, per mezzo del cui carisma, gli autori e le vittime di molti reati hanno sperimentato la riconciliazione. Quanto è contato questo fattore nelle attività di Prison Fellowship?
Non è un caso che Prison Fellowship International si sia rivolta al Rinnovamento nello Spirito per generare Prison Fellowship Italia: questa sensibilità è già presente nei nostri volontari, i quali, nella fase iniziale ma, ancor più, nella fase a regime, vengono dal mondo del Rinnovamento nello Spirito. Gli extra sono le vittime o anche chi ha partecipato ad un progetto del Percorso Sicomoro. Io stessa, da direttore del RnS, sono diventata presidente di questa associazione, la quale nasce in America ad opera di un uomo, deceduto alcuni anni fa, che ho avuto la fortuna di conoscere: lui era Chuck Colson, braccio destro di Nixon ai tempo del Watergate. Colson pagò per quello scandalo, scontando tre anni di reclusione, durante i quali sperimentò la durezza delle condizioni carcerarie. Uscito dal carcere, disse: “con Gesù nel cuore, il carcere può avere ancora un aspetto umano”. Il detenuto, quindi, può ancora conservare un barlume di dignità umana ma senza Gesù nel cuore, il carcere è un posto disumano. Al termine di questa profonda esperienza, che lo ha segnato per il resto della sua vita, Colson ha cambiato vita, ha venduto tutti i suoi beni e ha messo a disposizione il ricavato a questa associazione da lui fondata. Avendo contatti in tutto il mondo per il ruolo che ricopriva, Colson riuscì ad estendere molto rapidamente la sua attività a livello globale.
Qual è il prossimo impegno di Prison Fellowship Italia?
Stiamo accedendo a un numero sempre maggiore di carceri, conoscendo sempre più detenuti, i quali rimangono tali, pur avendo noi dato loro speranza e una liberazione del cuore (la libertà non possiamo né dargliela, né fargliela sperare). Torneremo, quindi, nelle carceri con un altro progetto, quello di renderli felici, almeno un giorno l’anno. Lo scorso anno abbiamo sperimentato con successo il pranzo di Natale a Rebibbia, mentre quest’anno lo vogliamo portare in cinque carceri italiane, con uno chef di alta qualità e “stellato”, perché il loro pranzo sia d’eccellenza, facendo loro sognare quello che nemmeno immaginano di poter avere. In molte di queste carceri entreranno a pranzare con loro anche i familiari (figli piccoli, mogli, compagne). Prepareremo questo pranzo, durante il quale ci allieteranno con la loro presenza, dei volontari – tra cui attori e comici – che si sono fatti coinvolgere con grande gioia e piacere. Offriremo questo pranzo per far “giubilare” i detenuti e le loro famiglie, proprio all’inizio dell’Anno Santo, mostrando loro un’opera di misericordia.