Un “nuovo inizio” che guarda al passato celebrando una pietra miliare del magistero cattolico come la Nostra Aetate, a 50 anni dalla sua promulgazione, ma che rilancia un lavoro per il futuro che non esclude una “seconda edizione” della dichiarazione conciliare, “anche senza Concilio”.
Grandi premesse (e promesse) e segnali di stima – da parte anche di illustri rappresentati ebraici quali il rabbino David Rosen, direttore dell’Interreligious Affairs, American Jewish Committee, e il britannico Edward Kessler, direttore del Woolf Institute, Cambridge – hanno accolto il documento Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili, presentato oggi in Sala Stampa vaticana dal cardinale Kurt Koch.
Stilato dalla Commissione per i rapporti religiosi con l’Ebraismo, di cui il porporato svizzero è presidente, il testo – che “non è un documento magisteriale”, né “un insegnamento dottrinale della Chiesa cattolica” – si propone come strumento per una più approfondita e, volendo, più aggiornata riflessione su questioni teologiche attinenti alle relazioni cattolico-ebraiche.
La redazione è durata complessivamente due anni e mezzo, con bozze già nel 2013 approvate da Benedetto XVI che “si era detto favorevole alla stesura di un simile documento”, come ha spiegato p. Norbert Hofmann, S.D.B., segretario della commissione. Soltanto con il “placet” di Francesco poco dopo la sua elezione, tuttavia, il lavoro è potuto iniziare.
Nel testo si trovano riferimenti non solo all’Antico ed al Nuovo Testamento, ma anche alla Mishna ed al Talmud. E in ogni singola parola riecheggia lo spirito della Nostra Aetate, documento che fu “un plaidoyer a favore del dialogo interreligioso”, segnando “una svolta nell’atteggiamento della Chiesa cattolica verso le altre religioni”. Specie l’ebraismo, nei confronti dei quali per la prima volta fu espressa “la decisa posizione teologica di un Concilio” che, al quarto punto, ricordò “le radici ebraiche del cristianesimo”.
Un documento fondamentale, quindi, e anche tanto caro a Papa Francesco che ha voluto commemorarlo con la speciale udienza generale dello scorso 28 ottobre, alla quale hanno assistito numerosi rappresentanti di altre religioni. Riprendendone i principi teologici, la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo – organismo istituito dal beato Papa Paolo VI il 22 ottobre 1974 – ha quindi approfittato della ricorrenza per “chiarire le questioni che sono affiorate negli ultimi decenni nel dialogo ebraico-cattolico”.
Rispetto ai primi tre documenti formulati dalla Commissione (1974, sugli orientamenti per applicare la Nostra Aetate; 1985, su predicazione e catechesi; 1998, sulla Shoah), quello di oggi – ha spiegato Koch – non presenta “affermazioni dottrinali definitive”, ma piuttosto fornisce “uno spunto ed un impulso per ulteriori discussioni teologiche”.
A cominciare dalla valutazione della figura di Gesù, “percepito in maniera diversa da cristiani e da ebrei”. Cristo infatti “nasce, vive e muore come ebreo” e può essere definito dagli ebrei “come un appartenente al loro popolo, un maestro ebraico che ha sentito di essere chiamato in modo particolare ad annunciare il Regno di Dio”. Ma Gesù “trascende” la tradizione ebraica dell’epoca, poiché “secondo la fede cristiana, Egli non può essere considerato soltanto come ebreo, ma anche e soprattutto come Messia e Figlio di Dio”.
Questa è solo una delle tante differenze (le altre sono l’interpretazione della Parola, il rapporto tra Antico e Nuovo Testamento, la concezione della salvezza, il rapporto con l’evangelizzazione) che fanno meglio definire il dialogo ebraico-cristiano come ‘intra-religioso’ o ‘intra-familiare’ sui generis, piuttosto che ‘interreligioso’ in senso stretto, ha specificato Koch. Tuttavia, ha sottolineato, “da un punto di vista teologico si può parlare di un legame di parentela strettissimo e imprescindibile”.
Legame intaccato comunque da controversie rimaste irrisolte in questi 50 anni e che richiedono un ulteriore studio. Il cardinale ha citato ad esempio la discussione sulla costruzione del Carmine in Polonia e la rimessa della scomunica ai lefebvriani da parte di Benedetto XVI e quindi al vescovo Richard Williamson, negazionista della Shoah. Un “grande problema”, questo, che tuttavia “il dialogo universale, soprattutto grazie al card. Kasper, ha permesso di risolvere molto rapidamente”. Poi c’è il problema della “teologia della sostituzione”, ha detto Kessler, secondo cui i cristiani sarebbero subentrati agli ebrei nei favori di Dio.
Da vagliare anche la discussione sulla preghiera del Venerdì santo nel rito latino, con la formula Oremus et pro perfidis Judaeis, in cui si domanda una futura salvezza per gli ebrei. Secondo Koch, tale orazione “viene male interpretata” in quanto si tratta di una “preghiera escatologica” che guarda “alla fine dei tempi”. Essa è prevista per il rito straordinario, volendo “si può utilizzare quella del rito ordinario che non crea questi malintesi”, ha detto. Da parte sua il rabbino Rosen, ribadendo a più riprese che comunque “ogni cosa va interpretata nel suo contesto”, ha sottolineato che il rito antico è seguito da una “piccola percentuale di cattolici”, ma che sarebbe più opportuno modificare il titolo per la “conversione” degli ebrei che può essere “male interpretato e male compreso”.
Ancor più intricata la diatriba sulla beatificazione di Papa Pio XII, che – ha spiegato Rosen – divide non solo cattolici ed ebrei, ma lo stesso popolo ebraico. C’è infatti chi afferma: “Non possiamo accettare questa beatificazione” e chi sostiene: “Lo dobbiamo riconoscere Giusto tra le Nazioni”. “Spero – ha aggiunto il rabbino – che arriverà un giorno in cui saremmo abbastanza maturi da capire di essere d’accordo sul fatto di non essere d’accordo”.
Per Koch, si tratta comunque di “una questione interna della Chiesa cattolica”; è chiaro, però, che la Chiesa vuole essere “cauta” e “non danneggiare” il reciproco dialogo. Forse – suggeriva un giornalista in sala – aprire gli archivi storici della Santa Sede potrebbe aiutare a fare chiarezza sulla figura e l’operato del Pontefice durante i drammatici anni dell’Olocausto. “La nostra commissione non è responsabile di tutto”, ha ribattuto il cardinale, sottolineando che “Papa Francesco è molto aperto per la questione di aprire gli archivi e chiarificare le situazioni”.
Al di là delle distanze teologiche e delle questioni spinose, ci sono tuttavia temi su cui la comunanza tra ebrei e cattolici è indubbia. E riguardano l’impegno a favore della giustizia, della pace, della salvaguardia del creato e della riconciliazione in tutto il mondo, come pure la lotta comune contro ogni manifestazione di discriminazione razziale verso gli ebrei e contro ogni forma di antisemitismo. Sfide che il documento segnala come obiettivi da raggiungere al più presto. E farlo insieme.
“Siamo in un momento storico importante, ma la strada da fare è ancora tanta”, ha soggiunto rabbi Rosen, dicendosi fiducioso del fatto che ogni problema può essere “discusso nel dialogo e affrontato con serenità”, perché, a partire dalla Nostra Aetate, si è realizzata una “rivoluzione copernicana dell’atteggiamento della Chiesa verso gli ebrei”. È stato cioè “ripudiato il ritratto del popolo ebraico condannato a non avere una terra fino al prossimo Avvento di Dio”, ed è emerso invece lungo questi 50 anni “uno spirito diverso, uno spirito di amore”.
Lo hanno dimostrato le visite di ben quattro Papi in Terra Santa e di tre (contando anche quella di Francesco il prossimo gennaio) nella Sinagoga di Roma. Proprio il luogo in cui Giovanni Paolo II definì gli ebrei “fratelli maggiori” nella fede. Due parole che sintetizzavano perfett
amente la lunga strada intrapresa verso la riconciliazione, e che oggi risultano quanto mai profetiche.