E’ ente un fiore, è ente un colore, è ente un raffreddore, ma fiore, colore e raffreddore sono cose diverse e se viene utilizzato lo stesso termine per denotarle sembra che vengano cancellate le loro diversità essendo tutte identicamente ente e avrebbe quindi ragione Parmenide nel negare l’esperienza sensibile che attesta la molteplicità e la diversità delle cose e affermare semplicemente che l’ente è e il diverso dall’ente è il nulla.
L’esperienza sensibile è innegabile ed è il punto di partenza dell’analisi metafisica, insieme al principio di non contraddizione, ed è quindi necessario riflettere sul significato del termine ente. Esso infatti può riferirsi a realtà diverse come un fiore, un colore, un raffreddore perché questo termine nomina realtà che hanno significati diversi, ma sempre in relazione a un unico significato (il concetto di ente).
Il termine ente, come afferma Aristotele, è predicato “in molti modi”, cioè è predicato analogicamente, con un significato che implica identità e diversità.
L’analogia, come insegna il filosofo greco, si distingue dall’univocità e dall’equivocità. Un termine è univoco quando si riferisce a delle realtà con lo stesso significato: per esempio il termine computer utilizzato per denominare ogni computer esistente. Il termine è equivoco quando denota delle realtà con significati diversi: per esempio il termine arancio per denominare l’albero e il colore.
L’ente, dunque, come scrive Dezza, “non è univoco perché, se tutte le cose realmente sono, non sono allo stesso modo; neppure è equivoco perché se tutte le cose sono diverse tra loro, non sono totalmente diverse, ma hanno qualche somiglianza o convenienza; [l’ente] è dunque analogo cioè né tutto eguale né del tutto diverso, ma in qualche modo simile; somiglianza che non è estrinseca, ma è intrinseca alle cose stesse e tocca la loro intima natura […]”[1].
San Tommaso, per esplicitare il concetto di analogia aristotelico, fa due esempi in cui due termini “militare” e “salute” vengono usati in modo analogico.
Il filosofo afferma che l’analogia è presente “in alcuni casi […] che si riferiscono a un unico principio: per es., una cosa viene detta ‘militare’ o perché è lo strumento del soldato, come la spada, o perché è la sua copertura, come la corazza, oppure perché è il suo mezzo di trasporto come il cavallo.
In altri casi, invece, […] che si riferiscono a un unico fine: per es., una medicina viene detta ‘sana’ per il fatto che produce la salute mentre la dieta, per il fatto che conserva la sanità: l’urina, poi, in quanto è segno di salute”[2].
Questo tipo di analogia è detta “analogia di attribuzione” perché uno stesso termine (militare o sano) è “detto in molti modi” a seconda che venga attribuito a una realtà (la spada, la corazza, il cavallo) o ad un’altra (la medicina, la dieta, l’urina).
L’analogia, come vedremo quando parleremo dei “nomi divini”, si distingue in analogia di “attribuzione estrinseca”, “intrinseca”, di “proporzionalità propria o metaforica”.
L’ente si dice “in molti modi” e alcuni di essi trascendono tutte le differenze reali che si trovano negli enti e, per questo motivo, sono chiamati “trascendentali”.
I trascendentali sono gli attributi universali che sono propri dell’ente in quanto ente. Essi sono dedotti logicamente dal concetto di ente e, trattandosi di una deduzione logica, la loro distinzione è operata dalla ragione e non riguarda la realtà. Detto in altri termini, le distinzioni riguardano il modo di considerare
La teoria dei trascendentali è stata elaborata da San Tommaso nella prima questione del De veritate, in essa infatti l’ente è considerato in 2 modi:
1. in se stesso, a) positivamente e b) negativamente,
2. in riferimento ad altro, a) negativamente e b) positivamente.
L’argomento è complesso e la comprensione può essere facilitata analizzando cosa scrive in proposito il filosofo.
Il modo 1 “esprime nell’ente qualcosa o [a] positivamente o [b] negativamente”.
1a) Riguardo all’espressione positiva dell’ente, scrive:
“E non si trova nulla che sia detto affermativamente in modo assoluto, che possa essere inteso in ogni ente, se non la sua essenza, secondo la quale si dice che esso è; e così viene assegnato il nome ‘cosa’, che differisce da ‘ente’ […] perché ‘ente’ viene tratto dall’atto di essere, ma il nome ‘cosa’ esprime la quiddità o essenza dell’ente”[3].
Ogni ente è una ‘cosa’, infatti di qualsiasi ente posso dire che è una cosa: una sedia è una cosa, così come un albero o un uomo, intendendo con questo termine l’essenza di un ente. L’essenza dell’ente-uomo è diversa dall’essenza ente-sedia, ma nella considerazione metafisica devo dire che uomo e sedia sono espresse col termine “cosa”.
La parola cosa significa “essenza” e differisce dal termine ente che significa “ciò che è”.
1b) Relativamente all’espressione negativa dell’ente scrive:
“E la negazione che consegue a ogni ente in maniera assoluta è la non divisione, che viene espressa con il nome ‘uno’: infatti l’uno non è nient’altro che l’ente indiviso”[4].
Ogni ente è “uno” e ciò significa che ogni ente è “indiviso” o perché è semplice o perché è composto, ma le parti di cui è composto sono unite tra di loro, come nel caso dell’essere umano che è l’unione sostanziale di anima corpo.
Il modo 2 “esprime nell’ente qualcosa o [a] negativamente positivamente o [b] positivamente”.
2a) Relativamente all’espressione negativa dell’ente scrive:
“Nel secondo modo, cioè secondo il rapporto di una cosa all’altra, ciò può avvenire in due maniere. Nella prima secondo la divisione di un ente dall’altro, che viene espressa dal nome ‘qualcosa’: infatti si dice ‘qualcosa’ come se si dicesse ‘un’altra cosa’; dunque ogni ente viene detto ‘uno’ in quanto è in sé non diviso, così viene ‘qualcosa’ in quanto è diviso dagli altri”[5].
L’ente è uno in sé, cioè indiviso in sé, e diviso da altro da sé. L’altro da sé in assoluto è il nulla, per cui si può dire che ogni ente è un non-nulla, ma altro da sé è anche ogni determinazione che non è un determinato ente. Per esempio: il fiore non è il non-fiore, quindi non è il tavolo, non è il computer, non è la giraffa e tutti gli altri enti che non sono fiore.
2b) Riguardo all’espressione positiva dell’ente, scrive:
“Nella seconda maniera secondo l’accordo di un ente con un altro; e ciò però non può avvenire se non si prende qualcosa che possa per natura accordarsi con ogni ente: e ciò è l’anima, che è in un certo senso tutte le cose, come viene detto nel terzo libro Sull’anima. Ma nell’anima c’è una facoltà conoscitiva e desiderativa. Dunque l’accordo dell’ente con il desiderio viene espresso da nome ‘buono’, così come all’inizio dell’Etica [Nicomachea] si dice che buono è ciò che tutti desiderano. E l’accordo dell’ente con l’intelletto viene espresso dal nome ‘vero’ ”[6].
L’ente può essere considerato positivamente in riferimento ad altro da
sé, cioè in riferimento all’anima.
L’anima è qui intesa metafisicamente come trasparenza dell’essere: “l’anima è in qualche modo tutte le cose”. Essa ha due facoltà, quella desiderativa o volitiva e quella conoscitiva o intellettiva, i cui oggetti formali sono rispettivamente il “buono”, cioè l’appetibile e il “vero”, cioè l’intellegibile.
In conclusione si deve quindi affermare che ogni “ente” (ens) è “uno” (unum) perché è indiviso in sé, è “cosa” (res), poiché ha un’essenza, è “qualcosa” (aliquid) perché è diverso da ogni altro ente, è “buono” (bonum) perché desiderabile o appetibile, è “vero” (verum) perché intellegibile o conoscibile.
I trascendentali descritti nel De Veritate sono sei: ente (ens), uno (unum), cosa (res), qualcosa (aliquid), “buono” (bonum), “vero” (verum). E’ controversa, secondo i filosofi tomisti, l’affermazione di un settimo trascendentale: il “bello” (pulchrum), inteso come sintesi di tutti i trascendentali, di cui San Tommaso, parla in altre opere[7].
In conclusione, è opportuno riaffermare che i trascendentali sono modi razionali di considerare, di interpretare, gli enti e non sono quindi le categorie con le quali la realtà deve essere catalogata.
Vedremo nel prossimo articolo che le categorie (sostanze e accidenti), a differenza dei trascendentali, hanno un valore ontologico, cioè descrivono come è strutturata la realtà.
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NOTE
[1] P. Dezza, Filosofia. Sintesi scolastica, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1993, IX ed., p. 68.
[2] San Tommaso d’Aquino, Commento all’Etica Nicomachea di Aristotele, I, 7.
[3] Idem, De veritate, I, 1.
[4] Ibidem.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] Scrive in proposito Mondin: “In San Tommaso la bellezza è quasi un ‘trascendentale dimenticato’ (Gilson). Tutto quello che ha detto l’Angelico sulla bellezza si può raccogliere in un paio di pagine, ma sono pagine importanti perché esse contengono gli elementi essenziali di una metafisica della bellezza.
La trattazione più esauriente si trova […] nel suo commento a I nomi divini di Dionigi” (B. Mondin, Introduzione, in S. Tommaso d’Aquino, Commento ai nomi divini di Dionigi, vol. I, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2004, p. 48).
(La sesta parte sarà pubblicata sabato 31 ottobre. La quarta parta è uscita sabato 17 ottobre 2015)