Emozioni e lacrime alla seconda giornata della Festa del Cinema di Roma. Il film Room del regista Lenny Abrahamson ha ottenuto consenso e ovazioni sia dal pubblico che dalla stampa.
Basato sul bestseller di Emma Donoghue arrivato in Italia con il titolo di Stanza, letto, armadio, specchio, il film racconta la storia dell’amore indissolubile tra una madre e un figlio.
Jack è un bambino di cinque anni che vive una vita apparentemente normale: ama correre, guardare la tv, vorrebbe un cane, ma soprattutto ama sua madre. Non sa però che la su vita è tutto tranne che normale…
Vive infatti in un capannone la cui unica apertura all’esterno è un lucernario, è convinto che tutto il mondo sia racchiuso nella sua stanza di dieci metri quadri, crede che all’esterno tutto abbia le sembianze di quello che vede in tv e, soprattutto, non può uscire dalla stanza. Non può uscire perché Old Nick, il carceriere, è l’unico a conoscere il codice per aprire la porta.
Ma questo non importa a Jack, a lui basta l’amore di sua madre, della sua Ma’, per compensare tutte le mancanze, per adattarsi in quel piccolo spazio che, in fondo, per lui rappresenta tutto il mondo.
Ma’ però ne ha abbastanza di tutto questo, Ma’ sa che la vita non è fatta di Stanza, Lucernario, Sedia e Old Nick, e vuole che ora lo sappia anche Jack.
Per farlo dovrà rivelare atroci verità al piccolo bambino, facendolo soffrire e caricandolo di una responsabilità troppo grande per i suoi cinque anni: solo lui, Jack, può salvarla.
La pellicola, già vincitrice del premio del pubblico al recente Festival di Toronto, è un continuo divenire di emozioni e sensazioni, empatia e sofferenza, amore e odio per la sua storia.
Room si fonda su pochi attori, poche scenografie, pochi salti temporali, ma allo stesso tempo è un’infinità di cose insieme: thriller, storia d’amore, separazione, crescita, dramma, rinnovamento… il tutto filtrato dagli occhi dell’innocenza di un bambino di cinque anni. Un’innocenza che presto, troppo presto, è chiamata a fare i conti con la crudeltà della vita, con l’insensatezza della malvagità umana; un’innocenza che si vede costretta a distruggere il proprio piccolo mondo, per far posto ad un mondo tanto più grande, quanto più è spaventoso e privo di punti di riferimento. E per Jack infatti, l’unico punto di riferimento è Ma’…
Ma’ però è una donna provata, annichilita, che ha perso fiducia in se stessa e negli altri; una donna che dopo aver raggiunto la libertà tanto agognata, si troverà schiacciata dal peso della stessa libertà e di un mondo che non le appartiene più.
Al piccolo Jack non resta dunque che avere forza per due, in nome di quell’amore di cui non può fare a meno: “La mia forza è nei miei capelli. Sono pronto a tagliarli, così posso farli avere a Ma’. Pensi che se Ma’ avesse i miei capelli la mia forza passerebbe a lei?”.
Room dà l’impressione di essere un film privo di punti deboli: la cura perfetta dei dettagli psicologici, la straordinaria bravura tecnica del regista nel realizzare inquadrature dall’impatto emotivo devastante, l’attenzione alle più piccole componenti stilistiche, la capacità di girare un film utilizzando incessantemente il punto di vista di un bambino mostrando il mondo alla sua altezza. Il tutto, amalgamato dalle perfette interpretazioni dei protagonisti Brie Larson e Jacob Tremblay. Per quest’ultimo va fatta una menzione speciale: spesso si parla di bambini prodigio nel campo cinematografico, ma in questo caso non esistono definizioni per descrivere la bravura di questo giovanissimo attore e l’impatto determinante che ha sulla riuscita del film. Non si è di fronte semplicemente ad un altissimo livello tecnico attoriale, si è di fronte alla capacità di vivere e far vivere al pubblico quell’innocenza di cui è permeato il film, cosicché all’udire della sua battuta “allora voglio tornare ad avere quattro anni” ogni spettatore desideri questa possibilità, per Jack e per se stesso.
Room è dunque un film che fa piangere, è un film che fa pensare e riflettere, senza però aver bisogno di far leva sul sentimentalismo o sulle emozioni che mette in campo, ma semplicemente svolgendo il compito più nobile del cinema: incarnarle.