Sogno, “leggenda”, realtà: tutto mirabilmente si fonde nelle origini della Basilica di Santa Maria Maggiore, probabilmente la prima chiesa dedicata in Occidente alla Vergine (a parte qualche “memoria” precedente), eretta dopo il Concilio di Efeso (431), che aveva solennemente dichiarato Maria “Theotokos”, Madre di Dio.
L’antica visione di due coniugi, manifestata a Papa Liberio – e da lui stesso confermata – e l’imprevedibile spettacolo della neve “fuori stagione”, sul colle Esquilino, avevano indotto il pontefice a elevare (già cento anni prima di Efeso) un edificio in onore di Maria Santissima, sul tracciato del quale -o comunque nelle immediate vicinanze- sorse nel secolo successivo la Basilica voluta da Papa Sisto III (432-440). Il pio racconto fa parte ormai, da sempre, del patrimonio di fede popolare e di affettuosa devozione che arricchisce il tesoro spirituale della Chiesa.
Oggi pretendiamo – pur legittimamente – di ricostruire eventi e fatti del passato solo su solidissime e documentate basi scientifiche. Rintracciamo, spesso, motivazioni di carattere esclusivamente sociale, strategie politiche, trame e macchinazioni dettate dalla convenienza, dal desiderio di auto-celebrazione (che, per una insaziabile sete di prestigio e di “fama” mondana cova, più o meno, nel cuore di tutti). Così facendo, limitiamo però la prospettiva ai troppo angusti confini della nostra condizione mortale, dimenticando una “regìa” ben più elevata, che, anche attraverso i lacci della nostra povera umanità, traccia le sue provvidenziali vie.
Pure sul Concilio di Efeso e sulla presenza ritenuta troppo “invasiva” di San Cirillo di Alessandria la critica moderna ha mosso le sue obiezioni, rivalutando il rivale, sconfitto dalla assise dei vescovi: il patriarca di Costantinopoli Nestorio. Senza dubbio la ricerca storica ha tutto il diritto di proseguire nella sua indagine, ricostruendo gli avvenimenti e risalendo alle reali intenzioni dei vari personaggi: ma è indiscutibile che proprio grazie al “focoso” carattere di Cirillo fu introdotta, per sempre, nella Chiesa una verità di fede, penetrata nello spirito e nella vita dei credenti.
Comunque siano andate le cose, la festa della “Madonna della Neve” è semplicemente una delle innumerevoli prove dell’amore tenerissimo di Maria, manifestato in ogni epoca ai suoi devoti. Ella ha scelto e benedetto un luogo che – nel trascorrere delle generazioni – avrebbe toccato l’immaginazione e il cuore della gente: certamente per gli straordinari e unici capolavori d’arte che la Basilica gelosamente custodisce (basti soltanto pensare ai meravigliosi mosaici della navata centrale, dell’arco trionfale, dell’abside e del portico, coperto dalla facciata del ‘700), ma anzitutto perché quell’antica chiesa rappresenta l’abbraccio materno della Vergine, che accoglie i suoi figli, li conforta, li dispone all’ascolto della Parola di Dio, li disseta alle acque della Grazia, li introduce all’incontro con il Signore. Come 2000 anni fa, Ella ancora ripete “ai servi”: «Fate quello che vi dirà». Ecco i percorsi dello Spirito, ecco i passi dettati dall’amore, che, pur attraverso i tortuosi cammini della storia e le contraddizioni dell’uomo, giungono ai loro fini di salvezza e di pace.
Anche l’ingenua narrazione di quella inaspettata nevicata estiva parla ancora al cuore, rinnova il filiale affetto verso la Madre di Dio: si dilata, divenendo autentica e genuina devozione, moltiplicandosi nelle mille e mille edicole, cappelle, feste patronali dedicate nel corso dei tempi alla “Madonna della Neve”. Fino alle struggenti e dolcissime note del famoso canto, di Giuseppe de Marzi: “Santa Maria, Signora della neve, copri col bianco soffice mantello, il nostro amico, il nostro fratello: su nel Paradiso, su nel Paradiso, lascialo andare! per le tue montagne”.
Purissima poesia – si dirà – che però tocca le fibre più remote dello spirito e apre l’anima alla consolazione della fede.
* direttore del mensile “Maria di Fatima”